mercoledì 23 aprile 2008

Quando s'andava in processione da San Dordi contro peste e grandine

Il Gazzettino, 23 aprile 2008
LA RICORRENZA
Quando s'andava in processione da San Dordi contro peste e grandine
Nel Bellunese San Dordi (Giorgio) é titolare di 4 parrocchiali e di altre chiese minori. Leggenda vuole che S. Giorgio uccidesse con la lancia un terribile drago, simbolo del male. Così è effigiato ad esempio nella chiesa di S. Giovanni Battista di Libano di Sedico dove lo scorso anno è stato riscoperto un affresco attribuito all'artista del '500 Giovanni da Mel. S. Giorgio fu caro ai Longobardi che gli intitolarono diversi castelli in Valbelluna; la sua devozione giunse al culmine quando crociati feltrini portarono delle sue reliquie nel santuario di S. Vittore.

E' datata addirittura 882 la notizia della prima chiesa dedicata d S. Giorgio a Vezzano, presso Belluno. In comune di Sedico è l'isolata e alpestre chiesetta di Libàno a vantare tradizioni come la processione valligiana che, fino a 60 anni fa saliva lassù, a 1.300 m. di quota, per ottenere l'intercessione del santo contro grandine e siccità, nemiche mortali del raccolto. In cima si portavano anche i bimbi che non mangiavano formaggio, chiedendo al santo di liberarli da un problema che li privava d'un cibo diffuso e a buon mercato.

Caratteristica, a Sorriva, é la tradizionale "menestra de San Dordi". La peste del 1631, quella dei Promessi Sposi, anche lì causò tante vittime. Fidando in Dio, i paesani fecero voto di santificare le feste, digiunare nelle vigilie e fare vita veramente cristiana. Il voto, troppo oneroso, poi mutò, santificando il 23 aprile e offrendo alla chiesa un paliotto di cuoio raffigurante il Santo. A ciò si aggiunsero la processione votiva e la preparazione della minestra per i poveri fatta coi fagioli, curati e triturati, cotta in grandi paioli di rame. La festa si perpetua da allora la domenica successiva al 23 aprile e comprende la processione con i cappati che portano croci, torce e stendardo, la messa, la benedizione e la distribuzione della minestra preparata ogni anno da tre famiglie.

Giovanni Larese

Cadore, terra di storia, spesso sepolta.

Il Gazzettino, 23 aprile 2008

Cadore, terra di storia, spesso sepolta. Capace talora di riemergere offrendo conferme o solo suggerendo nuovi percorsi d'indagine. Vi si addentrano da un po' di tempo in qua gli attivi gruppi archeologici cadorini. Si parte sovente sulla scorta di leggende o immagini vive dalla tradizione popolare. Tra questi sta il mistero dell'antica Agonia. Se ne era interessato Cesare Vecellio, cugino e discepolo del grande pittore, nel suo "Degli Habiti antichi et moderni" (nella foto), edito a Venezia nel 1590. Dell'esistenza della mitica città non sembrò nutrire il minimo dubbio anche se ai suoi tempi doveva ammettere che non ne rimanesse traccia alcuna, eccezion fatta per «i fondamenti d'un castello con un bagno d'acqua sulfurea, essendo divenuto il resto per la maggior parte un bosco».

Che Agonia fosse esistita lo sosteneva del resto messer Odorico Soldano, cancellerie della Comunità e contemporaneo del Vecellio, sulla scorta di documenti che affermava di possedere. Senza contare le medaglie d'argento e di bronzo affiorate dalla terra nel corso dei lavori dei campi. Con l'aggiunta del «piccolo cavallo di bronzo coperto d'una pelle di Leone», che Cesare Vecellio diceva di aver visto nella casa dell'illustre famiglia Mainardi di Lorenzago e di aver tenuto in mano con gran soddisfazione «per vedere la bella maniera dei nostri antichi in questi lavori di tal Cavallo, al quale mancava un piede». Fosse stato anche così, Antonio Ronzon nel suo "Dal Pelmo al Peralba" del 1896 concludeva che «delle scritture ricordate dal Vecellio, delle medaglie e del cavallo di bronzo nessuno sa dir più niente». Più oltre Ronzon osservava che «del castello rimane forse il ricordo nel nome "Castellato" che anche oggi - scriveva - si dà ad un sito non molto distante dal punto dove l'Ansiei si versa nel Piave». E a pensarci pare verosimile che in un luogo come Gogna, stategicamente importante, potesse sorgere un fortilizio, magari comunemente chiamato "castello".

Tra i sostenitori dell'esistenza di un castello di Gogna ci fu anche, nel Settecento, don Giovanni Antonio Barnabò, autore dell'"Historia della Provincia di Cadore". Riferiva «come alla ripa del fiume Anasso, detto comunemente Piave era situato un nobile e principal Castello, che chiamavasi Euganio, benchè di questo non vi resti, se non il solo nome, anche corrotto dalla barbara loquella degli antichi abitatori, che vien hora chiamato Agogna». Di Agonia parla anche il Ciani nella sua "Storia del popolo cadorino". Narra che attorno al 1200 a.C. un contingente di Euganei, sotto l'incalzare di Antenore alla guida di schiere di Teucri e Paflagoni, scampati all'incendio di Troia e approdati alle coste adriatiche, risalirono le gole del Piave fermandosi «dove sono fronteggiate dal Tudajo e dal Piedo». E qui eressero più rocche, la più importante delle quali fu detta Euganea. L'"oppido Euganea", in seguito "Agonia", «sarebbe sorto in un piano alquanto inclinato più verso Mezzodì che Occidente». Pure lui doveva tuttavia arrendersi all'evidenza: ai suoi giorni di quanto descritto non si rinveniva traccia alcuna. A sua volta Venanzio Donà nella sua "Storia Antica del Cadore", risalente a metà Ottocento, scriveva che «presso Auronzo sulle rive del Piave e dell'Anseio, i debili avanzi d'un castello, rimembranza invero la più vetusta di quante si conoscono in queste parti, fanno ricordare l'opinione, che quivi avessero abitato un dì quei popoli rammentati da Polibio chiamati "Agoni"».

Il mistero, in assenza di oggettivi riscontri, permane. E se fra tante congetture una verità storica esiste, il segreto resta ben custodito dalla terra.

Bruno De Donà

martedì 22 aprile 2008

Miti, Leggende e Storia. Dopo aver ...

Il Gazzettino, 28 marzo 2008
Miti, Leggende e Storia. Dopo aver parlato della presenza (e dell'importanza) del fico nelle vicende leggendarie dell'origine di Roma e nel Vecchio e Nuovo Testamento, non possiamo non accennare al suo significato nella mitologia egizia. Va tuttavia precisato che anche in questo caso ci riferiamo al sicomoro (ficus sycomorus), pianta presente in particolare nell'Africa Orientale e, soprattutto, in Egitto. A differenza del fico nostrano, si tratta di un grosso albero con tronchi eretti, dai cui rami scendono radici avventizie tabulari che servono di sostegno. Il suo legno, durissimo, veniva usato dagli antichi Egizi soprattutto per la fabbricazione dei sarcofagi.

Ebbene, secondo gli antichi Egizi, con l'arrivo della primavera l'Uovo cosmico (plasmato da Ptah e da lui deposto sulle rive del Nilo) si apriva e ne usciva Ra/Osiride, il Sole. Il fiume viveva in simbiosi col dio del sole. Recita infatti il "Libro dei Morti" (celebrando il perpetuo rigenerarsi della vita, la resurrezione di tutte le cose caduche): "Cresce, io cresco; vive, io vivo". Finalmente cessava il pianto di Iside (sempre alla ricerca del suo amato Osiride) e, per festeggiare la fine del suo dolore, si mettevano in scena gli episodi del mito di Osiride, culminanti nella resurrezione del dio, che avveniva quando dalle zolle alla base del sicomoro sacro iniziavano a spuntare i germogli di grano e orzo. Il fico sicomoro era insomma considerato un albero cosmico assimilato alla fenice. Era reputato quindi simbolo di immortalità, di vittoria sulla morte, di rinascita dalla distruzione. Era, in altre parole, l'Albero della Vita. Il suo succo, inoltre, era prezioso perché si riteneva donasse poteri occulti e il suo legno (come abbiamo già visto) era usato per la fabbricazione dei sarcofagi: seppellire un morto in una cassa di sicomoro significava reintrodurre la persona nel grembo della dea madre dell'albero, facilitando così il viaggio nell'aldilà. Nel "Libro dei Morti", infine, il sicomoro è l'albero che sta fuori dalla porta del Cielo, da cui ogni giorno sorge il dio sole Ra.

Esso inoltre era consacrato alla dea Hathor, chiamata anche la "dea del sicomoro". La dea Hathor appare sotto forme diverse. Dea madre, feconda e nutrice, Hathor abita gli alberi ed è la "signora del sicomoro del sud", a Menfi; ma è anche la "signora dell'occidente", ossia la signora del regno dei morti.

Un ultimo accenno infine al fico sicomoro nella numerologia. Il sicomoro è legato al numero 9, il numero tre volte sacro (3x3=9), il numero dell'Amore Universale. Rappresenta l'immagine completa dei 3 mondi: materiale, psichico e animico ed è simbolo di verità totale e completa (il 9 moltiplicato per qualsiasi altro numero dà un prodotto le cui cifre sommate tra loro danno ancora 9).

Legno e suo uso.E' di colore (parliamo evidentemente dell'albero "nostrano") bianco-giallognolo, senza netta distinzione degli anelli annuali, è tenero, idoneo per piccoli lavori; è di modestissimo valore anche come combustibile.

Proprietà curative.Dato che quasi tutte le parti della pianta hanno (in modo più o meno marcato) proprietà medicinali, descriveremo (in modo ovviamente schematico) le caratteristiche terapeutiche di ognuna.

Gemme fresche:l'attività è da attribuirsi agli enzimi digestivi contenuti; regolarizza la motilita' e la secrezione gastroduodenale, soprattutto in soggetti con reazioni psicosomatiche a livello gastrointestinale.

Foglie:raccolte da maggio ad agosto e fatte essiccare lentamente, hanno proprietà in particolare antinfiammatorie ed espettoranti.

Frutti immaturi, parti verdi e giovani rametti:il lattice che sgorga dai tagli viene applicato per uso esterno per eliminare calli e verruche, soprattutto per la sua azione caustica; è irritante per la pelle.

Frutti freschi:assunti in quantità hanno un effetto lassativo.

Frutti essiccati:ricchi di vitamine A e B, proteine e zuccheri, hanno proprietà emollienti, espettoranti e lassative.

Fichi cotti:si possono impiegare per applicazioni esterne in caso di foruncoli, scottature o altre irritazioni della pelle.

Decotto di fichi secchi:è indicato contro infiammazioni delle vie respiratorie e urinarie, gastriti e coliti; può essere impiegato per sciacqui e gargarismi, utili nelle irritazioni delle gengive e nel mal di gola.

Curiosità.Il cosiddetto fico strangolatore. E' una pianta terribile, che non è presente alle nostre latitudini, ma si trova per lo più nelle foreste tropicali. Già il nome, di per sé, non promette niente di buono. Si sviluppa come una pianta aerea e, mentre cresce, si avvolge al tronco di un altro albero; si prolunga fino a penetrare nel terreno e prendere lentamente il posto dell'albero ospite. L'esito è normalmente quello della morte dell'albero ospite, che sopraggiunge per soffocamento e oscuramento della chioma. A prima vista, le foglie del fico strangolatore mascherano il "delitto" e anche le radici aeree sono così saldate e aderenti da sembrare il vero tronco anziché le appendici del parassita. Un suo esemplare lo troviamo, ad esempio, nel museo zoologico e giardino botanico (Zoologisches und Botanisches Museum) di Amburgo, che (tra l'altro) possiede una collezione di reperti zoologici di così alto valore scientifico da essere considerato uno dei musei più importanti nel suo genere in Germania. Nella sezione botanica si svela il mondo vegetale nelle sue infinite varietà: piante utili, spezie, piante tessili, caucciù, piante oleifere e da zucchero, piante tintorie, cereali e funghi autoctoni. Tra le attrazioni, il segmento di un potente 'fico strangolatore' del Camerun, una pianta, appunto, che cresce come un parassita attorno ad un'altra fino a causarne la morte.

(4- fine)

A cura dell'Associazione Forestali d'Italia

e della Direzione centrale per le risorse agricole, forestali , naturali e montagna

della regione Friuli Venezia Giulia

Origini di Belluno fra storia e mito

Il Gazzettino, 22 aprile 2008
Cinque incontri a Cesiomaggiore su storia e leggende della Valle del Piave. Apre Franchi rievocando Flavio Ostilio
Origini di Belluno fra storia e mito
"Tra storia e mito. Cinque incontri su storia e leggende della Valle del Piave" è il titolo d'una iniziativa culturale varata per cinque mercoledì consecutivi dal comune di Cesiomaggiore (in foto) e dalla biblioteca civica, nei cui locali (in via Gei 7) viene ospitata. Tutti gli incontri si tengono alle 20.30.

Si inizia domani con Francesco Piero Franchi, storico locale ed italianista, il quale si occuperà del tema "Le orme degli dei: tracce di mitologia locale", soprattutto sulla scorta della seicentesca storia di Belluno di Giorgio Piloni, il cui primo capitolo è tutto dedicato alle origini mitiche della città, che avrebbe avuto nel cavaliere Flavio Ostilio, uccisore d'un pericolosissimo cinghiale, il fondatore di Belluno.

Il secondo appuntamento avrà per protagonista il 30 aprile Marco Perale, esperto di storia medievale locale che racconterà di Castel d'art, il fortilizio conteso tra bellunese e trevigiani nell'alto medio evo che diede origine a uno dei primi componimenti in volgare, citato come tale nelle principali storie di letteratura italiana.

Negli altri tre incontri si lascerà il mito in favore della storia. Sarà un altro studioso ed amministratore locale, il sindaco di Lentiai Flavio Tremea, a offrire una sintesi dei quasi mille anni di storia che riguardano la contea di Cesana ed il territorio di Lentiai: la serata è in programma il 7 maggio.

Un relatore prestigioso come Gigi Corazzol, già docente di storia dell'agricoltura a Ca' Foscari animerà il penultimo appuntamento tutto incentrato sulla figura di Francesca Canton alla cui vicenda giudiziaria cinquecentesca egli dedicò vent'anni fa un sapido libricino.

Nel segno della storia sarà anche la tappa conclusiva della rassegna che vedrà Paolo Giacomel e Mario Gris raccontare del primo Ottocento nel Feltrino, al tempo del regno Lombardo Veneto. Un'iniziativa articolata, e impegnativa, che intende dare un contributo all'approfondimento storico del bellunese.

sabato 19 aprile 2008

Sua maestà il maiale, il re della tavola

L'Arena, mercoledì 29 marzo 2006 inserti pag. 53
Gli studenti dell’alberghiero Berti di Soave hanno concluso un progetto
didattico sull’animale
Sua maestà il maiale, il re della tavola
Alimento principe della cultura contadina, vive una riscoperta culturale Soave. Soppressa e prosciutto crudo con grissini e pan biscotto, salame ai ferri con polenta, cotechino e verze su crostone di pane, risotto mantecato con tastasale, bigoli con verdure e salsiccia, coscia di maiale in crosta, patate al forno, spinaci al burro, sbrisolona, i vini della Cantina di Soave ed il sopraffino Recioto di Soave firmato Coffele: un saggio di fine anno presi per la gola.
Così gli studenti delle terze classi di cucina e sala della sede associata dell’alberghiero Angelo Berti hanno voluto concludere il progetto didattico che per la prima parte dell'anno scolastico li ha messi al cospetto di sua maestà il maiale. Proprio dall’animale che è simbolo della tradizione contadina ha preso le mosse il progetto interdisciplinare «Il maiale, patrimonio dell’Umanità», coordinato da Alessandro Ferro che ha coinvolto l’insegnante di sala-bar Fausto Fanini, la docente di lettere e storia Claudia Posani, quella di alimentazione Maria Luisa Zanfanti e l’insegnante di religione Virginio Tino Turco.
Dalla letteratura alla tradizione, dal simbolismo alla religione passando per la storia, i valori nutrizionali e la cucina, il maiale è stato letteralmente sviscerato. Il maiale è diventato nell’approfondimento didattico la chiave di lettura della civiltà contadina.
Dopo la teoria, via con la pratica: i ragazzi ai fornelli; gli Alpini di Prova Giulio Biancon e Luciano Benati a confezionare in diretta le soppresse donate, poi come souvenir agli invitati al banchetto; Marco Masconale a giocare di affettatrice sulle carni color granato del prosciutto crudo; i coristi della Piccola Baita di San Bonifacio ad intonare le cantate della tradizione.
In mezzo i «testi sacri» dedicati al maiale e riproposti da Enzo Coltro, Lucia Ruina, Renato Magnabosco e Bruno Masotti, mentre la storia locale è stata raccontata da Ernesto Santi e Massimo Priori. Il tutto nel corso di una serata aperta alle autorità del paese, ai rappresentanti della Provincia e della Regione.
«Nel Medioevo i maiali erano abbastanza simili ai cinghiali, venivano allevati in spazi aperti dove si potevano muovere liberamente, ed erano quindi magri e snelli, con zampe lunghe e sottili. Si presentavano con la testa più grande e lunga, il grifo appuntito e non a tappo, le orecchie corte ed erette, le setole ritte sulla schiena.
Erano bestie di colore scuro, rosso o nerastro», ha spiegato ai ragazzi lo storico Ernesto Santi, «e si trattava di bestie più piccole e leggere di almeno tre volte rispetto a quelle attuali. Nell’epoca moderna e con l’avvento della Repubblica veneta il maiale troverà ampio spazio nell'azienda agricola e nell'economia della villa e del contado».
È in quest’epoca che il maiale diventa «un modo concreto di rispondere alle esigenze alimentari e s’inserisce sinergicamente nel sistema rurale, entrando prima a far parte di quella cultura e diventando poi un vero protagonista della cucina veronese».
Un maiale baluardo dell’identità veneta e veronese? Assolutamente sì, almeno dal punto di vista dello storico, che mette l’animale «alla base del sistema alimentare della famiglia contadina».
A nobilitarne l’immagine e a tesserne le lodi ci si è messa, del resto, anche la letteratura, a cominciare dai millenari Testi dei Sarcofagi ed i Libri dei Morti di tradizione egizia. Venne poi Omero che nell’Odissea prima diede alla maga Circe il compito di trasformare i soldati di Ulisse in porci, salvo poi prevedere che il rientro dell'eroe ad Itaca venisse celebrato con due porcellini appena cotti serviti da Eunico. Maia, la dea greca madre di Mercurio, finì addirittura col dare il nome a quell’animale che tradizionalmente le veniva offerto in sacrificio.
«Pirandello e George Orwell fanno del maiale il simbolo dell'uomo stesso», ha spiegato l’insegnante di lettere, «proponendolo come specchio di un’umanità coinvolta nel gioco folle della guerra o ciecamente protesa solo verso la cupidigia, l’egoismo, la voglia di opprimere i più deboli».
Ma prima di arrivare ai contemporanei, e tra loro c’è anche Boccaccio, c’è la Cina di diecimila anni fa, visto che pare fosse stato il popolo dagli occhi a mandorla il primo a cimentarsi con l’allevamento del maiale. Non a caso proprio in Cina la carne di maiale è uno degli elementi principe della tradizione gastronomica, senza contare che «l’ideogramma della lingua cinese usato per descrivere la famiglia e la casa è composto di due caratteri: il primo rappresenta il tetto, mentre nel secondo, posto sotto il tetto, è rappresentato il carattere del maiale, l’animale familiare per eccellenza che, addomesticato a beneficio dell’uomo, può girare liberamente per casa», ha spiegato l’insegnante di religione.
Continuando il giro del mondo e delle culture attorno al maiale si comprende così come il tabù legato al consumo della sua carne, proprio in Cina, costituisca il maggiore ostacolo alla diffusione dell’islamismo che, nel Corano, dichiara impura e immonda la carne del maiale. «Le ragioni del divieto», ha aggiunto Turco, «sono approssimativamente le stesse che valgono nell’ebraismo. Il maiale è considerato un animale che mangia tutto, non condivide, non ragiona e non sa distinguere», senza contare l'ambiente lurido in cui vive.
Questa visione è riscontrabile anche nel Nuovo testamento fino al momento in cui anche il maiale torna ad essere un elemento della creazione, un dono di Dio e quindi positivo. Il cristianesimo trova anche in questo aspetto uno dei valori propri di distinzione da altri culti, ed è Sant’Antonio del deserto ad esserne in un certo senso l'emblema. È a tavola, insomma, che si conosce la cultura di un popolo ed è proprio alla luce delle odierne contaminazioni cultural-gastronomiche che il progetto, il prossimo 6 aprile, vivrà un secondo momento con una giornata di seminario nella chiesa di Santa Maria dei Domenicani, dedicata al cibo come memoria storico-religiosa nell'ebraismo e nel cristianesimo. La giornata, promossa in collaborazione con la Comunità ebraica di Verona e l’Ufficio diocesano per l’ecumenismo e il dialogo, proporrà agli studenti delle classi seconde la tavola come luogo di conoscenza e di incontro tra ebraismo e cristianesimo.
Di rito pagano si parla però anche a proposito della truculenta cerimonia di trasformazione dell’animale più amato della casa nei piatti più gustosi per la famiglia. Un rito che cominciava nel staloto riempiendo fino al colmo il classico bandoto di polenta, patate, mele, zucche, farinazzo e avanzi fatti bollire. Poi veniva l’ora del massin, delle grida con cui il povero maiale denunciava il tradimento e dopo un po’ quelle di gioia della famiglia che tra testa, guaciale, lardo, coppa, carrè, nodini, lombi, puntine, pancetta, spalla, coscia, zampetto, codino, interiora e cotenna celebravano un nuovo benessere.
«Davanti al primo maiale della storia», si legge nel volumetto edito da T-studio che racconta tutto il progetto degli alunni soavesi del Berti, «l’umanità scoprì improvvisamente la gioia di vivere. Improvvisamente l’uomo poteva avere una fonte alimentare illimitata ed un sacco di tempo libero da utilizzare per attività ludiche prima sconosciute: insaccare i salami, stagionarli, mangiarli».
Paola Dalli Cani

Miti e leggende dello Stretto

Gazzetta del Sud, 19 giugno 1999
Incontro organizzato dal circolo culturale "L'Agorà"a Palazzo Piacentini
Miti e leggende dello Stretto
Presentato uno studio di Orlando Sorgonà
Domenico Grillone
Vengono portati ancora oggi in processione due giorni prima la festa dell'Assunta a Messina, e misurano da terra una decina di metri. Mata e Grifone, un uomo moro e una donna bianca costruiti in legno e cartapesta, da noi conosciuti come "u giganti e a gigantissa" , fanno parte di una antica tradizione popolare che li identifica come i fondatori della città di Messina. Ma sono altrettanto conosciuti anche a Reggio, dal momento che durante le festività mariane settembrine, sfilano lungo le vie della città. Pochi giorni addietro, durante i festeggiamenti per la Reggina, un'inedita "gigantissa" in maglia amaranto ha ballato per tutto il tempo assieme ai tifosi. Mata e Grifone sono solo un esempio di quei miti e leggende nell'area dello Stretto, una sottile striscia di mare attraversato dalle navi delle antiche civiltà fenicia, egiziana, greca, romana, dagli arabi, dalle flotte inglesi, francesi e spagnoli. E proprio su questi miti e leggende il circolo culturale "L'Agorà" ha organizzato un incontro nella sala congressi di palazzo Piacentini, al Museo della Magna Grecia. Con il supporto di alcune diapositive Orlando Sorgonà, responsabile del Centro studi del sodalizio organizzatore, ha condotto i presenti in un "viaggio" nell'immenso patrimonio mitologico presente nell'area dello Stretto. Sorgonà ha reso spunto da antichi classici e dalla tradizione orale di anziani pescatori, ma anche dalla toponomastica dei luoghi attraverso la quale ha approfondito le sue ricerche. Dalla sua dotta relazione abbiamo estratto alcune di queste leggende, quelle più interessanti, probabilmente conosciute da molti ma in maniera superficiale e senza quel supporto storico che contraddistingue lo studio del ricercatore. Leggende e miti, d'accordo, ma con interessanti riscontri storici. «In queste storie c'è sempre un fondo di verità», afferma Sorgonà, da anni in giro per la Calabria alla ricerca, attraverso le testimonianze dei più anziani, di qualsiasi elemento che possa confermare le sue ricerche.
Cominciamo quindi con Cola Pesce, la leggenda forse più conosciuta dalle nostre parti, il mitico "tuffatore" che affrontava le onde del mare in tempesta per soccorrere marinai: salvava i bambini e domava la furia di Scilla e Cariddi. Il suo nome, ovviamente, nel corso del tempo si trasformò in Pisci Nicola, Nicola Pesce, Piscicola. Nell'età rinascimentale venne chiamato Gialanti Pisci, con riferimento al Nettuno scolpito dal Montorsoli (la monumentale fontana che oggi si trova a Messina). Il "tuffatore" riaffiora nelle leggende popolari rivolte a dare corpo a un personaggio dalla connotazione reale, un uomo dalle straordinarie capacità natatorie tanto da competere con i pesci e che nel fondo del mare viveva come se fosse il suo elemento naturale, guidando le navi fuori dalle tempeste e, nello stretto di Messina, facilitando la navigazione. La sua impresa più famosa, secondo la leggenda, fu la periodica ispezione delle tre colonne che dal fondo del mare sostenevano Messina e addirittura Messina. Si trattava, come afferma Sorgonà, di una trasposizione fantasiosa legata all'ancestrale paura degli eventi sismici che periodicamente squassavano l'isola ed in modo particolare Messina. Il mito di Colapesce si vestiva però di presunta storicità durante la dominazione normanna. Lo scrittore medievale Gualtiero Maspes vantava di "Nicola Pipe" i famosi tuffi e lo poneva anche al centro di gare fra nuotatori per conquistare al corona regale o una borsa di monete che il monarca gettava in mare per dilettarsi, aumentando di volta in volta il premio. Sino a quando Cola, esausto, non aveva più la forza di emergere e la morte suggellava la fine di un gioco crudele.

La colonna di Nettuno e il Cavallo magico di Scilla

Gazzetta del Sud, 20 giugno 1999
Incontro con lo studioso Orlando Sorgonà organizzato dall'associazione "L'Agorà"
La leggenda della Fata Morgana
La colonna di Nettuno e il Cavallo magico di Scilla
Domenico Grillone
Si occupa di tradizioni popolari dall'età di diciotto anni. Per Orlando Sorgonà, responsabile del Centro studi dell'associazione culturale "L'Agorà", lo studio particolare dei miti e leggende nell'area dello Stretto riveste un fascino particolare, tanto da contattare vecchi pescatori della fascia ionica, anziani del vibonese che hanno ereditato dalla tradizione orale dei propria vi una serie di racconti che possono essere identificati in tantissime leggende, come quella che riguarda Teti, la grande madre dello Stretto, con al suo seguito le nereidi. Proprio una di queste nife fece perdere la testa ad un mitico pastore di Bagnara, un certo Graziano. Lo sfortunato amante, dopo una serie di vicissitudini, si disperò e lacrimò tanto da trasformarsi nell'omonimo torrente, il cui alveo ancora oggi si può osservare dalle alture dell'autostrada. È solo una delle tante leggende che Orlando Sorgonà ha tratteggiato nel corso di un incontro organizzato nella sala Piacentini del Museo. Ieri avevamo parlato della leggenda di Mata e Grifone, "u giganti e a gigantissa" , e del mitico tuffatore Cola Pesce. MA il patrimonio mitologico della nostra area è davvero ricchissimo, tanto da spingere i numerosi turisti che visitano il museo a richiedere sistematicamente notizie e pubblicazioni mitologiche. Un altra interessante leggenda riguarda la colonna di Nettuno. Nel porto di Catona, i reggini per difendersi dalle calamità naturali e dagli invasori, avevano eretto una colonna a forma di torre sormontata dalla statua di Nettuno. Questa divinità, secondo il mito, preservò la città quando con il suo tridente formò lo stretto affinché più sicuro dalle insidie vivesse a Reggio Giocasto, figlio di Eolo. Questa colonna esistette fino al 1500, e Paolo Diacono la vide in mezzo al mare, pressocchè identica a quella, pure in mezzo al mare, che si nota nel celebre "Trionfo della morte" di Brueghel il vecchi, ambientato nel porto di Catona. Ancora più affascinante la leggenda di Ruggero e la Fata Morgana. Si narra che dopo aver accompagnato il fratello morente ai piedi dell'Etna, Morgana, che con l'inganno aveva carpito a Merlino i segreti dei suoi poteri magici, costruì fra il vulcano e lo Stretto di Messina un castello sul fondo del mare. Un giorno, mentre Ruggero D'Altavilla guardava dalla costa calabra la Sicilia, aspettando il momento propizio per conquistarla, ecco uscire dal mare e prendere forma davanti allo sbigottito Ruggero la bellissima Morgana che gli promette la conquista in breve tempo dell'isola.
Ma Ruggero rifiutò. Solo il sostegno di Dio ed il coraggio può essere utile ad un valoroso condottiero, che non può accettare di essere vittorioso in battaglia per un incantesimo. La Fata Morgana è ancora lì, nel suo castello in fondo al mare, nel segreto di quelle acque, e produce sullo stretto una delle magie che incantano i viaggiatori. Fenomeni di tremule fantastiche immagini, sospese tra mare e cielo, che da sempre gli abitanti dei luoghi chiamano, chissà perché, Fata Morgana. Un miraggio che, com'é noto, è un fenomeno ottico dovuto alla rifrazione che i raggi luminosi subiscono quando passano attraverso strati d'aria di diversa densità: nell'aria appaiono immagini varie e suggestive che possono avverarsi nelle giornate calde e con aria e mare calmo. Nei pressi di Scilla, su un promontorio, si trovano i resti di una torre diroccata che guarda lo Stretto, chiamata Torre Cavallo: la fantasia popolare vuole che il nome della località derivi dall'antica statua di un destriero costruita con arte magica dal cui piede destro usciva fuoco e dal sinistro acqua; con l'acqua difendeva la Sicilia dagli incendi del vulcano e col fuoco dal passaggio dei barbari. Sono solo alcune delle tante leggende fiorite nell'area dello Stretto, presto curate in un volume curato dalla stessa associazione culturale "L'Agorà", assieme a dei video ed ampi servizi fotografici che il presidente Gianni Aiello e lo stesso Sorgonà stanno curando da tempo.

L’Aspromonte e la “chanson de gestes”

Il Quotidiano della Calabria, 12 maggio 2000
Al museo della Magna Grecia un convegno storico organizzato dall’associazione “L’Agorà”
L’Aspromonte e la “chanson de gestes”
c.r.
ANCHE l'Aspremonte ha la sua "chanson de gestes". E a sfatare il mito che i poemi epico-cavallereschi del ciclo carolingio non oltrepassassero i Pirenei, è stata Carmelina Sicari, la preside dell'istituto Magistrale, durante il convegno organizzato nei giorni scorsi al museo della Magna Grecia. La manifestazione, organizzata dal circolo culturale L'Agorà, è stata introdotta brevemente da Natale Bova, che ha poi lasciato la parola alla Sicari, che ha ripercorso la sua avventurosa ricerca del manoscritto. La data della nascita del poema in ottave è collocabile nel XII secolo e fino al XVI ha subito diversi rifacimenti.
L'autore, che è rimasto anonimo, era uno di quei cantori che, condito di buone letture ma con mezzi linguistici non molto raffinati, intratteneva le piazze. Questi poemi erano infatti le "telenovelas" medievali: il cantore le interrompeva proprio nel momento cruciale dell'azione e dava appuntamento al pubblico per la prossima serata. E proprio uno di questi cantori, che avevano un'attività itinerante, deve aver portato a Ferrara la nostra "chanson d'Aspremont". Infatti, la preside Sicari ha rintracciato il testo del poema in una biblioteca ferrarese. Per rinvenirlo ha fatto una vera e proprio caccia al tesoro. La prima traccia, Carmelina Sicari l'ha trovata nell'Orlando Furioso dell'Ariosto. Nel suo poema scritto in ottave come la nostra chanson, il letterato ferrarese dice che Orlando ha strappato l'elmo al suo nemico Almonte proprio sull'Aspromonte (proprio come poi confermerà il codice con il nostro poema). Ma, a questa prima indicazione, Carmelina presto ne aggiunge un'altra. Andrea da Barberino ha infatti scritto un poema, "L'Aspromonte" appunto, informato alle guerre tra cristiani e pagani. Qui, c'è un indicazione geografica dettagliata: lo sbarco dei pagani è addirittura collocabile nei pressi del torrente Calopinace, per la presenza dei tre mulini. Insomma, L'Aspromonte è stato fonte di ispirazione letterarie per l'Ariosto e per Barberino e entrambi conoscevano la nostra "chanson", visto che è fuor di dubbio che abbiano mai vistato la nostra montagna. In più, l'Ariosto ha attinto alla chanson d'Aspremont non solo per la citazione (l'elmo di Orlando rubato sull'Aspromonte) ma anche per l'identikit di una delle figure meglio riuscite del suo poema. Bradamante, la guerriera da cui discenderà la stirpe degli Estensi (i signori di Ferrara), è Gallicella, la guerriera che poi sposerà Ruggiero di Risa (Reggio), il solo che è riuscito a batterla nelle armi. La figura di Bradamante allude chiaramente a Isabellla d'Este, donna intelligentissima e protettrice di artisti e letterati che Ariosto celebra nel suo poema. Ritornando a la chanson d'Aspremont, sarà dopo la morte di Ruggiero di Risa, tradito dal fratello, che Reggio viene consegnata alle truppe pagane e il mondo cattolico comprende l'importanza della posizione strategica della nostra città. Da Reggio è possibile espugnare tutto il mondo cristiano. A quel punto Rolandino, il piccolo Orlando che si infurierà con l'Ariosto, scende con le truppe cattoliche in Aspromonte e qui si scontrerà con Almonte, fratello di Gallicella, e gli ruberà l'elmo e il cavallo Brigliadoro. Già da piccolo, nella "chanson d'Aspremont", promette bene e da grande manterrà le previsioni: ma queste sono le gesta di un'altra storia, quella dell'Ariosto.

La morte e i riti nel reggino

Il Domani, 24 febbraio 2001
Giornata di studi organizzata dal Circolo culturale “L’Agorà”: usi funebri che spesso rivivono in certe tradizioni
La morte e i riti nel reggino
Fino a poco tempo fa a Bagnara venivano “ingaggiate” le prefiche
Anna Ida Musolino
Si è conclusa la giornata di studi organizzata dal circolo culturale l’Agorà, presso la sala convegni del piccolo museo San Paolo alla Rotonda, incentrata sul tema “Thanatos e Koimesis: la morte e i suoi riti nel reggino”. Dopo l’introduzione di Orlando Sorgonà, si sono susseguiti gli interventi degli studiosi e storici reggini Sebastiano Stranges che ha relazionato su “Riti e sepolture funebri nella provincia arcaica reggina”, “Franco Mosino che ha trattato il tema “La poesia sepolcrale dei greci” e Paola Garofalo che ha esposto gli “Usi funebri nelle zone di Bagnara Calabra, Ceramica e Pellegrina”. Sin dalle origini, l’uomo ha cercato di dare un senso alla vita ed alla morte. In particolare, i riti funebri sin dal Paleolitico confermano tale attenzione, soprattutto per ciò che concerne la cura nella preparazione dei cadaveri. Questo periodo storico è caratterizzato dalla presenza di tombe a fosse rivestite di sassi con sopra ghirlande di conchiglie. Del nostro neolitico invece conosciamo ben poco.
Da uno scavo a Bova Marina sono venuti alla luce, dentro una capannina risalente al primo neolitico in zone diverse del terreno. In un primo momento si è pensato alla diffusione sulla fascia jonica reggina, per questa data epoca, di un rito funebre particolare, appunto quello dello smembramento degli arti dei cadaveri. Ma in un secondo tempo, dopo il ritrovamento all’interno della medesima capannina di ossa di epoca tardo romana, si è scoperto che l’insieme dei resti si era mischiato in seguito ad una frana del terreno. Dopo un periodo buoi per gli studi in materia, arriviamo all’Età del Bronzo durante la quale si sviluppano le necropoli corredate di vari materiali ed utensili: a Salerno, presso una tomba d’epoca romana, dentro un’ampolla sono stati ritrovati resti di bergamotto. Ritrovamento che arricchisce ulteriormente la storia di questo agrume che sembra sia stato adoperato anche in Egitto per la mummificazione. Gli scavi compiuti sul territorio compreso tra Bova e Brancaleone hanno portato alla luce circa 2700 siti archeologici. Dallo studio di questi ultimi si è scoperto che in età greca, in genere, i sepolcri erano posti exta moenia, lungo le strade anche gli incroci, così i passanti potevano leggere i nomi dei defunti. Inoltre era in voga il rito del pasto funebre consumato accanto o sopra il sepolcro, dopo un dato numero di giorni successivi alla morte del congiunto. Il corredo funebre dipendeva dalla ricchezza della famiglia.In genere per le donne era formato da utensili da cucina, attrezzi per la filatura e vasi contenenti creme ed oli profumati e per i guerrieri da armi. I bambini ed ipoveri venivano portati in un cimitero comune e sepolti senza nessuna cerimonia, il cosiddetto funus tacitum. In epoca romana non cambia molto. Le salme dei ricchi patrizi venivano vestite riccamente ed unte con oli balsamici. Ad essi era riservato il funerale in pompa magna, consistente in una processione preceduta da suonatori con strumento a fiato, seguiti poi dalle prefiche, ossia donne pagate per piangere, che accompagnavano il defunto con i capelli sciolti, graffiandosi a sangue le gote e lanciando grida strazianti. Più importante era stato in vita il defunto maggiori erano le loro grida. Già in questa età, inoltre, gli uomini in segno di lutto tenevano lunghi capelli e barba. Ciò è attestato anche dalle monete, nelle quali infatti Ottaviano porta la barba lunga per la morte di Cesare. Solo con l’avvento della cristianità i riti pagani vennero meno, ma in alcune zone, soprattutto a Gioiosa Superiore, alcuni erano ancora celebrati, quali l’inserimento di cibo o di una moneta in bocca al defunto. La moneta a volte era posta anche ai piedi del defunto, e nella credenza comune serviva al morto affinché pagasse a Caronte il traghettamento nell’aldilà. In tempi a noi vicini, inoltre, nei territori di Bagnara Calabra, Ceramica e Pellegrina, si sono conservati alcuni di questi riti di origine pagana. In particolare a Bagnara, fino a pochi anni fa, se il defunto non era compianto non godeva del rispetto della comunità, dunque durante i funerali venivano chiamate le prefiche per cantare le nenie in onore del deceduto.

venerdì 18 aprile 2008

Alcuni vetusti e giganteschi castagni ...

Il Gazzettino, 18 aprile 2008
Alcuni vetusti e giganteschi castagni (come quello dei "Cento cavalli" di Sant' Alfio, sulle pendici dell'Etna, in provincia di Catania, a cui abbiamo dedicato la "puntata" precedente), assurti a celebrità nazionale, testimoniano la straordinaria longevità dell'albero. L'albero ricordato ed altri poderosi esemplari (che ancora continuano a vegetare sulle pendici dell'Etna) sono testimonianze viventi di un vigore vegetativo impressionante. Ma anche altri, senz'altro più "modesti" (sia per dimensione che per "battage" mass-mediatico), hanno fatto da "fondale" a leggende e miti. Ci limitiamo alla nostra regione per citare, in particolare, solo due esempi (fra i tanti).

Il primo.E' il castagno della Valcolvera (in comune di Frisanco - Pordenone). Si trova prima di arrivare in Valdifrina, a destra della strada. La sua circonferenza (a un metro d'altezza dal suolo) è di 5 metri e 10 centimetri. Qualcuno lo chiama "il castagno dei cento folletti". Forse questo nome vuol far riferimento ai tanti folletti che, secondo la tradizione popolare, abitavano la zona e si ritrovavano sotto questo albero. Il più noto era il "maciaroul". Il cui nome deriva evidentemente da "macia" (= bastone). Il "maciaroul" era un omino piccolo piccolo, sempre vestito di rosso e con un berretto (pure rosso) che terminava a punta con un campanello attaccato. Viveva sulle montagne, si spostava continuamente (e con grande rapidità) nell'area compresa fra il Monte Raut e il Monte Jouf e aveva sempre, appunto, un bastone. E di esso si serviva per fare le sue magie. Si aggirava infatti dove le pecore erano al pascolo e in questi luoghi tracciava (proprio col bastone!) un cerchio. Da esso le pecore non potevano uscire e, forse, si nutriva proprio del loro latte. Per riportarle all'ovile, il pastore doveva chiamare il prete. Solo con una sua particolare preghiera riusciva a smuoverle e a farle uscire dal cerchio. Abbiamo cercato riscontri recenti a questa leggenda. Abbiamo così riascoltato la trasmissione che la radio-tv "Capodistria" ha dedicato (alcuni anni fa) alle leggende della Val Colvera e a questo castagno. Abbiamo consultato il bollettino parrocchiale "Eco della Valcolvera" (della parrocchia di Frisanco, Poffabro e Casasola). Nel numero del dicembre 2006 del periodico abbiamo trovato la foto di questo castagno, ma nessuna conferma circa la leggenda. Essa comunque è certamente verosimile. Basti pensare che a Poffabro (frazione di Frisanco e ufficialmente incluso tra i cento borghi più belli d'Italia) le caratteristiche case in pietra (semplici e austere) hanno non solo le travi dei tetti, ma anche i caratteristici ballatoi in legno di castagno. Tutto ciò è una conferma che il castagno ha rappresentato (e rappresenta) qualcosa di veramente importante per la zona. E per tutte le zone della pedemontana della nostra regione.

Il secondo.Spostiamoci nel Gemonese. E' la "liénde dal rìul Stuàrt" (in realtà la leggenda è intitolata "La magne dal Riul Stuart"), cioè la leggenda del rio "Stuàrt". Essa è tratta dalla monumentale opera di Valentino Ostermann, poeta e raccoglitore di tanti racconti e leggende popolari . Molti racconti riportati dall'Ostermann - come quello che riferiremo tra poco - sono legati alla storia di Gemona, o, pur presenti a volte in altre località del Friuli, comunque ambientati in questo territorio. Sul n.10 del 1889 di "Pagine Friulane" leggiamo proprio quanto segue. "Tra Glemone e Maniae (borgata in comune di Gemona) scôr il Riul Stuart che forsi l'ha vt chel non pal puint su la strade postâl, tant bestialmenti costruît dut a zirevoltis che al somee una S". Continuiamo la trascrizione della leggenda riportata da Ostermann servendoci di una libera "traduzione" in italiano. Non certo per aumentare l'"audience", ma per rispetto al lettore (che è anche non friulano): "Sul prato vicino al rìul Stuàrt, una vecchietta portava ogni giorno la mucca al pascolo. Si sedeva all'ombra di un castagno e sferruzzava recitando il rosario. Un giorno si accorse che la mucca dava poco latte e non capiva perché, fino a quando non si accorse che da un cespuglio usciva una vipera. La serpe sputava un liquido verde e nero sui sassi per segnare il suo percorso e poi si attaccava alla mucca per berne il latte. Il giorno dopo, la vipera uscì dal suo cespuglio, sputò come al solito il veleno che nel frattempo, però, la vecchietta ricoprì con la terra. Così, quando la biscia uscì di nuovo, non trovò più il suo veleno; impietrita, battè il capo conto i sassi e morì. In questo modo l'anziana riebbe il suo latte, standosene sempre all'ombra del grande castagno".

Se il castagno ha "radici" profonde nelle leggende della nostra regione, non minor spazio trova in altre culture. Citiamo, ad esempio, il famoso scrittore Hermann Hesse. Egli inizia il suo splendido libro "Narciso e Boccadoro" descrivendo proprio il castagno posto davanti al convento di Mariabronn ("corruzione" di Malbrunn, nel Baden Wuertemberg, nel cui seminario Hesse studiò per un semestre). Egli lo raffigura come "un solitario figlio del Sud", un insolito albero per l'Europa centrale, dove è ambientata la storia. Poco più avanti egli gli assegna l'attributo di "esotico", a ribadire che tale pianta proviene da altre regioni, ma non troppo lontane. Come è, appunto, la nostra. E una conferma che il castagno sia un albero del Sud la abbiamo leggendo "Arboreto selvatico" di Mario Rigoni Stern. Parlando del castagno (in relazione alla sua zona, cioè l'altopiano di Asiago), si chiede infatti: "Ma perché i nostri avi non hanno mai provveduto a piantare castagni? Forse perché erano scesi dal lontano Nord e lassù altri erano gli alberi a cui erano legati? Ma ai piedi delle nostre montagne, sia verso la pianura veneta che verso il Tirolo, ci sono ancora antichi castagneti".

Prima di chiudere questo particolare "capitolo" facciamo riferimento ancora a due "esemplari" (tanto per dimostrare coi fatti che il castagno ha permeato le più diverse culture): il "castagno di Sancerre" (cittadina storica della Francia) e quello che gli inglesi ricordano come castagno denominato "il grande albero di Tortworth" che, secondo le leggende, era assai più antico del loro re Giovanni (quale non è dato però sapere).

(4 - continua)

A cura dell'Associazione Forestali d'Italia

e della Direzione centrale delle risorse agricole, forestali, naturali e montagna

della regione Friuli Venezia Giulia

mercoledì 16 aprile 2008

Draghi e streghe nelle storie del Garda

Brescia Oggi, Mercoledì 16 Aprile 2008
MONTICHIARI. ALL’ATELIER DEL GALETER IL LIBRO DI SIMONA CREMONINI

Draghi e streghe nelle storie del Garda

Serata dedicata alle «Curiosità e misteri del lago di Garda» all’Atelier del Galetér di via Guerzoni 92h a Borgosotto di Montichiari, dove alle ore 18.30 la giovane narratrice Simona Cremonini leggerà e commenterà i racconti horror e le leggende fantastiche che ha raccolto nella sua opera prima dal titolo omonimo.
Originaria di Montanara, 29 anni, la scrittrice lavora come consulente per diverse case editrici editoriale ed è membro del comitato di lettura del mensile «Inchiostro». Con questa sua raccolta, a metà fra ricerca e invenzione, ha inteso indagare creativamente «sotto la superficie» del Benaco.
«Si tratta di un guida turistica che riguarda storia, tradizioni e racconti magici, spaventosi, insoliti, curiosi, misteriosi che fanno intraprendere al lettore un inconsueto giro intorno al lago, diverso da quelli descritti solitamente nelle guide turistiche tradizionali», ci ha detto presentandone i contenuti.
Affascinanti e inquietanti le tematiche e i personaggi: «il mistero, specialmente quello legato a fantasmi che vagano la notte sulle acque o sotto le acque del lago e alle città sommerse; misteriose apparizioni; inquietanti leggende; mostri veri e presunti; draghi, streghe, creature fantastiche e una mitologia che fin dai tempi antichi ha cercato di spiegare la bellezza naturale del lago».
La personalissima ricerca della Cremonini «in parte si limita a solleticare la fantasia del lettore raccontando fatti del passato, ma in altri passaggi permette di viaggiare anche fisicamente lungo le sponde del lago, dove molto spesso è possibile visitare i luoghi e vedere resti e testimonianze da cui le storie narrate hanno tratto origine».
Volto al recupero di una memoria storica non facilmente accessibile, il libro racconta insomma le tre province lacustri, mettendo in luce i temi ricorrenti da una località all’altra, con una struttura a schede che rende più agevole la consultazione.F.MA.

sabato 12 aprile 2008

Brusamarso e il rogo salutano l’inverno

Il Giornale di Vicenza, Sabato 12 Aprile 2008
ENEGO - Brusamarso e il rogo salutano l’inverno

Enego ha definitivamente salutato l'inverno con il “Fora marso che april xe qua", antica tradizione che era stata accantonata per un lungo periodo di tempo, ma che è quindi tornata in auge da qualche anno grazie all'impegno dell'attiva sezione locale dei col diretti.
Promossa per l' ottavo anno consecutivo, dal gruppo dei coldiretti eneghesi in collaborazione con la Pro loco, l'iniziativa si rifà ad un rito antichissimo della tradizione contadina e mantiene tutto il fascino delle vecchie usanze, proponendo un simpatico rituale propiziatorio per cacciare definitivamente l'inverno e dare il benvenuto alla bella stagione.
Tutti, grandi e piccini, nella serata dell'ultimo giorno di Marzo, sono così invitati a partecipare, armati di bidoni, vecchie pentole e arnesi di latta, campanacci e bastoni e di ogni altro aggeggio rumoroso scaturito dalla fantasia, dando vita ad una rumorosissima, allegra sfilata lungo le vie del paese improvvisamente animate dall'inconsueto baccano.
La festa del "Brusamarso", come anche viene chiamata, si è quindi conclus in piazza San Marco con il tradizionale “rogo dea vecia", altro simbolo della brutta stagione da eliminare, rito scaramantico portafortuna, “condito" da the caldo e fumante vin brulè, sempre ricco di suggestione. R.M.

giovedì 10 aprile 2008

Favole in mostra Biancaneve la star

Brescia Oggi, Giovedì 10 Aprile 2008
MARCHENO. La rassegna itinerante
Favole in mostra Biancaneve la star

Partita da «La Torre delle Favole» di Torre Avogadro a Lumezzane fa tappa a Marcheno fino al 17 aprile la prima edizione della mostra bibliografica itinerante intitolata «La Biblioteca delle favole 2008». La star è «Biancaneve» illustrata dalle originali tavole di Sophie Fatus nel testo di Giusi Quarenghi.
L’iniziativa, nata dalla collaborazione del Comune di Lumezzane con il Sistema integrato di Valle Trompia e tutti i comuni valligiani aderenti, ha già avuto grosso successo in Valgobbia. Nella biblioteca marchenese sono stati esposti i libri per bambini ed adulti sui temi di «Biancaneve», «Bellezze e specchio», «Nani, gnomi e miniere», «Streghe e principesse» nonché le originalissime tavole e altre opere di Sophie Fatus. Il programma delle iniziative prevede: visite guidate per le scuole «Inseguendo la strega Grimilde», letture e laboratori di animazione «A sbagliare le storie», esposizione delle opere realizzate dai bambini della scuola elementare con l’illustratore di livello nazionale Alessandro Sanna. Infine giovedì 17 aprile, ultimo giorno della mostra, alle 16,30 «La merenda con la strega». Informazioni (tel. 030 8960174).E.B.

Streghe, folletti, diavoli, mostri e oggetti magici. Un dizionario cataloga enigmi e leggende della nostra regione

Il Giornale, 10 aprile 2008, pagina 11

Itinerario padano ai confini della realtà
di Stefano Giani
Streghe, folletti, diavoli, mostri e oggetti magici. Un dizionario cataloga enigmi e leggende della nostra regione

Terra inopinata di misteri risolti e irrisolti, la Lombardia riserva a chi la ama spunti di studio che vanno al di là della semplice curiosità. Streghe, fantasmi, folletti, automi e robot ante litteram, luoghi fatati e siti infestati, culti ed enigmi della preistoria, sacre reliquie autenticate e dimenticate ma in passato capaci di scatenare una guerra, un mare scomparso e draghi e animali mostruosi rappresentano un minimo campionario di quanto di terrorizzante e inquietante sa offrire questa regione, oggi catalogato e raccontato in una sorta di antologia del reale caduto nell’oblio.
A compiere l'impresa editoriale di raccogliere stranezze che non sono parto di fantasia o di leggendarie favolette tramandate di bocca in bocca, lungo un itinerario inedito attraverso una Lombardia magica e sconosciuta, sono Giulio Maria Facchetti, docente di linguistica e semiotica all’Università dell'Insubria e Federico Crimi che lavora al Politecnico e si occupa di storia dell'architettura. I due studiosi hanno coordinato un pool di collaboratori che hanno dato fondo alle loro energie e fatiche per mettere a punto questa sorta di mini-enciclopedia intitolata Il grande libro dei misteri risolti e irrisolti della Lombardia in uscita per i tipi di Newton Compton (pagg. 430, euro 14,90).
Dal volume è esclusa la città di Milano che, nei desideri dell'editore, dovrebbe rappresentare il tema di un testo a sé di imminente pubblicazione. Tutto il resto della regione - dalla A di acque miracolose alla Z di Zone, con i suoi sacrari pagani - finisce sotto la lente di ingrandimento, fornendo spunti di approfondimento non sempre scontati. Si tratta di pagine avvincenti, ma di non sempre facilissima lettura: il libro infatti appare concepito come una sorta di vocabolario la cui consultazione è certamente agevole a discapito, però, dell'omogeneità che contraddistingue un racconto e il suo evolversi progressivo e logico da un dato o un evento al successivo.
Tuttavia, i ricchi rimandi geografici e storici consentono al lettore di legare e ancorare il discorso affrontato a precisi contesti nei quali, chiunque conosca la Lombardia, possa trovare riferimenti a luoghi in qualche caso familiari, conosciuti o semplicemente frequentati. Diviso in tre parti (chiavi di lettura, glossario, le città del mistero) che forniscono gli elementi per un corretto utilizzo del volume, ne spiegano termini e concetti e infine esaminano nel dettaglio città e paesi, il volume vanta un'accurata bibliografia che si offre come strumento di approfondimento per chi di questo libro intendesse farne un uso non solo legato allo svago.
Il fascino del mistero e dell'enigma, soprattutto se radicato nel tempo, a conferma di un impegnativo lavoro di scavo che rivela tutta la sua complessità, è spesso il valore aggiunto per elevare il tasso di interesse e curiosità che tende in molti casi a far sentire anche il lettore un po' come un piccolo investigatore a caccia di elementi in grado di avvalorare ipotesi o tesi che la storia non ha definitivamente archiviato.

mercoledì 9 aprile 2008

Viaggio tra leggende pedemontane

Il Gazzettino, 9 aprile 2008
VEDELAGO L’appuntamento si è tenuto a villa Cappelletto-Calvi
Viaggio tra leggende pedemontane
Vedelago

Va avanti il programma "Un Mondo di Libri - Iniziativa di promozione della lettura", progetto dell'assessorato alla cultura del Comune, in collaborazione con l'Istituto Comprensivo e la Biblioteca Comunale. Ieri presso la sala convegni del Centro Culturale in Villa Cappelletto-Calvi, Franco Berton ha presentato "I piedi del cielo - Viaggio di un contemporaneo fra le leggende della sua terra". Nato a Fonte nel 1952, laureato in lettere classiche all'Università di Padova, insegna nella scuola media di S.Zenone degli Ezzelini. Attento studioso e profondo conoscitore delle tradizioni popolari della sua terra, Franco Berton ha appreso (e custodito) dai suoi genitori e dagli anziani in generale, la cultura contadina per trasmetterla alle giovani generazioni. Il libro comincia con immagini suggestive di altri tempi come.. "..Lumiere, Fede, Sanguinei, Anguane, Mazariol, Bison Gaet, Orc, Can de Baldan:.. spiriti benigni e, ancora più, bizzarri, che popolavano la notte dei contadini di un tempo. Nei suoi scritti però, non si percepisce il rimpianto per il tempo passato, ma piuttosto la consapevolezza che la fame, la sofferenza, la fatica di vivere, la malattia e la morte delle generazioni passate, hanno comunque trovato un momento di equilibrio nella società di allora. Di più, non hanno mai perso la dignità umana che le caratterizzava, ancorate com'erano ad una fede salda ed alla consapevolezza che comunque le forze della natura non potevano contare su alcune regole certe. Questo mentre la fatalità faceva parte del vissuto e ne era, tante volte, la naturale spiegazione. Non a caso Luciano Cecchinel nella sua prefazione scive:.."..L'uomo non è più capace di tasfigurare la natura e i suoi eventi, facendoli propri attraverso quale sortilegio mentale che rendeva sopportabile il duro vivere di ogni giorno lungo i sentieri complementari del sogno..". La serata è stata arricchita dalle musiche dal vivo di Giuseppe De Bortoi e dalla lettura di brani del libro di Davide Melchiori.Giorgio Volpato

venerdì 4 aprile 2008

Il vocabolario del Cimbro è custode di un «tesoro»

L'Arena, Venerdì 4 Aprile 2008
GIAZZA. Oltre duecento anni di testimonianza orale provenienti dai 13 Comuni che parlavano l’antico idioma
Il vocabolario del Cimbro è custode di un «tesoro»
L’opera, costata tre anni di lavoro, sarà presentata alla Civica di Verona. Salva un patrimonio a rischio


Vittorio Zambaldo
Vede la luce dopo tre anni di lavoro il primo «Vocabolario comparato della lingua cimbra». Pubblicato dal Curatorium Cimbricum Veronense, sarà presentato oggi alle 16 in Sala Farinati, nella Biblioteca civica di Verona. Il Vocabolario comparato è un’opera colossale per impegno profuso in documentazione, ricerca, analisi delle forme della parlata cimbra a partire dagli scritti di don Marco Pezzo del 1763, dei fratelli Cipolla del 1883-84, del linguaggio cimbro di don Pietro Mercante del 1936 e di monsignor Giuseppe Cappelletti del1956. Ma anche gli studi di Gianni Rapelli del 1983 e le conoscenze linguistiche apprese dalla madre di Renzo Dal Bosco di Giazza nel 2004.
Oltre duecento anni di testimonianze scritte e orali sono affrontate dal vocabolario nelle diverse forme riportate dai cimbri non solo di Giazza, ma anche di tutta la Lessinia. Ben seimila lemmi vengono presentati su colonne affiancate, evidenziando le varie forme della parola secondi i diversi autori. Non è solo un excursus storico attraverso la lingua, ma anche un lavoro di consolidamento della stessa e la sua evoluzione nel tempo.
«Quando una lingua sta per morire, quando una minoranza lotta per la sua sopravvivenza linguistica, sociale e culturale, quando un patrimonio sembra soccombere di fronte all’inevitabile affievolirsi delle parole, la realizzazione di un vocabolario diventa un elemento di difesa di un patrimonio, ormai di poche decine di parlanti a Giazza», riconosce Vito Massalongo, presidente del Curatorium.
«Era una decina d’anni che si pensava di realizzare un lavoro di recupero di questo genere», ammette il presidente, «e con l’introduzione dello sportello linguistico, frutto della legge 482 e dei fondi della legge regionale sulle minoranze linguistiche del Veneto, si sono potuti avere tempo e risorse per affrontarlo».
L’impresa ha coinvolto in primis la curatrice Adriana Bulgarelli per più di tre anni, ma anche un folto gruppo di collaboratori, tra i quali Aldo Ridolfi, caporedattore della rivista Cimbri-Tzimbar; Renzo Dal Bosco (uno di pochi a parlare ancora cimbro); Gianni Molinari, che ha affrontato questo argomento insieme a Marta Tezza, Ezio Bonomi, Roberto Nordera, Piero Piazzola, Gianni Rapelli,Vito Massalongo e Marzio Miliani, responsabile della grafica e delle illustrazioni.
Adriana Bulgarelli spiega la filosofia dell’opera: «Abbiamo voluto realizzare un vocabolario della parlata dei Tredici Comuni Veronesi, limitandolo al cimbro della zona raccolto dalla viva voce dei parlanti nel corso degli anni, ponendolo a confronto con ciò che è stato scritto da chi ci ha preceduti. Mettere per iscritto una lingua parlata è un controsenso», continua la curatrice, «perché una lingua di tradizione orale è soggetta inevitabilmente a continue interpretazioni ed alterazioni, ancor più di una lingua scritta, la cui incessante evoluzione è ben nota».
Il lavoro svolto per il Vocabolario è secondo Piero Piazzola, presidente emerito del Curatorium, «un grande aiuto a frenare o a contenere la perdita di questo patrimonio linguistico; e quindi è un’opera straordinaria e singolare».
Il programma della presentazione dell’opera prevede una prolusione in musica con Adriana Avventini (arpa), Patrizia Borromeo (arpa e canto) ed Emanuele Zanfretta (fiati e cornamuse), a cui seguiranno i saluti delle autorità presenti e del direttore della Biblioteca civica, Agostino Contò. Massalongo introdurrà l’opera e Bulgarelli farà una relazione del lavoro svolto, mentre Renzo Dal Bosco, insegnante di madrelingua cimbra, porterà i suoi saluti nell’antico linguaggio e Aldo Ridolfi presenterà l’ultimo numero della rivista Cimbri-Tzimbar. Dopo un intermezzo musicale interverranno anche Piero Piazzola e il linguista Marcello Bondardo, prima del dibattito e del saluto finale accompagnato da un rinfresco “cimbro”.

martedì 1 aprile 2008

LE NOSTRE RADICI: Assieme alle rondini arriva il cuculo

"Il Giornale di Vicenza", Martedì 1 Aprile 2008

LE NOSTRE RADICI: Assieme alle rondini arriva il cuculo

Antonio F. Celotto
Ad annunciare la primavera non è solo l'arrivo della rondine. Tra i tanti cinquettii che risuonano, uno è particolarmente nitido e sonoro, costituito da due suoni successivi che potrebbero essere definiti dalle sillabe cu-cue: è il canto del cuculo.
È un bell’animale, più elegante di un colombo. Abita le macchie, i boschi e le campagne alberate, cibandosi di insetti, larve e bruchi pelosi.
Eccezionali sono i suoi costumi per quanto riguarda la riproduzione. Non costruisce nido nè cova uova: queste vengono deposte nei nidi di altri uccelli (in gener piccoli passeracei) le cui uova vengono, talvolta, in parte distrutte o gettate fuori dal nido. Il piccolo cuculo, essendo più grande degli eventuali pulcini nati dalle uova dei genitori adottivi, caccia i compagni di cova e rimane l'unico occupante.
Il cuculo giunge da noi tra fine marzo ed i primi di aprile: nei periodi invernali torna verso l'Africa. Sia in Valbrenta, sia sul Grappa e sull'altipiano di Asiago, si credeva che il cuculo tornasse tra il 10 e il 15 di aprile e si traevano auspici se l'uccello si fosse fatto sentire prima o dopo tale data.
Dalle nostre parti, la gente recitava una filastrocca che suonava così: «Ai oto da april el cuco ha da vegnin; se nol vien ai diese, le preso par la siese; e se non vien ai venti, le preso sui frumenti e se non vien ai trenta, el pastor lo gà magna co' la poenta».