mercoledì 19 agosto 2009
Mille paesini che custodiscono meraviglie
Mille paesini che custodiscono meraviglie
19/08/2009 IL SECOO XIX
il percorso
Da Villar San Costanzo a Marmora, Canosio e Acceglio i segreti di una cultura antica e dell'arte popolare
Villar San Costanzo
Sorta nel 750 attorno al monastero benedettino, che fu distrutto dai saraceni e ricostruito nell'XI secolo. Nella parrocchiale di S.Pietro in Vincoli è possibile ammirare alcuni affreschi del '400 rinvenuti in epoca recente nella Cappella di San Giorgio. Di particolare bellezza e pregio architettonico, è l'Abbazia benedettina di San Costanzo al Monte, ai piedi del Monte San Bernardo, fatta costruire nell'VIII secolo da Ariperto II, Re dei Longobardi dal 702 al 712 d.c., nel luogo dove fu decapitato nel 303 d.c. San Costanzo. Il simbolo sono I Ciciu, enormi massi interessati da un raro e curioso fenomeno di continua erosione che trasforma le pietre in strane figure simili a dei funghi. La zona, che è soggetta a tutela ambientale e richiama turisti da tutta Europa, è attraversata da un percorso ginnico di difficoltà variabile.
Dronero
Splendido il ponte merlato detto Ponte del Diavolo, costruito nel 1428. Attraversando la cittadina si arriva alla chiesa parrocchiale SS. Andrea e Ponzio, realizzata in stile gotico intorno al 1450. A poche decine di metri sorge la chiesa della Confraternita del Gonfalone che ospita un museo di tesori d'arte sacra.
Il Foro Frumentario del 1400 è l'unico esempio in Provincia di loggia mercatale a pianta ottagonale. Negli anni della peste (1522) venne trasformato in cappella di San Sebastiano. La strada principale del paese è costeggiata dai caratteristici portici e i palazzi nobiliari impreziositi da alcune finestre a bifora ornate da aguzze torri.
Roccabruna
Conta 74 borgate, alcune disabitate, altre abitate da giovani imprenditori che hanno intrapreso delle coltivazioni biologiche di prodotti venduti anche nei ristoranti e nei negozi della valle.Cartignano
Accoglie i visitatori con i suoi due borghi divisi dal torrente Maira e collegati da un ponte al cui centro sorge una caratteristico pilone affrescato. Poco sopra sorge il castello edificato nel XV secolo dai Signori Berardi di San Damiano.
San Damiano Macra
Fino all'Ottocento era il centro più importante della Valle Maira. Il paese ha dato i natali ai fratelli Zabreri, celebri scultori del '400, dalla cui bottega uscirono fontane medievali, finestre a bifora e portali scolpiti, tra cui quello della chiesa parrocchiale Santi Cosma e Damiano. Nel cimitero di Pagliero, una lapide di marmo ricorda l'insediamento di una tribù Pollia nel I secolo dopo Cristo.
Macra
Continuando lungo la Provinciale 422 si incontra, poco prima di Macra, la chiesa rupestre di San Salvatore dell'XI secolo, contraddistinta dalla facciata a vela. Sono conservati degli splendidi affreschi tardoromanici. Lungo una mulattiera poco lontano s'incontra la cappella di San Peyre, al cui interno è affrescata una "danza macabra" con scritte in occitano e francese antico.
Celle Macra
Salendo lungo la destra orografica del torrente Maira, si apre un vallone laterale a sinistra che conduce a Celle Macra. La parrocchiale di S. Giovanni Battista conserva al suo interno il celebre polittico del pittore fiammingo Hans Clemer. Da visitare anche la Cappella di San Sebastiano con gli affreschi di Giovanni Baleison del 1484.
Stroppo
Il Comune è ricco di borgate medievali. Sparsi qua e là numerosi gioielli architettonici: la chiesa di San Peyre, del 1200 con l'interno a tre navate affrescate nel XV secolo da un anonimo Maestro, la chiesa di Santa Maria di Morinesio, costruita nel 1700 nel luogo dove precedentemente sorgeva una cappella e il Lazzaretto della frazione Caudano, con la facciata a vela e le finestre a bifora, costruito nel 1463 e utilizzato come ospedale durante le epidemie.
Elva
Salendo ancora lungo la valle, dopo alcuni chilometri, sulla destra si apre il Vallone d'Elva: una strada tortuosa e stretta, carica ancora oggi di mistero, che conduce all'omonimo paese, conosciuto per la parrocchia di S. Maria Assunta interamente affrescata da Hans Clemer e per il museo dei Pels (caviè d'Elva), i celebri commercianti di capelli.Prazzo
Ritornando sulla strada provinciale, pochi chilometri dopo Stroppo si incontra Prazzo, paese ricco di case medievali con portali in pietra.
Marmora Canosio Acceglio
Da Ponte Marmora si accede al Vallone di Marmora e Canosio. Nella canonica della parrocchiale di Marmora, un frate solitario cura e conserva una biblioteca composta da migliaia di testi antichi. Da visitare, la parrocchia di S. Massimo, costruita tra l' VIII e il IX secolo dai monaci dell'Abbazia di San Costanzo. Il suo campanile medievale è ornato da bifore e la cuspide piramidale vanta profili arcuati. A Canosio, di particolare interesse è la borgata Lubac, dove sono presenti alcune abitazioni realizzate con la tipica architettura alpina. Ad Acceglio, l'ultimo Comune della Valle, all'ombra della Rocca Provenzale, circondato da boschi, pascoli e laghi, si trova il Centro Calvinista del '500. Di particolare interesse anche il Museo etnografico di Chialvetta nel Vallone Unerzio.
19/08/2009 IL SECOO XIX
il percorso
Da Villar San Costanzo a Marmora, Canosio e Acceglio i segreti di una cultura antica e dell'arte popolare
Villar San Costanzo
Sorta nel 750 attorno al monastero benedettino, che fu distrutto dai saraceni e ricostruito nell'XI secolo. Nella parrocchiale di S.Pietro in Vincoli è possibile ammirare alcuni affreschi del '400 rinvenuti in epoca recente nella Cappella di San Giorgio. Di particolare bellezza e pregio architettonico, è l'Abbazia benedettina di San Costanzo al Monte, ai piedi del Monte San Bernardo, fatta costruire nell'VIII secolo da Ariperto II, Re dei Longobardi dal 702 al 712 d.c., nel luogo dove fu decapitato nel 303 d.c. San Costanzo. Il simbolo sono I Ciciu, enormi massi interessati da un raro e curioso fenomeno di continua erosione che trasforma le pietre in strane figure simili a dei funghi. La zona, che è soggetta a tutela ambientale e richiama turisti da tutta Europa, è attraversata da un percorso ginnico di difficoltà variabile.
Dronero
Splendido il ponte merlato detto Ponte del Diavolo, costruito nel 1428. Attraversando la cittadina si arriva alla chiesa parrocchiale SS. Andrea e Ponzio, realizzata in stile gotico intorno al 1450. A poche decine di metri sorge la chiesa della Confraternita del Gonfalone che ospita un museo di tesori d'arte sacra.
Il Foro Frumentario del 1400 è l'unico esempio in Provincia di loggia mercatale a pianta ottagonale. Negli anni della peste (1522) venne trasformato in cappella di San Sebastiano. La strada principale del paese è costeggiata dai caratteristici portici e i palazzi nobiliari impreziositi da alcune finestre a bifora ornate da aguzze torri.
Roccabruna
Conta 74 borgate, alcune disabitate, altre abitate da giovani imprenditori che hanno intrapreso delle coltivazioni biologiche di prodotti venduti anche nei ristoranti e nei negozi della valle.Cartignano
Accoglie i visitatori con i suoi due borghi divisi dal torrente Maira e collegati da un ponte al cui centro sorge una caratteristico pilone affrescato. Poco sopra sorge il castello edificato nel XV secolo dai Signori Berardi di San Damiano.
San Damiano Macra
Fino all'Ottocento era il centro più importante della Valle Maira. Il paese ha dato i natali ai fratelli Zabreri, celebri scultori del '400, dalla cui bottega uscirono fontane medievali, finestre a bifora e portali scolpiti, tra cui quello della chiesa parrocchiale Santi Cosma e Damiano. Nel cimitero di Pagliero, una lapide di marmo ricorda l'insediamento di una tribù Pollia nel I secolo dopo Cristo.
Macra
Continuando lungo la Provinciale 422 si incontra, poco prima di Macra, la chiesa rupestre di San Salvatore dell'XI secolo, contraddistinta dalla facciata a vela. Sono conservati degli splendidi affreschi tardoromanici. Lungo una mulattiera poco lontano s'incontra la cappella di San Peyre, al cui interno è affrescata una "danza macabra" con scritte in occitano e francese antico.
Celle Macra
Salendo lungo la destra orografica del torrente Maira, si apre un vallone laterale a sinistra che conduce a Celle Macra. La parrocchiale di S. Giovanni Battista conserva al suo interno il celebre polittico del pittore fiammingo Hans Clemer. Da visitare anche la Cappella di San Sebastiano con gli affreschi di Giovanni Baleison del 1484.
Stroppo
Il Comune è ricco di borgate medievali. Sparsi qua e là numerosi gioielli architettonici: la chiesa di San Peyre, del 1200 con l'interno a tre navate affrescate nel XV secolo da un anonimo Maestro, la chiesa di Santa Maria di Morinesio, costruita nel 1700 nel luogo dove precedentemente sorgeva una cappella e il Lazzaretto della frazione Caudano, con la facciata a vela e le finestre a bifora, costruito nel 1463 e utilizzato come ospedale durante le epidemie.
Elva
Salendo ancora lungo la valle, dopo alcuni chilometri, sulla destra si apre il Vallone d'Elva: una strada tortuosa e stretta, carica ancora oggi di mistero, che conduce all'omonimo paese, conosciuto per la parrocchia di S. Maria Assunta interamente affrescata da Hans Clemer e per il museo dei Pels (caviè d'Elva), i celebri commercianti di capelli.Prazzo
Ritornando sulla strada provinciale, pochi chilometri dopo Stroppo si incontra Prazzo, paese ricco di case medievali con portali in pietra.
Marmora Canosio Acceglio
Da Ponte Marmora si accede al Vallone di Marmora e Canosio. Nella canonica della parrocchiale di Marmora, un frate solitario cura e conserva una biblioteca composta da migliaia di testi antichi. Da visitare, la parrocchia di S. Massimo, costruita tra l' VIII e il IX secolo dai monaci dell'Abbazia di San Costanzo. Il suo campanile medievale è ornato da bifore e la cuspide piramidale vanta profili arcuati. A Canosio, di particolare interesse è la borgata Lubac, dove sono presenti alcune abitazioni realizzate con la tipica architettura alpina. Ad Acceglio, l'ultimo Comune della Valle, all'ombra della Rocca Provenzale, circondato da boschi, pascoli e laghi, si trova il Centro Calvinista del '500. Di particolare interesse anche il Museo etnografico di Chialvetta nel Vallone Unerzio.
lunedì 17 agosto 2009
Pulcinella è “nato” in Etruria
Corriere di Viterbo, 17 agosto 2009
Pulcinella è “nato” in Etruria.
La maschera napoletana affonda le radici proprio nella cultura e nella storia dei Tirreni. Nella necropoli di Tarquinia c’è una tomba con il suo nome.
Gli etruschi sono dappertutto e ci sono alla grande. Ormai l'esercito di turisti a caccia degli enigmatici Tirreni si ingrossa come un fiume in piena. I siti archeologici sono presi letteralmente d’assalto. Ma i misteri intorno a questo popolo sono come gli “esami” di Eduardo De Filippo: non finiscono mai. Non molti, infatti, sanno che l'origine della maschera di Pulcinella, considerata uno dei simboli di Napoli al pari del Vesuvio, affonda invece le sue profonde radici addirittura nella cultura etrusca. Una bella doccia fredda per molti partenopei così attaccati alle loro tradizioni come la mozzarella sulla meravigliosa pizza margherita che si mangia a Posillipo. Ma andiamo a scavare un po’ più a fondo e, soprattutto, spostiamoci a Tarquinia. In località Monterozzi, infatti, esiste una tomba detta appunto del “Pulcinella”. Un vero macigno gettato nello stagno delle conoscenze. Le pitture di questa tomba, che fu scoperta nel 1872 e risale alla fine del VI secolo a.C., sono state, purtroppo, danneggiate dai clandestini. Essa consiste in una camera con soffitto a doppio spiovente. Sul frontone della parete di fondo due leoni fronteggiano la mensola di sostegno del columen. Sulle pareti laterali, dalla cui sommità pendono corone floreali, si svolgono danze, musiche, gare atletiche e corse a cavallo in onore del defunto. Interessante la lira fornita di plettro dipinta al centro della parete di fondo ed il Phersu danzante sulla parete sinistra che si è voluto accostare alla maschera di Pulcinella prima maniera, quello apparso sulle scene con la Commedia dell’Arte. Divertente, grottesco, sguaiato. Gobbo e dal ventre prominente, un voluminoso abito bianco (forse un sudario?) e una maschera dal naso lungo e deforme, una voce stridula a tratti inquietante a tratti semplicemente comica. La tradizione ufficiale vuole che “Pulcinella Cetrulo” sia nato ad Acerra (sarebbe stato addirittura un contadino particolarmente noto per le sue buffonerie, poi reclutato in una compagnia di attori cittadini). Altri attribuiscono l’invenzione della sua maschera all’attore Silvio Fiorillo di Capua, a cavallo tra Cinquecento e Seicento. Più generalmente si usa far risalire la sua figura alle farse atellane del IV secolo a.C., e alla tradizione latina del Maccus. Tuttavia, dietro l'immagine comica e alquanto rassicurante di una delle figure più popolari della Commedia dell’Arte, è possibile dipanare i fili di una mitologia ben più inquietante. Una serie di indizi e studi specifici la ricondurrebbero, infatti, proprio a un terrificante e feroce demone etrusco: Phersu, membro della corte di Persefone, regina degli Inferi. E questo personaggio lo troviamo, sempre a Tarquinia, anche nella tomba detta degli Auguri. In questo caso si tratta di una vera e propria creatura infernale alle prese con un crudele gioco che ha come protagonisti un essere mascherato e con berretto appuntito (il Phersu, appunto) che tiene al guinzaglio un cane e lo aizza contro un individuo incappucciato e armato di una grossa clava nodosa. Probabilmente un prigioniero da giustiziare. E continuando su questo filone si sprecano i racconti popolari che vorrebbero Pulcinella nato dalle viscere del Vesuvio, considerata una delle “bocche dell'Inferno” da un uovo comparso per volere del dio Plutone (il consorte di Persefone, guarda caso). Esiste un’incredibile e sterminata bibliografia su questa maschera e sulle sue origini, sicuramente la più universalmente popolare (alla pari solo di Arlecchino, probabilmente) e incarnata in quell’archetipo universale che studiosi del calibro di Karl Gustav Jung e Karol Kerenyi definirono “il briccone divino”. Pulcinella un significato storico ce l’ha, ma anche artistico-culturale e soprattutto psico-sociale. Descrive chiaramente una perenne emergenza. Simboleggia oggi l’inerme plebeo napoletano che stanco degli abusi e delle umiliazioni perpetrate dalla cinica nobiltà e borghesia, istintivamente senza aver maturato una coscienza del proprio ruolo sociale, si ribella ai potenti, a coloro che nel corso dei secoli hanno imposto una vita dura e avversa al popolo. Quindi ogni partenopeo-Pulcinella con la sua ironia e con la sua forza si burla di ogni forma di potere costituito ed essendo esso stesso l’anima del popolo rispecchia il desiderio di ribellione e di rivincita in ogni sua forma, incarnando il rifiuto per eccellenza di ogni regola o norma, recepite come imposizione e legge estranea-straniera. La sua grande versatilità e adattamento si traducono poi nello sbeffeggiare la tragicità esistenziale con qualche imbroglio o a fare dispetti. E se non impara mai a stare zitto “il segreto di Pulcinella” diventa condivisione del “tutto con tutti”. Nella storiografia Pulcinella, come abbiamo detto, si può rintracciare fra i vari personaggi delle Fabulae Atellanae nate, appunto, ad Acerra. Ma guarda caso città come Acerra, Nola e Sorrento furono colonie etrusche. In questo modo i nodi della matassa si collegano e si stringono. E Pulcinella diventa cittadino onorario d’Etruria
Riccardo Cecchelin
Pulcinella è “nato” in Etruria.
La maschera napoletana affonda le radici proprio nella cultura e nella storia dei Tirreni. Nella necropoli di Tarquinia c’è una tomba con il suo nome.
Gli etruschi sono dappertutto e ci sono alla grande. Ormai l'esercito di turisti a caccia degli enigmatici Tirreni si ingrossa come un fiume in piena. I siti archeologici sono presi letteralmente d’assalto. Ma i misteri intorno a questo popolo sono come gli “esami” di Eduardo De Filippo: non finiscono mai. Non molti, infatti, sanno che l'origine della maschera di Pulcinella, considerata uno dei simboli di Napoli al pari del Vesuvio, affonda invece le sue profonde radici addirittura nella cultura etrusca. Una bella doccia fredda per molti partenopei così attaccati alle loro tradizioni come la mozzarella sulla meravigliosa pizza margherita che si mangia a Posillipo. Ma andiamo a scavare un po’ più a fondo e, soprattutto, spostiamoci a Tarquinia. In località Monterozzi, infatti, esiste una tomba detta appunto del “Pulcinella”. Un vero macigno gettato nello stagno delle conoscenze. Le pitture di questa tomba, che fu scoperta nel 1872 e risale alla fine del VI secolo a.C., sono state, purtroppo, danneggiate dai clandestini. Essa consiste in una camera con soffitto a doppio spiovente. Sul frontone della parete di fondo due leoni fronteggiano la mensola di sostegno del columen. Sulle pareti laterali, dalla cui sommità pendono corone floreali, si svolgono danze, musiche, gare atletiche e corse a cavallo in onore del defunto. Interessante la lira fornita di plettro dipinta al centro della parete di fondo ed il Phersu danzante sulla parete sinistra che si è voluto accostare alla maschera di Pulcinella prima maniera, quello apparso sulle scene con la Commedia dell’Arte. Divertente, grottesco, sguaiato. Gobbo e dal ventre prominente, un voluminoso abito bianco (forse un sudario?) e una maschera dal naso lungo e deforme, una voce stridula a tratti inquietante a tratti semplicemente comica. La tradizione ufficiale vuole che “Pulcinella Cetrulo” sia nato ad Acerra (sarebbe stato addirittura un contadino particolarmente noto per le sue buffonerie, poi reclutato in una compagnia di attori cittadini). Altri attribuiscono l’invenzione della sua maschera all’attore Silvio Fiorillo di Capua, a cavallo tra Cinquecento e Seicento. Più generalmente si usa far risalire la sua figura alle farse atellane del IV secolo a.C., e alla tradizione latina del Maccus. Tuttavia, dietro l'immagine comica e alquanto rassicurante di una delle figure più popolari della Commedia dell’Arte, è possibile dipanare i fili di una mitologia ben più inquietante. Una serie di indizi e studi specifici la ricondurrebbero, infatti, proprio a un terrificante e feroce demone etrusco: Phersu, membro della corte di Persefone, regina degli Inferi. E questo personaggio lo troviamo, sempre a Tarquinia, anche nella tomba detta degli Auguri. In questo caso si tratta di una vera e propria creatura infernale alle prese con un crudele gioco che ha come protagonisti un essere mascherato e con berretto appuntito (il Phersu, appunto) che tiene al guinzaglio un cane e lo aizza contro un individuo incappucciato e armato di una grossa clava nodosa. Probabilmente un prigioniero da giustiziare. E continuando su questo filone si sprecano i racconti popolari che vorrebbero Pulcinella nato dalle viscere del Vesuvio, considerata una delle “bocche dell'Inferno” da un uovo comparso per volere del dio Plutone (il consorte di Persefone, guarda caso). Esiste un’incredibile e sterminata bibliografia su questa maschera e sulle sue origini, sicuramente la più universalmente popolare (alla pari solo di Arlecchino, probabilmente) e incarnata in quell’archetipo universale che studiosi del calibro di Karl Gustav Jung e Karol Kerenyi definirono “il briccone divino”. Pulcinella un significato storico ce l’ha, ma anche artistico-culturale e soprattutto psico-sociale. Descrive chiaramente una perenne emergenza. Simboleggia oggi l’inerme plebeo napoletano che stanco degli abusi e delle umiliazioni perpetrate dalla cinica nobiltà e borghesia, istintivamente senza aver maturato una coscienza del proprio ruolo sociale, si ribella ai potenti, a coloro che nel corso dei secoli hanno imposto una vita dura e avversa al popolo. Quindi ogni partenopeo-Pulcinella con la sua ironia e con la sua forza si burla di ogni forma di potere costituito ed essendo esso stesso l’anima del popolo rispecchia il desiderio di ribellione e di rivincita in ogni sua forma, incarnando il rifiuto per eccellenza di ogni regola o norma, recepite come imposizione e legge estranea-straniera. La sua grande versatilità e adattamento si traducono poi nello sbeffeggiare la tragicità esistenziale con qualche imbroglio o a fare dispetti. E se non impara mai a stare zitto “il segreto di Pulcinella” diventa condivisione del “tutto con tutti”. Nella storiografia Pulcinella, come abbiamo detto, si può rintracciare fra i vari personaggi delle Fabulae Atellanae nate, appunto, ad Acerra. Ma guarda caso città come Acerra, Nola e Sorrento furono colonie etrusche. In questo modo i nodi della matassa si collegano e si stringono. E Pulcinella diventa cittadino onorario d’Etruria
Riccardo Cecchelin
mercoledì 12 agosto 2009
Entroterra e civiltà contadina l´altra Genova sull´Appennino
Entroterra e civiltà contadina l´altra Genova sull´Appennino
12 AGOSTO 2009, LA REPUBBLICA. edizione di GENOVA
Brulica l´entroterra di un turismo per così dire familiare - la villeggiatura, spesso un ritorno a casa - che talvolta ignora, al di là della dissacrazione della tradizione nelle sagre, contesto e storia. Sul territorio si sviluppa comunque una decente bibliografia (manca Gualtiero Schiaffino, peccato, ottimo animatore di temi extramarittimi), di cui vale la pena segnalare alcuni titoli. Intanto Gio Bono Ferrari e la "sua" Fontanabuona, a cura del Centro di Documentazione della civica Biblioteca di San Colombano Certenoli per la colalna "Quaderni del Lascito Cuneo". «Emigrante e viaggiatore - scrive Raffaella Fontanarossa, storico dell´arte - egli condensa in una celebre trilogia inaugurata nel ‘35 dal libro La città dai mille bianchi velieri: Camogli, la sua pionieristica esperienza umana e professionale. Queste opere monumentali sono illustrate da Ferrari stesso, sempre con chine... la conta della sola opera grafica, dunque, supera senza fatica alcuna il migliaio di numeri. Certo non è con l´aritmetica che si fa un pittore, e infatti nessuno vorrà leggere l´opera grafica di Ferrari nella direzione prettamente "artistica" che anzi ne impoverirebbe, alla fine, i reali valori. Che certo comprendono anche la qualità tecnica, la padronanza del disegno dal vero, della prospettiva, della teoria delle ombre, del disegno e del tratteggio a china, ovvero delle più elementari e al tempo stesso basilari conoscenze del pittore, ma che sono, in questo caso, solo uno tra i molteplici medium applicati dall´autore ai paesaggi. Uomo nato a ridosso della nascita della fotografia, Ferrari... non possedeva la macchina fotografica e preferiva affidare la memoria dei luoghi della villeggiatura a semplici schizzi a matita». Un album di ricordi, visti e vivi, quasi il presentimento dell´autore che di lì a qualche decennio tutto sarebbe cambiato: valli spogliate di natura, gente e attività da un lato, borghi affollati e urbanizzati alla svelta e con profitto di pochi dall´altro.
La macchina fotografica è al contrario mezzo privilegiato di Giorgio Bassoli e Giuseppe Danilo Vallarino, come Ferrari viaggiatori d´Appennino e dintorni, curiosi tra la Liguria e il Basso Piemonte, insomma il Genovesato. Dal loro vagare tra un paese e l´altro hanno tratto La chiave del Brebo (Libropiù editore), scorci vecchi e nuovi (forse sempre gli stessi, eterni) dell´entroterra, contadino e ex contadino. Dettagli, spesso inusuali dei luoghi, case, pietre, tombe, persone - sopravvissuti, si potrebbe dire in qualche modo e in fondo a ragione - che i due definiscono "storie e ricordi di luoghi dimenticati". Scrivia, Borbera, Pentemina, Trebbia, Polcevera, Fontanabuona, Vobbia, Scrivia, Bisagno, Lemme, una valle dopo l´altra, su e giù, senza intenti nostalgici, anzi documentaristici, pare con allegria.
A chiudere questa rassegna, due rievocazioni: Sandro Pellegrini ha dato alle stampe una Breve storia del Convento di San Nicola e San Carlo a Recco (edito con il contributo e il patrocinio dell´amministrazione civica). Mario Bottaro, Paolo Ottonello, Emanuela Spada (e un contributo di Riccardo Favero) La Famiglia Podestà, ovvero Potere ed ecomonia a Genova, Prà e in Valle Stura tra Ottocento e Novecento (redzione editore). La biografia del barone sindaco della Genova postunitaria, simbolo della città imprenditrice e borghese.
(s.b.)
12 AGOSTO 2009, LA REPUBBLICA. edizione di GENOVA
Brulica l´entroterra di un turismo per così dire familiare - la villeggiatura, spesso un ritorno a casa - che talvolta ignora, al di là della dissacrazione della tradizione nelle sagre, contesto e storia. Sul territorio si sviluppa comunque una decente bibliografia (manca Gualtiero Schiaffino, peccato, ottimo animatore di temi extramarittimi), di cui vale la pena segnalare alcuni titoli. Intanto Gio Bono Ferrari e la "sua" Fontanabuona, a cura del Centro di Documentazione della civica Biblioteca di San Colombano Certenoli per la colalna "Quaderni del Lascito Cuneo". «Emigrante e viaggiatore - scrive Raffaella Fontanarossa, storico dell´arte - egli condensa in una celebre trilogia inaugurata nel ‘35 dal libro La città dai mille bianchi velieri: Camogli, la sua pionieristica esperienza umana e professionale. Queste opere monumentali sono illustrate da Ferrari stesso, sempre con chine... la conta della sola opera grafica, dunque, supera senza fatica alcuna il migliaio di numeri. Certo non è con l´aritmetica che si fa un pittore, e infatti nessuno vorrà leggere l´opera grafica di Ferrari nella direzione prettamente "artistica" che anzi ne impoverirebbe, alla fine, i reali valori. Che certo comprendono anche la qualità tecnica, la padronanza del disegno dal vero, della prospettiva, della teoria delle ombre, del disegno e del tratteggio a china, ovvero delle più elementari e al tempo stesso basilari conoscenze del pittore, ma che sono, in questo caso, solo uno tra i molteplici medium applicati dall´autore ai paesaggi. Uomo nato a ridosso della nascita della fotografia, Ferrari... non possedeva la macchina fotografica e preferiva affidare la memoria dei luoghi della villeggiatura a semplici schizzi a matita». Un album di ricordi, visti e vivi, quasi il presentimento dell´autore che di lì a qualche decennio tutto sarebbe cambiato: valli spogliate di natura, gente e attività da un lato, borghi affollati e urbanizzati alla svelta e con profitto di pochi dall´altro.
La macchina fotografica è al contrario mezzo privilegiato di Giorgio Bassoli e Giuseppe Danilo Vallarino, come Ferrari viaggiatori d´Appennino e dintorni, curiosi tra la Liguria e il Basso Piemonte, insomma il Genovesato. Dal loro vagare tra un paese e l´altro hanno tratto La chiave del Brebo (Libropiù editore), scorci vecchi e nuovi (forse sempre gli stessi, eterni) dell´entroterra, contadino e ex contadino. Dettagli, spesso inusuali dei luoghi, case, pietre, tombe, persone - sopravvissuti, si potrebbe dire in qualche modo e in fondo a ragione - che i due definiscono "storie e ricordi di luoghi dimenticati". Scrivia, Borbera, Pentemina, Trebbia, Polcevera, Fontanabuona, Vobbia, Scrivia, Bisagno, Lemme, una valle dopo l´altra, su e giù, senza intenti nostalgici, anzi documentaristici, pare con allegria.
A chiudere questa rassegna, due rievocazioni: Sandro Pellegrini ha dato alle stampe una Breve storia del Convento di San Nicola e San Carlo a Recco (edito con il contributo e il patrocinio dell´amministrazione civica). Mario Bottaro, Paolo Ottonello, Emanuela Spada (e un contributo di Riccardo Favero) La Famiglia Podestà, ovvero Potere ed ecomonia a Genova, Prà e in Valle Stura tra Ottocento e Novecento (redzione editore). La biografia del barone sindaco della Genova postunitaria, simbolo della città imprenditrice e borghese.
(s.b.)
domenica 9 agosto 2009
DA OLTRE 200 MILA ANNI I LUPI CANTANO ALLA LUNA
Il sole 24 ore - 29/11/1987
DA OLTRE 200 MILA ANNI I LUPI CANTANO ALLA LUNA
Mario Schiavone
Ampliando le note riportate da Conrad Gesner (Historiae Animalium... Zurigo, 1551-1587) sulle Locuste, Thomas Moffett (o Moufet, 1553-1604) ci tramanda su questo insetto il seguente passo, scritto intorno al 1590: . La storia dei rapporti fra animali e uomini e della loro evoluzione ci sono presentati nell' interessante opera di Robert Delort (Les animaux ont une histoire. Editions du Seuil, 1984), tradotta in italiano e pubblicata nel 1987 dagli Editori Laterza col titolo L' uomo e gli animali dall' eta' della pietra a oggi, (pagg. 426, L. 45.000). Il contenuto testuale di quest' opera e' molto interessante dato che esso, oltre all' indagine storico-scientifica, si basa sull' analisi di quei rapporti intercorsi fra l' uomo e l' animale fin dai piu' antichi tempi. Come lo stesso Autore scrive: . In questo libro la storia degli animali si snoda dalle sue forme piu' semplici sino all' avventura spaziale che mette in orbita cani, scimmie, api e topi. La trattazione e' ricca di dati storici, ma anche di particolari curiosi, provocatorii, familiari, assolutamente inattesi. Numerosissimi i riferimenti alle scienze esatte come pure ai testi sacri, alla letteratura, ai racconti epici del periodo feudale, ai trattati di caccia, ai manuali di veterinaria, alla storia dell' arte, al folclore, alla pubblicita' , ai fumetti (cosi' dal books di copertina posto al libro). In sostanza l' Autore traccia un quadro preciso e ampio di osservazioni curiose e impensabili, anche sugli animali a noi piu' vicini e familiari. Tralasciando l' esposizione noiosa e retorica della classificazione zoologica, egli descrive le vicende storiche di alcuni animali, come quelle riguardanti la zanzara, la locusta, l' ape, il lupo, l' elefante, il coniglio, il gatto, il cane e altri animali. Fra i rapporti dell' uomo con gli animali interessante e' quello con il Lupo (Canis lupus). Per renderci conto di questo rapporto basta gettare uno sguardo alle cronache del passato per capire quale importanza abbia avuto questo animale per l' uomo, tanto e' vero che questa bestia feroce, pur presente sulla Terra da oltre duecentomila anni, ha visto il proprio mondo sconvolto negli ultimi tre millenni: da circa tremila anni fra l' uomo e il lupo e' nata quella rivalita' atavica che ha portato il lupo alla quasi completa estinzione. Il discorso sarebbe troppo lungo, ma rifacendoci a periodi piu' recenti, basti rammentare alcuni episodi verificatisi nei vari paesi. Si racconta che nell' anno 1422, al tempo di Carlo V, periodo in cui l' Europa era stretta in una morsa di carestie e di guerre, nell' ultima settimana di settembre vennero segnalati a Parigi diversi casi di aggressioni di lupi affamati pure proveniente dalla Francia e' la famosa storia della Bete de Ge' vaudau che divoro' fra gli anni 1764-1767 oltre cento persone. Contro la bestia si mobilito' anche Carlo Magno col suo corpo addestrato di lupari, mobilitazione che ricorda quella di Gubbio per liberare la citta' da un , ammansito poi dalle parole di San Francesco. Ovviamente in questi racconti esiste molta fantasia dovuta all' eccitazione popolare e alla trasmissione orale dei fatti. Documentati invece sono quei fatti a noi piu' vicini nel tempo, come quello di una banda di lupi inferociti che, alla fine del secolo scorso, assedio' un villaggio russo sito ai confini con la Siberia, tanto che le persone uscite malconce dalla lotta furono inviate a Parigi dallo Zar per essere sottoposte alle cure di Luigi Pasteur, che in quel periodo stava sperimentando la terapia contro l' idrofobia. Da cio' si capisce come, in tale atmosfera di terrore e di paura, la lotta contro il lupo si sia moltiplicata causando in poco tempo la quasi estinzione di questa specie animale. Naturalmente il lupo da tanta notorieta' non poteva non interessare l' arte, la letteratura, la poesia e successivamente la scienza zoologica. Chi non ricorda gli affreschi di Giotto e di Pisanello che magistralmente hanno raffigurato le sembianze di questo carnivoro? Chi puo' dimenticare le favole di Esopo, la poesia di Dante, di de La Fontaine e di Perrault, fino a Trilussa? Ma il lupo ebbe una parte predominante in quei proverbi popolari che, nati per lo piu' durante il Medioevo, sono giunti fino a noi, come: ha una fame da lupo chiudere il lupo fra le pecore come atto di dissuadere chi pecora si fa, il lupo se la mangia come atto di ammonimento un mondo di lupi come atto di deplorazione e per finire come diceva Plauto Homo hominis lupus. A questi proverbi di condanna, si contrapponevano quelli umoristici e di superstizione, come: in bocca al lupo| come augurio, sempre pero' a condizione che crepi il lupo| Non meno interessanti sono le immagini del lupo nella cultura antica dove lo troviamo associato a Marte, dio della guerra o come emergente dall' oscurita' del bosco, come luce che rompe le tenebre, in questa accezione accostato al nome di Apollo-Licio che significa di luce e di lupo oppure a Miletos, figlio di Apollo, che fondo' Mileto, mentre Romolo, figlio di Marte, allattato dalla lupa, fondo' Roma o anche come e' visto nel mondo nordico che lo associa al dio-lupo (= Belen, Belenos), che in gallico significa appunto lupo.
DA OLTRE 200 MILA ANNI I LUPI CANTANO ALLA LUNA
Mario Schiavone
Ampliando le note riportate da Conrad Gesner (Historiae Animalium... Zurigo, 1551-1587) sulle Locuste, Thomas Moffett (o Moufet, 1553-1604) ci tramanda su questo insetto il seguente passo, scritto intorno al 1590: . La storia dei rapporti fra animali e uomini e della loro evoluzione ci sono presentati nell' interessante opera di Robert Delort (Les animaux ont une histoire. Editions du Seuil, 1984), tradotta in italiano e pubblicata nel 1987 dagli Editori Laterza col titolo L' uomo e gli animali dall' eta' della pietra a oggi, (pagg. 426, L. 45.000). Il contenuto testuale di quest' opera e' molto interessante dato che esso, oltre all' indagine storico-scientifica, si basa sull' analisi di quei rapporti intercorsi fra l' uomo e l' animale fin dai piu' antichi tempi. Come lo stesso Autore scrive: . In questo libro la storia degli animali si snoda dalle sue forme piu' semplici sino all' avventura spaziale che mette in orbita cani, scimmie, api e topi. La trattazione e' ricca di dati storici, ma anche di particolari curiosi, provocatorii, familiari, assolutamente inattesi. Numerosissimi i riferimenti alle scienze esatte come pure ai testi sacri, alla letteratura, ai racconti epici del periodo feudale, ai trattati di caccia, ai manuali di veterinaria, alla storia dell' arte, al folclore, alla pubblicita' , ai fumetti (cosi' dal books di copertina posto al libro). In sostanza l' Autore traccia un quadro preciso e ampio di osservazioni curiose e impensabili, anche sugli animali a noi piu' vicini e familiari. Tralasciando l' esposizione noiosa e retorica della classificazione zoologica, egli descrive le vicende storiche di alcuni animali, come quelle riguardanti la zanzara, la locusta, l' ape, il lupo, l' elefante, il coniglio, il gatto, il cane e altri animali. Fra i rapporti dell' uomo con gli animali interessante e' quello con il Lupo (Canis lupus). Per renderci conto di questo rapporto basta gettare uno sguardo alle cronache del passato per capire quale importanza abbia avuto questo animale per l' uomo, tanto e' vero che questa bestia feroce, pur presente sulla Terra da oltre duecentomila anni, ha visto il proprio mondo sconvolto negli ultimi tre millenni: da circa tremila anni fra l' uomo e il lupo e' nata quella rivalita' atavica che ha portato il lupo alla quasi completa estinzione. Il discorso sarebbe troppo lungo, ma rifacendoci a periodi piu' recenti, basti rammentare alcuni episodi verificatisi nei vari paesi. Si racconta che nell' anno 1422, al tempo di Carlo V, periodo in cui l' Europa era stretta in una morsa di carestie e di guerre, nell' ultima settimana di settembre vennero segnalati a Parigi diversi casi di aggressioni di lupi affamati pure proveniente dalla Francia e' la famosa storia della Bete de Ge' vaudau che divoro' fra gli anni 1764-1767 oltre cento persone. Contro la bestia si mobilito' anche Carlo Magno col suo corpo addestrato di lupari, mobilitazione che ricorda quella di Gubbio per liberare la citta' da un , ammansito poi dalle parole di San Francesco. Ovviamente in questi racconti esiste molta fantasia dovuta all' eccitazione popolare e alla trasmissione orale dei fatti. Documentati invece sono quei fatti a noi piu' vicini nel tempo, come quello di una banda di lupi inferociti che, alla fine del secolo scorso, assedio' un villaggio russo sito ai confini con la Siberia, tanto che le persone uscite malconce dalla lotta furono inviate a Parigi dallo Zar per essere sottoposte alle cure di Luigi Pasteur, che in quel periodo stava sperimentando la terapia contro l' idrofobia. Da cio' si capisce come, in tale atmosfera di terrore e di paura, la lotta contro il lupo si sia moltiplicata causando in poco tempo la quasi estinzione di questa specie animale. Naturalmente il lupo da tanta notorieta' non poteva non interessare l' arte, la letteratura, la poesia e successivamente la scienza zoologica. Chi non ricorda gli affreschi di Giotto e di Pisanello che magistralmente hanno raffigurato le sembianze di questo carnivoro? Chi puo' dimenticare le favole di Esopo, la poesia di Dante, di de La Fontaine e di Perrault, fino a Trilussa? Ma il lupo ebbe una parte predominante in quei proverbi popolari che, nati per lo piu' durante il Medioevo, sono giunti fino a noi, come: ha una fame da lupo chiudere il lupo fra le pecore come atto di dissuadere chi pecora si fa, il lupo se la mangia come atto di ammonimento un mondo di lupi come atto di deplorazione e per finire come diceva Plauto Homo hominis lupus. A questi proverbi di condanna, si contrapponevano quelli umoristici e di superstizione, come: in bocca al lupo| come augurio, sempre pero' a condizione che crepi il lupo| Non meno interessanti sono le immagini del lupo nella cultura antica dove lo troviamo associato a Marte, dio della guerra o come emergente dall' oscurita' del bosco, come luce che rompe le tenebre, in questa accezione accostato al nome di Apollo-Licio che significa di luce e di lupo oppure a Miletos, figlio di Apollo, che fondo' Mileto, mentre Romolo, figlio di Marte, allattato dalla lupa, fondo' Roma o anche come e' visto nel mondo nordico che lo associa al dio-lupo (= Belen, Belenos), che in gallico significa appunto lupo.
IN CANTARI E CANTI LA CULTURA DAL "BASSO"
Il sole 24 ore - 12/06/1988
IN CANTARI E CANTI LA CULTURA DAL "BASSO"
Perche' gli uomini cantano? E perche' lo fanno sia in occasioni di gioia che di tristezza? Perche' il termine e' sempre presente nei loro ritornelli? A queste domande nei libri non c' e' ancora una risposta precisa. Meglio: in essi sono raccolte le canzoni, non i perche' . Dino Coltro _ uno studioso non regolare, che amiamo proprio per questa sua caratteristica _ ha pubblicato Canti e Cantari del Veneto in un grosso volume, costato oltre dieci anni di lavoro. Con rara perizia ha ordinato un materiale che il tempo ha accumulato nelle coscienze ma che gli uomini si sono sempre limitati a farlo vivere nelle bocche, mai hanno pensato di codificarlo. Dal lavoro di Coltro e' nata una testimonianza che puo' essere considerata esemplare e che puo' far da modello ad altre simili raccolte. Occorre precisare che tale opera va catalogata tra quei lavori che fanno da specchio al mondo non sono quel pallido riflesso di iniziative piu' o meno ufficiali che, con la scusa del folclore, racimolano quattrini e robaccia. Si va dalle ninne-nanne alle filastrocche educative, dai motivi che accompagnavano il gioco a quelle parole cantate che scortavano il ciclo dell' anno liturgico, dalle storie cantate alle canzoni vere e proprie. Le mille sfumature della parlata popolare prendono vita ancora una volta, denunciando il ceto da cui escono e le caratteristiche delle persone che le testimoniano. E' il caso, tra i mille, dello spazzacamino , che con il suo lavoro puo' essere paragonato a un amante che concede un' avventura a , dopo averle dato . L' amore diventa una pulizia di camino, con i termini e le situazioni che collimano maliziosamente. Poi ecco la celebre , che presenta una variante rispetto alle sorelle di altri vernacoli, ma non si dimentica di notare , dove si annuncia che l' amore e' comunque breve e , che nulla hanno a che fare con la cultura ufficiale. Dino Coltro, Canti e Cantari del Veneto, Marsilio, Venezia 1988, pagg. 830, L. 90.000
IN CANTARI E CANTI LA CULTURA DAL "BASSO"
Perche' gli uomini cantano? E perche' lo fanno sia in occasioni di gioia che di tristezza? Perche' il termine e' sempre presente nei loro ritornelli? A queste domande nei libri non c' e' ancora una risposta precisa. Meglio: in essi sono raccolte le canzoni, non i perche' . Dino Coltro _ uno studioso non regolare, che amiamo proprio per questa sua caratteristica _ ha pubblicato Canti e Cantari del Veneto in un grosso volume, costato oltre dieci anni di lavoro. Con rara perizia ha ordinato un materiale che il tempo ha accumulato nelle coscienze ma che gli uomini si sono sempre limitati a farlo vivere nelle bocche, mai hanno pensato di codificarlo. Dal lavoro di Coltro e' nata una testimonianza che puo' essere considerata esemplare e che puo' far da modello ad altre simili raccolte. Occorre precisare che tale opera va catalogata tra quei lavori che fanno da specchio al mondo non sono quel pallido riflesso di iniziative piu' o meno ufficiali che, con la scusa del folclore, racimolano quattrini e robaccia. Si va dalle ninne-nanne alle filastrocche educative, dai motivi che accompagnavano il gioco a quelle parole cantate che scortavano il ciclo dell' anno liturgico, dalle storie cantate alle canzoni vere e proprie. Le mille sfumature della parlata popolare prendono vita ancora una volta, denunciando il ceto da cui escono e le caratteristiche delle persone che le testimoniano. E' il caso, tra i mille, dello spazzacamino , che con il suo lavoro puo' essere paragonato a un amante che concede un' avventura a , dopo averle dato . L' amore diventa una pulizia di camino, con i termini e le situazioni che collimano maliziosamente. Poi ecco la celebre , che presenta una variante rispetto alle sorelle di altri vernacoli, ma non si dimentica di notare , dove si annuncia che l' amore e' comunque breve e , che nulla hanno a che fare con la cultura ufficiale. Dino Coltro, Canti e Cantari del Veneto, Marsilio, Venezia 1988, pagg. 830, L. 90.000
domenica 2 agosto 2009
Ha recuperato sentieri e mulini creato un museo "per rispetto dei nostri vecchi"
Ha recuperato sentieri e mulini creato un museo "per rispetto dei nostri vecchi"
CARLO PETRINI
DOMENICA, 02 AGOSTO 2009 LA REPUBBLICA - Torino
Rolando Comba, ristoratore in Val Maira e ultimo baluardo della memoria alpina
In Val Maira il guardiano della montagna è un cuoco
«La montagna è una risorsa, bisogna rispettarla e conoscerla: ti dà tutto. Quello che ho lasciato per vivere qui è molto meno di quello che la montagna mi offre». Chi parla è Rolando Comba, classe 1953, un uomo che ha nel suo Dna la montagna con le sue tradizioni, i suoi paesaggi, la sua biodiversità e, perché no, con i suoi silenzi: «Quest´anno sono scesi sei metri di neve; c´erano momenti in cui l´unico rumore che sentivi era il respiro». Un uomo che ha quasi sempre vissuto a Chialvetta, 1500 metri d´altezza, una frazione di Acceglio, nell´alta Val Maira, in provincia di Cuneo. Una delle valli più belle delle nostre Alpi, che ha saputo mantenere intatte le sue bellezze paesaggistiche e naturali, conservare i numerosi tesori artistici custoditi in chiese e pievi (il turismo mordi fuggi, le grandi strutture alberghiere e le funivie qui non sono ancora arrivati). Qui gestisce l´Osteria della Gardetta (anche posto tappa Gta - Grande Traversata delle Alpi - e dei Percorsi Occitani), locale accogliente, dove offre vitto e alloggio tutto l´anno: «Un primo e un secondo si trovano sempre».
Rolando ha abbandonato la sua valle, per una breve parentesi, alla fine degli anni Sessanta, per studiare alla scuola alberghiera di Alassio: cucinare è sempre stata la sua passione.
SEGUE A PAGINA IX
CARLO PETRINI
Dopo gli studi e varie esperienze in importanti alberghi e ristoranti di Liguria, Piemonte e Svizzera, non resiste al richiamo della sua montagna e ritorna a casa: «Il Palace Hotel di St Moritz mi propose un ottimo contratto per convincermi a rimanere». Siamo nel 1975, a casa il papà e il fratello mandano avanti l´attività agricola e l´allevamento e la mamma gestisce la locanda aperta dal nonno Odoberto Costanzo nel ‘35: «In quegli anni - ricorda con una leggera malinconia Rolando - la parrocchia di Chialvetta contava 600 anime, ora siamo rimasti in 6. C´era la scuola elementare con 60 alunni». Ben presto il fratello per motivi di lavoro si trasferisce in pianura. Rolando con il padre ristruttura la stalla, il suo lavoro si divide tra la campagna e la locanda, senza tralasciare i suoi hobby legati alla montagna: caccia, lavorazione del legno e recupero di oggetti della tradizione. Nel 1982, dopo la morte del padre, lascia perdere l´allevamento: «Qui nell´osteria non ci sono orari, i clienti bisogna accudirli». La sua scelta non è stata facile: «Il primo anno nevicò parecchio, in tutto l´inverno feci 7 o 8 coperti. La strada era sempre chiusa. Ma sono ostinato, se credo nelle cose vado avanti: sempre bin va nen, sempre mal nianche [niente va sempre bene, ma neanche sempre male]. Ora, faccio un lavoro che mi piace in un posto incantevole, mi guadagno da vivere, e poi tanto i soldi non te li porti al cimitero». L´ostinazione di chi ama una cosa e non se ne priverebbe mai e il tempo gli sta dando ragione. Ormai la sua osteria è meta di francesi e tedeschi: «Tra gli italiani, i trentini e altoatesini sono clienti affezionati. Ci sono gite organizzate per vedere il nostro paesaggio, la flora e la fauna abbondante nella valle, o scoprire i diversi percorsi adatti per ogni tipo di escursione. Senza trascurare la gioia di stare insieme seduti a tavola». In questi anni molte cose sono cambiate. Se da un lato arrivare a Chialvetta non è più un´impresa, la strada è ben tenuta anche nei mesi invernali, dall´altro si è assistito a un costante spopolamento: «Dicono che la gente va via dalla montagna, ma non si fa nulla per fermarli. I finanziamenti non sono la soluzione, servono meno burocrazia e più servizi. Aprire un locale qui su da noi o aprirlo a Cuneo è la stessa cosa. Io, ad esempio, sono sempre aperto perché il mio locale è anche un servizio per gli escursionisti (ricovero, posto telefonico,...), ma per questo, secondo gli studi di settore, dovrei avere un reddito altissimo. Come può, poi, una famiglia scegliere di vivere qui se non ha la scuola per i figli o se per una raccomandata deve fare molti chilometri? Stanno chiudendo tutte le scuole e gli uffici postali». Nelle sue parole c´è la rabbia di vedere la sua montagna morire. Allora cerca di farla vivere in tutti i modi. Insieme a lui, Maria Luisa che ha lasciato l´insegnamento per non trasferirsi in pianura dopo la chiusura, in valle, della scuola in cui lavorava. Con le loro sole forze, hanno recuperato l´antico sentiero che da Acceglio porta alle frazioni del vallone di Unerzio e il forno della borgata, e, a partire dal 1992 hanno allestito un museo della tradizione restaurando e catalogando migliaia di pezzi, ricostruendo ambienti e situazioni di vita in montagna. «Fino a qualche anno fa quando uscivo incontravo degli anziani con cui parlare, e sempre imparavo qualcosa. Questo lavoro l´abbiamo fatto per loro, per il rispetto che dobbiamo a delle persone che hanno duramente lavorato anche per il nostro bene. Potessero tornare indietro sarebbero felici di vedere che le loro cose sono ancora conservate». Ora stanno recuperando il mulino di una frazione vicina che vorrebbero poi rimettere in funzione. Rispetto della natura e della tradizione: sono anche gli ingredienti principi della sua cucina. Programmate una gita in Valle Maira, per un´escursione o una semplice passeggiata, andate a Chialvetta da Rolando per assaporare una pasta di erbe appena raccolte dietro casa, o una torta di verdure cotta nel forno a legna recuperato, o le conserve che prepara con cura, o un dolce (qui la mano è di Maria Luisa). Poi non andate via frettolosamente, chiedete di accompagnarvi nel museo. Forse da quel giorno se non siete degli estimatori della montagna cambierete opinione e la vivrete con maggiore rispetto, se già l´amate sarete grati al lavoro fatto da Rolando e Maria Luisa. «Chi vive in montagna ascolta la sonorità dell´anima perché può cogliere i suoni della natura»: queste parole dell´amico e grande maestro Ermanno Olmi rendono bene il senso dell´atmosfera respirata durante questo incontro.
(storiedipiemonteslowfood. it)
CARLO PETRINI
DOMENICA, 02 AGOSTO 2009 LA REPUBBLICA - Torino
Rolando Comba, ristoratore in Val Maira e ultimo baluardo della memoria alpina
In Val Maira il guardiano della montagna è un cuoco
«La montagna è una risorsa, bisogna rispettarla e conoscerla: ti dà tutto. Quello che ho lasciato per vivere qui è molto meno di quello che la montagna mi offre». Chi parla è Rolando Comba, classe 1953, un uomo che ha nel suo Dna la montagna con le sue tradizioni, i suoi paesaggi, la sua biodiversità e, perché no, con i suoi silenzi: «Quest´anno sono scesi sei metri di neve; c´erano momenti in cui l´unico rumore che sentivi era il respiro». Un uomo che ha quasi sempre vissuto a Chialvetta, 1500 metri d´altezza, una frazione di Acceglio, nell´alta Val Maira, in provincia di Cuneo. Una delle valli più belle delle nostre Alpi, che ha saputo mantenere intatte le sue bellezze paesaggistiche e naturali, conservare i numerosi tesori artistici custoditi in chiese e pievi (il turismo mordi fuggi, le grandi strutture alberghiere e le funivie qui non sono ancora arrivati). Qui gestisce l´Osteria della Gardetta (anche posto tappa Gta - Grande Traversata delle Alpi - e dei Percorsi Occitani), locale accogliente, dove offre vitto e alloggio tutto l´anno: «Un primo e un secondo si trovano sempre».
Rolando ha abbandonato la sua valle, per una breve parentesi, alla fine degli anni Sessanta, per studiare alla scuola alberghiera di Alassio: cucinare è sempre stata la sua passione.
SEGUE A PAGINA IX
CARLO PETRINI
Dopo gli studi e varie esperienze in importanti alberghi e ristoranti di Liguria, Piemonte e Svizzera, non resiste al richiamo della sua montagna e ritorna a casa: «Il Palace Hotel di St Moritz mi propose un ottimo contratto per convincermi a rimanere». Siamo nel 1975, a casa il papà e il fratello mandano avanti l´attività agricola e l´allevamento e la mamma gestisce la locanda aperta dal nonno Odoberto Costanzo nel ‘35: «In quegli anni - ricorda con una leggera malinconia Rolando - la parrocchia di Chialvetta contava 600 anime, ora siamo rimasti in 6. C´era la scuola elementare con 60 alunni». Ben presto il fratello per motivi di lavoro si trasferisce in pianura. Rolando con il padre ristruttura la stalla, il suo lavoro si divide tra la campagna e la locanda, senza tralasciare i suoi hobby legati alla montagna: caccia, lavorazione del legno e recupero di oggetti della tradizione. Nel 1982, dopo la morte del padre, lascia perdere l´allevamento: «Qui nell´osteria non ci sono orari, i clienti bisogna accudirli». La sua scelta non è stata facile: «Il primo anno nevicò parecchio, in tutto l´inverno feci 7 o 8 coperti. La strada era sempre chiusa. Ma sono ostinato, se credo nelle cose vado avanti: sempre bin va nen, sempre mal nianche [niente va sempre bene, ma neanche sempre male]. Ora, faccio un lavoro che mi piace in un posto incantevole, mi guadagno da vivere, e poi tanto i soldi non te li porti al cimitero». L´ostinazione di chi ama una cosa e non se ne priverebbe mai e il tempo gli sta dando ragione. Ormai la sua osteria è meta di francesi e tedeschi: «Tra gli italiani, i trentini e altoatesini sono clienti affezionati. Ci sono gite organizzate per vedere il nostro paesaggio, la flora e la fauna abbondante nella valle, o scoprire i diversi percorsi adatti per ogni tipo di escursione. Senza trascurare la gioia di stare insieme seduti a tavola». In questi anni molte cose sono cambiate. Se da un lato arrivare a Chialvetta non è più un´impresa, la strada è ben tenuta anche nei mesi invernali, dall´altro si è assistito a un costante spopolamento: «Dicono che la gente va via dalla montagna, ma non si fa nulla per fermarli. I finanziamenti non sono la soluzione, servono meno burocrazia e più servizi. Aprire un locale qui su da noi o aprirlo a Cuneo è la stessa cosa. Io, ad esempio, sono sempre aperto perché il mio locale è anche un servizio per gli escursionisti (ricovero, posto telefonico,...), ma per questo, secondo gli studi di settore, dovrei avere un reddito altissimo. Come può, poi, una famiglia scegliere di vivere qui se non ha la scuola per i figli o se per una raccomandata deve fare molti chilometri? Stanno chiudendo tutte le scuole e gli uffici postali». Nelle sue parole c´è la rabbia di vedere la sua montagna morire. Allora cerca di farla vivere in tutti i modi. Insieme a lui, Maria Luisa che ha lasciato l´insegnamento per non trasferirsi in pianura dopo la chiusura, in valle, della scuola in cui lavorava. Con le loro sole forze, hanno recuperato l´antico sentiero che da Acceglio porta alle frazioni del vallone di Unerzio e il forno della borgata, e, a partire dal 1992 hanno allestito un museo della tradizione restaurando e catalogando migliaia di pezzi, ricostruendo ambienti e situazioni di vita in montagna. «Fino a qualche anno fa quando uscivo incontravo degli anziani con cui parlare, e sempre imparavo qualcosa. Questo lavoro l´abbiamo fatto per loro, per il rispetto che dobbiamo a delle persone che hanno duramente lavorato anche per il nostro bene. Potessero tornare indietro sarebbero felici di vedere che le loro cose sono ancora conservate». Ora stanno recuperando il mulino di una frazione vicina che vorrebbero poi rimettere in funzione. Rispetto della natura e della tradizione: sono anche gli ingredienti principi della sua cucina. Programmate una gita in Valle Maira, per un´escursione o una semplice passeggiata, andate a Chialvetta da Rolando per assaporare una pasta di erbe appena raccolte dietro casa, o una torta di verdure cotta nel forno a legna recuperato, o le conserve che prepara con cura, o un dolce (qui la mano è di Maria Luisa). Poi non andate via frettolosamente, chiedete di accompagnarvi nel museo. Forse da quel giorno se non siete degli estimatori della montagna cambierete opinione e la vivrete con maggiore rispetto, se già l´amate sarete grati al lavoro fatto da Rolando e Maria Luisa. «Chi vive in montagna ascolta la sonorità dell´anima perché può cogliere i suoni della natura»: queste parole dell´amico e grande maestro Ermanno Olmi rendono bene il senso dell´atmosfera respirata durante questo incontro.
(storiedipiemonteslowfood. it)
Iscriviti a:
Post (Atom)