Corriere della Sera 28.2.09
America Latina E' l'area in cui resistono le maggiori concentrazioni di indios minacciate dal «progresso»
Oriente Dall'India a Papua sono vittime della violenza politica e dello sfruttamento delle risorse naturali
Popoli indigeni, rischio estinzione
Sono ancora 370 milioni in tutto il mondo In Brasile ogni due anni scompare una tribù
di Alessandra Coppola Stefano Rodi
Genocidio. Un titolo di una sola parola a caratteri cubitali tra le pagine del Sunday Times Magazine svela ai lettori britannici una realtà a lungo nascosta: lo sterminio dei popoli indigeni, avviato nei secoli delle conquiste, non si è mai arrestato. Il reporter Norman Lewis si immerge nelle carte di un'inchiesta della procura generale brasiliana e porta a galla uno scenario da incubo: assassinii di massa, torture, morbi atroci come il vaiolo deliberatamente inoculati, veleni, riduzione in schiavitù, abusi sessuali, furti e soprusi di ogni sorta. Una «tropical Gomorrah», scrive in un passaggio Lewis: «La tragedia degli indiani di America si sta ripetendo, ma compressa in un tempo più breve. Dove dieci anni fa c'erano centinaia di indios, ora ce ne sono poche decine».
Era domenica 23 febbraio 1969, avrebbe potuto essere ieri. A quarant'anni esatti da quell'articolo choc che provocò grande reazione e la nascita di una delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti dei popoli indigeni, «Survival», lo scenario non è cambiato di molto. Francesca Casella, direttrice di «Survival International Italia», fa il punto: «Un progresso importante c'è stato: è cambiato l'atteggiamento dell'opinione pubblica. L'estinzione dei popoli indigeni non è più data per scontata ma gli ostacoli restano tantissimi: violenze, usurpazione delle terre, presunzione che si tratti di popoli rimasti primitivi, che hanno bisogno del nostro aiuto per svilupparsi e cambiare stile di vita. Senza essere consultati».
Le cifre non sfigurerebbero sotto il titolo «Genocidio»: nel secolo scorso in Brasile è scomparsa una tribù ogni due anni, 87 solo tra il 1900 e il 1957. I casi raccontano ancora di una Gomorra nascosta nel fitto della vegetazione. Gli Enawene Nawe, del Mato Grosso, in Brasile. Al principio una storia di speranza: contattati nel 1974 dai missionari gesuiti, erano 97; protetti e lasciati in condizione di prosperare, oggi sono quasi cinquecento. Ma rischiano l'estinzione. La vita della tribù, che ruota intorno al fiume Yuruena, rischia di essere soffocata da un progetto di 77 dighe destinate alla produzione di energia elettrica per i grandi coltivatori della zona, primo tra tutti il magnate della soia Blairo Maggi. Che è anche il governatore dello Stato, cioè colui che firma il via libera al progetto.
La terra usurpata resta il primo problema. Così a Nord del Brasile, nel Marañhao, gli Awà non possono che arretrare davanti alle ruspe e alle motoseghe. In fuga da decenni sono ormai ridotti a trecento, rifugiati ai margini di quella che un tempo era la loro foresta, minacciati dal mondo «civilizzato» che avanza portando malattie, depressione, alcol. Una campagna internazionale era riuscita a vincolare finanziamenti della Banca mondiale destinati allo sviluppo alla demarcazione della loro terra: il Brasile ha eseguito, ma poi non impedisce che la riserva sia costantemente invasa.
Amministrazioni conservatrici o, come nel caso di Lula a Brasilia, progressiste, poco cambia. L'unica differenza la fa la volontà politica. A volte c'è, più spesso manca. Le regole in questi anni sono state fissate; anche l'Onu, il 13 settembre 2007, ha approvato la Dichiarazione sui Diritti dei popoli indigeni. Quanto ai Dongria Kondh, ottomila superstiti asserragliati sulle colline di Niyamgiri, Stato indiano dell'Orissa, più che nel governo puntano sul sostegno della popolazione locale, e sulle campagne internazionali. Da mesi sulle loro terre sono al lavoro gli operai di una delle più grandi compagnie minerarie britanniche, la «Vedanta», che progetta un'immensa miniera di bauxite. Per fermarli «Survival» sta cercando di fare pressione sugli azionisti di «Vedanta».
Sembrano vicende lontane, si scopre che sono anche italiane. Roma, come membro Ue, contribuisce agli aiuti destinati al Botswana (nel 2001 un accordo da 10 milioni di euro) per «salvaguardare le riserve protette». Il governo dello Stato africano però ha un'idea originale della salvaguardia, in particolare del deserto del Kalahari, terra ancestrale dei Boscimani. Una sentenza dell'Alta corte del Botswana riconosce il diritto degli indigeni di vivere in quell'area, ma l'amministrazione li ha ormai sfrattati — con il pretesto di inserirli nella società — e rende impossibile il rientro: cementato l'unico pozzo d'acqua che dava sostentamento all'intera tribù, vietato riaprirlo. Al tempo stesso però è stata autorizzata la perforazione di altri tre pozzi destinati alle attività minerarie, alle strutture turistiche e ad abbeverare gli animali. Una ragione c'è: diamanti. All'inizio offerti (al 50%) alla De Beers, che però dopo la campagna internazionale ha venduto a Gem Diamonds.
A volte è il bisogno di affermare la sovranità, come nel caso dell'Indonesia nella Papua Occidentale, dove gli indigeni sono vittime di una violenta repressione, induritasi nelle ultime settimane. Altre volte ancora è la guerra. In Colombia, per esempio, dove gli indios sono schiacciati negli scontri tra guerriglia, paramilitari ed esercito. È di questi giorni l'allarme per l'uccisione ancora da chiarire di 27 indigeni Awa (nessuna parentela con i brasiliani), secondo una delle ricostruzioni ammazzati dalle Farc perché sospettati di essere collaborazionisti delle forze armate. Il caso colombiano di recente è diventato una lettera preoccupata di 22 europarlamentari al presidente di Bogotá, Álvaro Uribe. Le denunce di violenze e minacce non si contano. Terribile la storia di Aida Quilcue, uccisa il 16 dicembre scorso a un posto di blocco dell'esercito. Laura Greco, una dei fondatori dell'organizzazione italiana «A Sud», lavora anche in Colombia. In particolare è responsabile di un progetto nel Guaviare con il popolo dei Nukak, spinti dal conflitto oltre le proprie terre fino alla periferia della capitale dello Stato, San José. «A Sud» cerca di provvedere a un minima assistenza sanitaria: «Era una popolazione nomade di cacciatori — spiega Laura —. Sedentarizzati in maniera forzata, hanno dovuto radicalmente cambiare abitudini e prima tra tutte l'alimentazione. Il che ha provocato nuove malattie: muoiono anche semplicemente di dissenteria. Di loro non si occupa il governo, né l'amministrazione locale che dice di aver bisogno del via libera da Bogotá. Hanno problemi di integrazione, in pochi sanno lo spagnolo, i bambini non vanno a scuola». Ai margini di tutto, in attesa di estinguersi. Non è molto diverso da quello che Lewis chiamava «genocidio».
America Latina E' l'area in cui resistono le maggiori concentrazioni di indios minacciate dal «progresso»
Oriente Dall'India a Papua sono vittime della violenza politica e dello sfruttamento delle risorse naturali
Popoli indigeni, rischio estinzione
Sono ancora 370 milioni in tutto il mondo In Brasile ogni due anni scompare una tribù
di Alessandra Coppola Stefano Rodi
Genocidio. Un titolo di una sola parola a caratteri cubitali tra le pagine del Sunday Times Magazine svela ai lettori britannici una realtà a lungo nascosta: lo sterminio dei popoli indigeni, avviato nei secoli delle conquiste, non si è mai arrestato. Il reporter Norman Lewis si immerge nelle carte di un'inchiesta della procura generale brasiliana e porta a galla uno scenario da incubo: assassinii di massa, torture, morbi atroci come il vaiolo deliberatamente inoculati, veleni, riduzione in schiavitù, abusi sessuali, furti e soprusi di ogni sorta. Una «tropical Gomorrah», scrive in un passaggio Lewis: «La tragedia degli indiani di America si sta ripetendo, ma compressa in un tempo più breve. Dove dieci anni fa c'erano centinaia di indios, ora ce ne sono poche decine».
Era domenica 23 febbraio 1969, avrebbe potuto essere ieri. A quarant'anni esatti da quell'articolo choc che provocò grande reazione e la nascita di una delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti dei popoli indigeni, «Survival», lo scenario non è cambiato di molto. Francesca Casella, direttrice di «Survival International Italia», fa il punto: «Un progresso importante c'è stato: è cambiato l'atteggiamento dell'opinione pubblica. L'estinzione dei popoli indigeni non è più data per scontata ma gli ostacoli restano tantissimi: violenze, usurpazione delle terre, presunzione che si tratti di popoli rimasti primitivi, che hanno bisogno del nostro aiuto per svilupparsi e cambiare stile di vita. Senza essere consultati».
Le cifre non sfigurerebbero sotto il titolo «Genocidio»: nel secolo scorso in Brasile è scomparsa una tribù ogni due anni, 87 solo tra il 1900 e il 1957. I casi raccontano ancora di una Gomorra nascosta nel fitto della vegetazione. Gli Enawene Nawe, del Mato Grosso, in Brasile. Al principio una storia di speranza: contattati nel 1974 dai missionari gesuiti, erano 97; protetti e lasciati in condizione di prosperare, oggi sono quasi cinquecento. Ma rischiano l'estinzione. La vita della tribù, che ruota intorno al fiume Yuruena, rischia di essere soffocata da un progetto di 77 dighe destinate alla produzione di energia elettrica per i grandi coltivatori della zona, primo tra tutti il magnate della soia Blairo Maggi. Che è anche il governatore dello Stato, cioè colui che firma il via libera al progetto.
La terra usurpata resta il primo problema. Così a Nord del Brasile, nel Marañhao, gli Awà non possono che arretrare davanti alle ruspe e alle motoseghe. In fuga da decenni sono ormai ridotti a trecento, rifugiati ai margini di quella che un tempo era la loro foresta, minacciati dal mondo «civilizzato» che avanza portando malattie, depressione, alcol. Una campagna internazionale era riuscita a vincolare finanziamenti della Banca mondiale destinati allo sviluppo alla demarcazione della loro terra: il Brasile ha eseguito, ma poi non impedisce che la riserva sia costantemente invasa.
Amministrazioni conservatrici o, come nel caso di Lula a Brasilia, progressiste, poco cambia. L'unica differenza la fa la volontà politica. A volte c'è, più spesso manca. Le regole in questi anni sono state fissate; anche l'Onu, il 13 settembre 2007, ha approvato la Dichiarazione sui Diritti dei popoli indigeni. Quanto ai Dongria Kondh, ottomila superstiti asserragliati sulle colline di Niyamgiri, Stato indiano dell'Orissa, più che nel governo puntano sul sostegno della popolazione locale, e sulle campagne internazionali. Da mesi sulle loro terre sono al lavoro gli operai di una delle più grandi compagnie minerarie britanniche, la «Vedanta», che progetta un'immensa miniera di bauxite. Per fermarli «Survival» sta cercando di fare pressione sugli azionisti di «Vedanta».
Sembrano vicende lontane, si scopre che sono anche italiane. Roma, come membro Ue, contribuisce agli aiuti destinati al Botswana (nel 2001 un accordo da 10 milioni di euro) per «salvaguardare le riserve protette». Il governo dello Stato africano però ha un'idea originale della salvaguardia, in particolare del deserto del Kalahari, terra ancestrale dei Boscimani. Una sentenza dell'Alta corte del Botswana riconosce il diritto degli indigeni di vivere in quell'area, ma l'amministrazione li ha ormai sfrattati — con il pretesto di inserirli nella società — e rende impossibile il rientro: cementato l'unico pozzo d'acqua che dava sostentamento all'intera tribù, vietato riaprirlo. Al tempo stesso però è stata autorizzata la perforazione di altri tre pozzi destinati alle attività minerarie, alle strutture turistiche e ad abbeverare gli animali. Una ragione c'è: diamanti. All'inizio offerti (al 50%) alla De Beers, che però dopo la campagna internazionale ha venduto a Gem Diamonds.
A volte è il bisogno di affermare la sovranità, come nel caso dell'Indonesia nella Papua Occidentale, dove gli indigeni sono vittime di una violenta repressione, induritasi nelle ultime settimane. Altre volte ancora è la guerra. In Colombia, per esempio, dove gli indios sono schiacciati negli scontri tra guerriglia, paramilitari ed esercito. È di questi giorni l'allarme per l'uccisione ancora da chiarire di 27 indigeni Awa (nessuna parentela con i brasiliani), secondo una delle ricostruzioni ammazzati dalle Farc perché sospettati di essere collaborazionisti delle forze armate. Il caso colombiano di recente è diventato una lettera preoccupata di 22 europarlamentari al presidente di Bogotá, Álvaro Uribe. Le denunce di violenze e minacce non si contano. Terribile la storia di Aida Quilcue, uccisa il 16 dicembre scorso a un posto di blocco dell'esercito. Laura Greco, una dei fondatori dell'organizzazione italiana «A Sud», lavora anche in Colombia. In particolare è responsabile di un progetto nel Guaviare con il popolo dei Nukak, spinti dal conflitto oltre le proprie terre fino alla periferia della capitale dello Stato, San José. «A Sud» cerca di provvedere a un minima assistenza sanitaria: «Era una popolazione nomade di cacciatori — spiega Laura —. Sedentarizzati in maniera forzata, hanno dovuto radicalmente cambiare abitudini e prima tra tutte l'alimentazione. Il che ha provocato nuove malattie: muoiono anche semplicemente di dissenteria. Di loro non si occupa il governo, né l'amministrazione locale che dice di aver bisogno del via libera da Bogotá. Hanno problemi di integrazione, in pochi sanno lo spagnolo, i bambini non vanno a scuola». Ai margini di tutto, in attesa di estinguersi. Non è molto diverso da quello che Lewis chiamava «genocidio».