l’Unità 20.10.09
L’inesorabile distruzione delle nostre radici culturali
Fiabe, leggende, poesie, canti, danze, consuetudini, riti
Su questi temi, come per altri, si sta tagliando
Il ministero sta annientando le competenze antropologiche
di Sandra Puccini
Il cambio. Chi fa le leggi si inventa miti celtici e altra paccottiglia volgare
Revisionismo- Un paese che si vergogna della sua storia, “revisionismo”
UNESCO. Ha classificato come “patrimonio dell’umanità” i nostri beni storico-artistici. Un riconoscimento che fa dell’Italia un paese unico in Europa. Non dimentichiamolo.
Nel 1911 si teneva a Roma l’Esposizione universale per celebrare il cinquantenario dell’Unificazione italiana. In quella occasione, in un tempo nel quale la diversità degli italiani era considerata un valore e una ricchezza per comporre i lineamenti dell’identità nazionale, accanto a mostre d’arte e di architettura, venne allestita nella capitale la più grande raccolta di oggetti popolari mai realizzata nel nostro paese. Artefice e organizzatore della Mostra fu Lamberto Loria: un celebre etnografo che, dopo dieci anni di viaggi tra i popoli extraeuropei, aveva deciso di rivolgere alla cultura delle nostre classi subalterne la sua esperienza.
Sono passati quasi cento anni e ci avviciniamo velocemente alla celebrazione del centocinquantesimo anniversario di quell’evento. Ma siamo ben lontani dall’entusiasmo di allora: lo dimostrano i ritardi, le rimozioni, le polemiche e le discussioni anche aspre che circondano la preparazione dell’anniversario. Ma c’è poco da stupirsi: i tempi sono oggi cambiati e la diversità (ogni tipo di diversità) è inquietante, fa paura e serve a mettere paura. Del resto molti di coloro che ci governano sono imprigionati in una visione dell’identità meschina e ristretta pari solo all’ignoranza gretta che guida le loro proposte politiche (straparlano di dialetti, evocano il nome di Cattaneo che certo si rivolterà nella tomba e si vantano di usare il tricolore come carta igienica). Competenze e interessi etno-antropologici avevano preso forma e rilievo dal 1869, quando a Firenze erano sorti insieme la prima cattedra di Antropologia e il suo Museo Nazionale (tra i primi a nascere nel mondo occidentale), saldandosi agli studi folklorici: così da documentare a tutto campo tanto la ric-
chezza dei così detti “beni immateriali”, quanto la vita dei popoli. Fiabe, leggende, poesie, canti, danze, consuetudini, riti, feste e poi cibi, usi, attrezzi di lavoro, abiti e apparati cerimoniali. Nell’insieme, un patrimonio enorme fatto di oggetti, immagini, narrazioni, comportamenti che l’Unesco ha classificato come “patrimonio dell’umanità” e che – proprio come i nostri beni storico-artistici – fa dell’Italia un paese unico in Europa. Un patrimonio vitale, la cui tutela e organizzazione richiede ovviamente competenze disciplinari specifiche e aggiornate. Nel nostro paese sono almeno un migliaio i musei della civiltà, del mondo o del lavoro contadino, delle tradizioni popolari, del folklore, etnografici, antropologici e via continuando con le molte denominazioni che essi assumono (e che hanno assunto) nel tempo e nello spazio. Naturalmente questi luoghi, per essere allestiti, promossi, gestiti, richiedono l’uso di saperi particolari: precisamente quelli che vanno sotto il nome di demo-etno-antropologici, che si formano attraverso corsi universitari e scuole di specializzazione. Conoscenze professionali riconosciute dallo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Tutti i tipi di musei che ho ricordato sono luoghi della trasmissione della memoria, vere macchine del tempo che mettono in comunicazione il passato con il presente, i bambini con gli anziani, le tradizioni degli altri con le nostre. E forse, proprio attraverso il contatto con le piccole e le grandi cose della vita quotidiana, aiutano ad immaginare un futuro radicato nella realtà storica e antropologica della nostra società.
Il lungo preambolo era necessario. Parlo di temi culturali, che non hanno a che fare con la perdita di posti di lavoro o con la precarietà: ma che tuttavia impoveriscono le nostre possibilità di conoscenza. Già da qualche anno la direzione dell’Istituto Centrale per la Demoantropologia è stata affidata a storici dell’arte: un nonsenso, malgrado molti musei etno-antropologici abbiano anche un notevole valore estetico. Ma in questi giorni il Ministero dei Beni culturali (con l’avallo dei sindacati di categoria) ha stabilito che i nuovi profili professionali dei dipendenti non comprendano più le competenze antropologiche, accorpandole a quelle a quelle storico-artistiche. Se questo progetto si realizzasse, non solo verrebbero mortificate le professionalità di tutti quelli che lavorano nei nostri musei, ma si farebbe tabula rasa della storia ultracentenaria legata allo sviluppo delle discipline antropologiche italiane. Inoltre si amputerebbe il nostro patrimonio culturale di quelle conoscenze specifiche che sono state (e continuano ad essere) legate alla rappresentazione della vita delle classi subalterne. Naturalmente, il mondo dei museografi e delle istituzioni antropologiche prepara iniziative e mobilitazioni. Ma mi chiedo – e vi chiedo – se non sia questa, in un paese che sembra vergognarsi della sua storia, l’ennesima forma di “revisionismo” o meglio, di obliterazione delle nostre radici culturali. Intanto dall’altra parte dalla parte di chi fa le leggi e probabilmente i regolamenti – si inventano miti celtici e altra paccottiglia volgare.
L’inesorabile distruzione delle nostre radici culturali
Fiabe, leggende, poesie, canti, danze, consuetudini, riti
Su questi temi, come per altri, si sta tagliando
Il ministero sta annientando le competenze antropologiche
di Sandra Puccini
Il cambio. Chi fa le leggi si inventa miti celtici e altra paccottiglia volgare
Revisionismo- Un paese che si vergogna della sua storia, “revisionismo”
UNESCO. Ha classificato come “patrimonio dell’umanità” i nostri beni storico-artistici. Un riconoscimento che fa dell’Italia un paese unico in Europa. Non dimentichiamolo.
Nel 1911 si teneva a Roma l’Esposizione universale per celebrare il cinquantenario dell’Unificazione italiana. In quella occasione, in un tempo nel quale la diversità degli italiani era considerata un valore e una ricchezza per comporre i lineamenti dell’identità nazionale, accanto a mostre d’arte e di architettura, venne allestita nella capitale la più grande raccolta di oggetti popolari mai realizzata nel nostro paese. Artefice e organizzatore della Mostra fu Lamberto Loria: un celebre etnografo che, dopo dieci anni di viaggi tra i popoli extraeuropei, aveva deciso di rivolgere alla cultura delle nostre classi subalterne la sua esperienza.
Sono passati quasi cento anni e ci avviciniamo velocemente alla celebrazione del centocinquantesimo anniversario di quell’evento. Ma siamo ben lontani dall’entusiasmo di allora: lo dimostrano i ritardi, le rimozioni, le polemiche e le discussioni anche aspre che circondano la preparazione dell’anniversario. Ma c’è poco da stupirsi: i tempi sono oggi cambiati e la diversità (ogni tipo di diversità) è inquietante, fa paura e serve a mettere paura. Del resto molti di coloro che ci governano sono imprigionati in una visione dell’identità meschina e ristretta pari solo all’ignoranza gretta che guida le loro proposte politiche (straparlano di dialetti, evocano il nome di Cattaneo che certo si rivolterà nella tomba e si vantano di usare il tricolore come carta igienica). Competenze e interessi etno-antropologici avevano preso forma e rilievo dal 1869, quando a Firenze erano sorti insieme la prima cattedra di Antropologia e il suo Museo Nazionale (tra i primi a nascere nel mondo occidentale), saldandosi agli studi folklorici: così da documentare a tutto campo tanto la ric-
chezza dei così detti “beni immateriali”, quanto la vita dei popoli. Fiabe, leggende, poesie, canti, danze, consuetudini, riti, feste e poi cibi, usi, attrezzi di lavoro, abiti e apparati cerimoniali. Nell’insieme, un patrimonio enorme fatto di oggetti, immagini, narrazioni, comportamenti che l’Unesco ha classificato come “patrimonio dell’umanità” e che – proprio come i nostri beni storico-artistici – fa dell’Italia un paese unico in Europa. Un patrimonio vitale, la cui tutela e organizzazione richiede ovviamente competenze disciplinari specifiche e aggiornate. Nel nostro paese sono almeno un migliaio i musei della civiltà, del mondo o del lavoro contadino, delle tradizioni popolari, del folklore, etnografici, antropologici e via continuando con le molte denominazioni che essi assumono (e che hanno assunto) nel tempo e nello spazio. Naturalmente questi luoghi, per essere allestiti, promossi, gestiti, richiedono l’uso di saperi particolari: precisamente quelli che vanno sotto il nome di demo-etno-antropologici, che si formano attraverso corsi universitari e scuole di specializzazione. Conoscenze professionali riconosciute dallo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Tutti i tipi di musei che ho ricordato sono luoghi della trasmissione della memoria, vere macchine del tempo che mettono in comunicazione il passato con il presente, i bambini con gli anziani, le tradizioni degli altri con le nostre. E forse, proprio attraverso il contatto con le piccole e le grandi cose della vita quotidiana, aiutano ad immaginare un futuro radicato nella realtà storica e antropologica della nostra società.
Il lungo preambolo era necessario. Parlo di temi culturali, che non hanno a che fare con la perdita di posti di lavoro o con la precarietà: ma che tuttavia impoveriscono le nostre possibilità di conoscenza. Già da qualche anno la direzione dell’Istituto Centrale per la Demoantropologia è stata affidata a storici dell’arte: un nonsenso, malgrado molti musei etno-antropologici abbiano anche un notevole valore estetico. Ma in questi giorni il Ministero dei Beni culturali (con l’avallo dei sindacati di categoria) ha stabilito che i nuovi profili professionali dei dipendenti non comprendano più le competenze antropologiche, accorpandole a quelle a quelle storico-artistiche. Se questo progetto si realizzasse, non solo verrebbero mortificate le professionalità di tutti quelli che lavorano nei nostri musei, ma si farebbe tabula rasa della storia ultracentenaria legata allo sviluppo delle discipline antropologiche italiane. Inoltre si amputerebbe il nostro patrimonio culturale di quelle conoscenze specifiche che sono state (e continuano ad essere) legate alla rappresentazione della vita delle classi subalterne. Naturalmente, il mondo dei museografi e delle istituzioni antropologiche prepara iniziative e mobilitazioni. Ma mi chiedo – e vi chiedo – se non sia questa, in un paese che sembra vergognarsi della sua storia, l’ennesima forma di “revisionismo” o meglio, di obliterazione delle nostre radici culturali. Intanto dall’altra parte dalla parte di chi fa le leggi e probabilmente i regolamenti – si inventano miti celtici e altra paccottiglia volgare.