Corriere della Sera 28.2.09
Isolati dal resto del mondo, più di cento gruppi etnici difendono le loro tradizioni fuggendo da ogni contatto con la «civiltà»
Gli «invisibili»: una vita sempre in fuga
di A. Co. S. Ro.
Tre anni fa in Rondônia, regione dell'Amazzonia brasiliana al confine con Perù e Bolivia, furono due funzionari governativi a vedere l'ultimo appartenente alla tribù dei Tumaru. Se lo ricordano bene, visto che puntò contro di loro il suo arco, da non più di dieci metri, prima di fuggire. Di lui non si è più saputo nulla. I due uomini del Funai, l'ente governativo per i diritti degli Indios, erano sulle sue tracce da molti giorni all'interno della foresta, da quando una tribù vicina li aveva avvisati che dei Tumaru era rimasto un solo individuo. Lo volevano trovare, per suggerirgli di unirsi a qualche altra tribù della zona. Ma quell'indio non ne ha voluto sapere. La sua scelta è stata quella di puntare l'arco e correre.
La sua è, o era, una delle circa 230 tribù conosciute che abitano nell'Amazzonia brasiliana, per un totale di 460 mila persone. Prima che arrivassero gli occidentali erano circa sette milioni gli Indios che popolavano la foresta brasiliana. Ma dopo secoli di stragi e devastazioni nel loro territorio, operate prima dai coloni, poi dai grandi allevatori e dalle multinazionali che hanno disboscato, costruito strade e dighe, c'è ancora qualcuno che manca all'appello: sono una quarantina di tribù. Sono quelle definite «no contact»: isolati, mai nessun incontro con altri uomini diversi da loro. Un mondo sconosciuto che vuole rimanere tale. Una vita in fuga, in luoghi sempre più remoti. Di loro non si sa nulla, se non il fatto che esistono.
E già questa è un'impresa che riesce solo agli altri indios che vivono nel fitto della foresta e che, volenti o nolenti, hanno invece contatti con il resto del Paese. Sono loro a riferire ritrovamenti di strumenti da caccia sconosciuti, o di aver visto nativi che non parlano la loro lingua darsi alla fuga nella boscaglia. Si sa in che zona vivono, ma non quanti sono o come sono organizzate le loro comunità.
La tribù dell'Amazzonia brasiliana degli Orowari, che nella loro lingua significa «il gruppo », vive nella riserva di Igarapé Laje, in una zona dello stato di Rondônia al confine con quella chiamata Musacanava, dove si sa che vivono tre diverse comunità di indios isolati. Gli Orowari hanno grande venerazione per questi loro vicini misteriosi: li chiamano «Ko Om Tan Krik Nana», «quelli che si nascondono», e che quindi non sono a conoscenza di un progetto ormai in fase di realizzazione che prevede la costruzione di un sistema combinato di dighe sul fiume Rio Madeira, per realizzare centrali elettriche. Il piano prevede che parte dell'area Musacanava diventi un lago artificiale. «Noi possiamo almeno provare a difendere i nostri diritti, farci sentire. Loro no— spiega Jesse Waram Xijeijn, 32 anni, capo di uno dei quattro villaggi Orowari che si trovano nella riserva di Igarapé Laje —. Li ammiriamo, perché continuano a vivere secondo tradizioni che erano anche nostre. Se saranno costretti a uscire da Musacanava, ammesso che sopravvivano alle ma-lattie e all'alcol, saranno uccisi dai grandi proprietari terrieri che sono ai confini della loro zona. E chi anche riuscirà a sopravvivere avrà perso per sempre il suo modo di vivere». Su come difendere quel mondo anche gli stessi Orowari si dividono. C'è chi ritiene giusto avvicinare «quelli che si nascondono», conoscere le loro tribù, il loro numero, le loro abitudini, perché così si può provare a tutelare meglio la loro area, e chi invece, come Waroi Jexian, uno degli insegnanti della scuola del villaggio, la pensa in modo opposto: «Nel momento stesso in cui avviene la conoscenza, anche da parte di altri indios, è l'inizio della fine delle tribù isolate. È accaduto un'infinità di volte e non basta dire che adesso si fanno subito le vaccinazioni e non muoiono più come un tempo per un semplice raffreddore. Molti muoiono lo stesso e poi il problema non si può ridurre semplicemente a quello della sopravvivenza. Loro vogliono continuare a vivere nella foresta come hanno sempre fatto».
A metà degli anni '80 un gruppo di aderenti alla «Missione delle Nuove tribù», un'organizzazione missionaria fondamentalista con sede negli Usa, organizzarono una spedizione non autorizzata dal governo brasiliano, per entrare in contatto con un gruppo allora sconosciuto, gli Zo'è, nello stato del Pará. Una volta individuati dall'aereo i villaggi, distribuirono regali e costruirono una base a pochi giorni di cammino. Poco dopo il primo contatto, avvenuto nel 1987: decine di Zo'è morirono di influenza, malaria e malattie respiratorie. Di casi come questo ce ne sono stati a decine.
A essere convinto che non esista un modo corretto per entrare in contatto con gli indigeni che scelgono di vivere isolati c'è anche Sydney Possuelo, esploratore, antropologo e primo direttore del Funai, responsabilità che lo ha portato per anni nella foresta a seguire tracce di popoli sconosciuti. Ne ha contattati diversi, e si è pentito di averlo fatto: «Anche se si arriva da loro con le migliori intenzioni, li si introduce in una vita che non è loro. Regaliamo coltelli, pentole, forbici, e in questo modo creiamo bisogni che non avevamo mai avuto prima, rompendo un'armonia che è molto delicata. Gli attrezzi che noi abbiamo lasciato nelle loro mani prima o poi si rompono e a quel punto lo sarà anche il loro equilibrio». Del resto questi popoli incontattati, proprio perché privi di tecnologia moderna, sono in grado di vivere in equilibrio in mezzo a una natura dove tutti gli altri non sarebbero in grado di sopravvivere una settimana. La loro storia, ma in generale quella di tutti gli indios, non sta scritta nei libri. Uno di loro, ormai integrato nella società, Daniel Munduruku, che coordina la collezione «memorie ancestrali» per un'importante casa editrice brasiliana, ha spiegato che «per noi scrivere un libro è una novità: le storie vivono dentro di noi. È più facile che avere a che fare con un libro, il libro pesa».
Isolati dal resto del mondo, più di cento gruppi etnici difendono le loro tradizioni fuggendo da ogni contatto con la «civiltà»
Gli «invisibili»: una vita sempre in fuga
di A. Co. S. Ro.
Tre anni fa in Rondônia, regione dell'Amazzonia brasiliana al confine con Perù e Bolivia, furono due funzionari governativi a vedere l'ultimo appartenente alla tribù dei Tumaru. Se lo ricordano bene, visto che puntò contro di loro il suo arco, da non più di dieci metri, prima di fuggire. Di lui non si è più saputo nulla. I due uomini del Funai, l'ente governativo per i diritti degli Indios, erano sulle sue tracce da molti giorni all'interno della foresta, da quando una tribù vicina li aveva avvisati che dei Tumaru era rimasto un solo individuo. Lo volevano trovare, per suggerirgli di unirsi a qualche altra tribù della zona. Ma quell'indio non ne ha voluto sapere. La sua scelta è stata quella di puntare l'arco e correre.
La sua è, o era, una delle circa 230 tribù conosciute che abitano nell'Amazzonia brasiliana, per un totale di 460 mila persone. Prima che arrivassero gli occidentali erano circa sette milioni gli Indios che popolavano la foresta brasiliana. Ma dopo secoli di stragi e devastazioni nel loro territorio, operate prima dai coloni, poi dai grandi allevatori e dalle multinazionali che hanno disboscato, costruito strade e dighe, c'è ancora qualcuno che manca all'appello: sono una quarantina di tribù. Sono quelle definite «no contact»: isolati, mai nessun incontro con altri uomini diversi da loro. Un mondo sconosciuto che vuole rimanere tale. Una vita in fuga, in luoghi sempre più remoti. Di loro non si sa nulla, se non il fatto che esistono.
E già questa è un'impresa che riesce solo agli altri indios che vivono nel fitto della foresta e che, volenti o nolenti, hanno invece contatti con il resto del Paese. Sono loro a riferire ritrovamenti di strumenti da caccia sconosciuti, o di aver visto nativi che non parlano la loro lingua darsi alla fuga nella boscaglia. Si sa in che zona vivono, ma non quanti sono o come sono organizzate le loro comunità.
La tribù dell'Amazzonia brasiliana degli Orowari, che nella loro lingua significa «il gruppo », vive nella riserva di Igarapé Laje, in una zona dello stato di Rondônia al confine con quella chiamata Musacanava, dove si sa che vivono tre diverse comunità di indios isolati. Gli Orowari hanno grande venerazione per questi loro vicini misteriosi: li chiamano «Ko Om Tan Krik Nana», «quelli che si nascondono», e che quindi non sono a conoscenza di un progetto ormai in fase di realizzazione che prevede la costruzione di un sistema combinato di dighe sul fiume Rio Madeira, per realizzare centrali elettriche. Il piano prevede che parte dell'area Musacanava diventi un lago artificiale. «Noi possiamo almeno provare a difendere i nostri diritti, farci sentire. Loro no— spiega Jesse Waram Xijeijn, 32 anni, capo di uno dei quattro villaggi Orowari che si trovano nella riserva di Igarapé Laje —. Li ammiriamo, perché continuano a vivere secondo tradizioni che erano anche nostre. Se saranno costretti a uscire da Musacanava, ammesso che sopravvivano alle ma-lattie e all'alcol, saranno uccisi dai grandi proprietari terrieri che sono ai confini della loro zona. E chi anche riuscirà a sopravvivere avrà perso per sempre il suo modo di vivere». Su come difendere quel mondo anche gli stessi Orowari si dividono. C'è chi ritiene giusto avvicinare «quelli che si nascondono», conoscere le loro tribù, il loro numero, le loro abitudini, perché così si può provare a tutelare meglio la loro area, e chi invece, come Waroi Jexian, uno degli insegnanti della scuola del villaggio, la pensa in modo opposto: «Nel momento stesso in cui avviene la conoscenza, anche da parte di altri indios, è l'inizio della fine delle tribù isolate. È accaduto un'infinità di volte e non basta dire che adesso si fanno subito le vaccinazioni e non muoiono più come un tempo per un semplice raffreddore. Molti muoiono lo stesso e poi il problema non si può ridurre semplicemente a quello della sopravvivenza. Loro vogliono continuare a vivere nella foresta come hanno sempre fatto».
A metà degli anni '80 un gruppo di aderenti alla «Missione delle Nuove tribù», un'organizzazione missionaria fondamentalista con sede negli Usa, organizzarono una spedizione non autorizzata dal governo brasiliano, per entrare in contatto con un gruppo allora sconosciuto, gli Zo'è, nello stato del Pará. Una volta individuati dall'aereo i villaggi, distribuirono regali e costruirono una base a pochi giorni di cammino. Poco dopo il primo contatto, avvenuto nel 1987: decine di Zo'è morirono di influenza, malaria e malattie respiratorie. Di casi come questo ce ne sono stati a decine.
A essere convinto che non esista un modo corretto per entrare in contatto con gli indigeni che scelgono di vivere isolati c'è anche Sydney Possuelo, esploratore, antropologo e primo direttore del Funai, responsabilità che lo ha portato per anni nella foresta a seguire tracce di popoli sconosciuti. Ne ha contattati diversi, e si è pentito di averlo fatto: «Anche se si arriva da loro con le migliori intenzioni, li si introduce in una vita che non è loro. Regaliamo coltelli, pentole, forbici, e in questo modo creiamo bisogni che non avevamo mai avuto prima, rompendo un'armonia che è molto delicata. Gli attrezzi che noi abbiamo lasciato nelle loro mani prima o poi si rompono e a quel punto lo sarà anche il loro equilibrio». Del resto questi popoli incontattati, proprio perché privi di tecnologia moderna, sono in grado di vivere in equilibrio in mezzo a una natura dove tutti gli altri non sarebbero in grado di sopravvivere una settimana. La loro storia, ma in generale quella di tutti gli indios, non sta scritta nei libri. Uno di loro, ormai integrato nella società, Daniel Munduruku, che coordina la collezione «memorie ancestrali» per un'importante casa editrice brasiliana, ha spiegato che «per noi scrivere un libro è una novità: le storie vivono dentro di noi. È più facile che avere a che fare con un libro, il libro pesa».