lunedì 30 marzo 2009

«Nasce l'archivio sonoro di Puglia, un tesoro con 1500 registrazioni»

Il curatore Vincenzo Santoro: «Nasce l'archivio sonoro di Puglia, un tesoro con 1500 registrazioni»
di FRANCESCO MAZZOTTA
Corriere del Mezzogiorno - BARI - 2009-03-29


La geografia della musica tradizionale pugliese racchiusa in 1.500 registrazioni. Uno straordinario corpus che da martedì la Biblioteca Nazionale di Bari mette a disposizione del pubblico con l'apertura dell'Archivio Sonoro della Puglia, la cui inaugurazione ufficiale è in programma domani pomeriggio (ore 18) seguita dall'esibizione di oltre 60 suonatori presenti nella documentazione, già consultabile in formato ridotto cliccando su www.archiviosonoro.org/puglia
(un'ottantina in tutto i brani che si possono ascoltare in streaming). Nella Biblioteca Nazionale sono stati allestiti tre computer, dai quali si potrà accedere ai materiali, suddivisi per area geografica (Salento, Puglia centrale e Capitanata) e ricerca: come quella storica che condussero Alan Lomax e Diego Carpitella nel 1954. Ce n'è anche di recenti. E' il caso dell'indagine svolta nel 2005 nelle campagne della Murgia. «Ma anche le altre riguardano soprattutto la Puglia centrale, sino a qualche tempo fa la più scoperta», racconta Vincenzo Santoro, coordinatore del progetto promosso dall'associazione Altrosud d'intesa con il ministero dei Beni culturali e l'assessorato alle Attività culturali della Regione Puglia. «Nelle Murge - prosegue Santoro - sono stati scoperti repertori che si sono conservati più a lungo di altri. Per esempio, quelli sull'organetto: una tradizione straordinaria che ancora oggi ha grandissimi esecutori, soprattutto a Villa Castelli».
Questo corpus sonoro è davvero rappresentativo della storia della musica popolare pugliese?
«Direi proprio di sì. Siamo stati molto attenti a organizzare il materiale affinché offrisse una visione complessiva».
Qual è la novità più importante che emerge?
«Sicuramente l'indagine condotta da Giovanni Rinaldi sul Tavoliere negli anni Settanta. C'è una grande quantità di materiale legata al canto politico, un vero e proprio filone. Del resto il Tavoliere, la terra di Giuseppe Di Vittorio, è stato uno dei luoghi elettivi della lotta di classe in Italia».
Vista da fuori la Puglia è soprattutto pizzica salentina e tarantella del Gargano. L'archivio quanto rende sfaccettata la geografia sonora regionale?
«Tantissimo, perché chi visiterà l'archivio scoprirà una miriade di repertori: per esempio, quelli delle minoranze linguistiche, come le polifonie arbëreshe dell'Alto Salento Ionico. La documentazione è davvero ricca: si va dai canti della Passione delle comunità grecaniche a molti altri repertori quasi sconosciuti ».
C'è un filo che li unisce tutti?
«La cultura contadina. Ma c'è un altro filo: l'attenzione che tutti i più grandi etnomusicologi hanno rivolto alla tradizione pugliese. Non dimentichiamo che qui hanno condotto indagini sul campo Lomax, Carpitella, De Martino e Leydi: il top».
Avendo adesso raccolto in un unico contenitore tutta la storia sonora della tradizione pugliese è ipotizzabile una grande manifestazione che, sul modello della Notte della Taranta, possa esprimere questa grande varietà?
«Non vedo la questione di un grande evento identitario regionale. Piuttosto lascerei ai vari territori la gestione degli eventi».
Però lei non ha mai amato la Notte della Taranta, non è vero?
«La ritengo un'invenzione geniale ma l'ho sempre criticata perché ritengo non possa bastare. Non dimentichiamo che l'Istituto Carpitella nasce nel 1998 per creare un archivio, ma poi si dedica all'organizzazione di concerti. Forse adesso hanno capito».
Cosa?
«L'apertura dell'archivio regionale a Bari ha stimolato il Salento a realizzarne uno proprio. C'è un progetto già finanziato che a sua volta può rappresentare un primo passo per un intervento più complessivo a livello territoriale ».
Pensa che sarebbe stato più logico realizzare l'archivio regionale in Salento?
«No, e lo dico da salentino. Bari è il capoluogo e si trova al centro della regione. E poi la Biblioteca Nazionale è un luogo di grande prestigio. In ogni caso, per tornare al tema delle manifestazioni, penso che l'attenzione andrebbe posta sui gruppi, più che sugli eventi».
In che senso?
«I gruppi sono il migliore strumento di marketing territoriale che abbiamo. Sono loro che portano in giro la nostra tradizione. Nel sito dell'archivio c'è il primo tentativo di realizzare un censimento. Ne abbiamo già contati più di duecento. Affiderei a loro la sfida di capire bene come prendere queste musiche per reinserirle nella contemporaneità. La premessa, però, è che imparino il repertorio. Ma per rendere più facile questo processo ci vorrebbero delle strutture».
Case della musica popolare?
«Direi più dei luoghi di formazione, dove imparare a suonare una musica che ormai è slegata dalle modalità di trasmissione orale in senso stretto».

venerdì 27 marzo 2009

Fairy brides (Spose fatate).

Fairy brides (Spose fatate).
Sin dai tempi più remoti, le leggende delle visite di dee e ninfe agli uomini — e i loro amori — hanno toccato l'animo dell'umanità con i loro splendori e le loro tragedie; giacché la fine di queste relazioni tra esseri immortali e mortali è quasi sempre stata infelice. I racconti sugli esseri fatati, specialmente nei paesi celtici, hanno conservato tale tradizione. Vi sono molte favole che narrano di matrimoni tra esseri di una bellezza soprannaturale e uomini (spesso quest'ultimi possedevano delle qualità straordinarie); Edric il Selvaggio (Wild Edric), l'eroe della resistenza contro i Normanni sul confine gallese, è uno delle prime che si ricordi. Walter Map, nella sua raccolta di avvenimenti strani del XII secolo — De Nugis Curialium — narra la storia de «La moglie fatata di Brecknock Mere»:
I gallesi ci parlarono di un'altra cosa, non di un miracolo bensì di un avvenimento meraviglioso. Dissero che Gwestin di Gwestiniog attese vicino a Brecknock Mere (Lago Llangorse) e vide, durante tre notti di luna piena, gruppi di donne che ballavano nei suoi campi d'avena, poi le seguì finché esse s'immersero nell'acqua del lago. La quarta notte egli prese una di loro. Questa gli si sottomise e acconsentì a sposarlo ma le sue prime parole verso il marito furono: «Io ti obbedirò volentieri con tutto il mio affetto e la mia devozione, fino a che, un giorno, nella fretta di andare a cavallo, tu mi picchierai con le briglie». Dopo la nascita di molti figli, accadde ciò che lei aveva predetto e quando l'uomo tornò a casa dalla sua passeggiata a cavallo scoprì che la donna era fuggita con tutta la prole. Egli, con molta difficoltà, riuscì a riprendersi soltanto uno dei figli.
Le Fanciulle Foca (Seal maidens) appaiono spesso nelle favole sulle spose fatate; esse sono sempre prigioniere contro la loro volontà e appena possono fuggono via. Le Fanciulle Cigno (Swan maidens) vengono anch'esse fatte prigioniere attraverso il furto delle loro piume ma, generalmente, sono più felici di restare accanto ai loro mariti. Una moglie fatata minacciosa e sinistra è Melusine, il bellissimo spirito che, appena tocca l'acqua, diviene serpente.

INCONTRO CON ESSERI FATATI

INCONTRO CON ESSERI FATATI

Durante la serata, dopo che avevamo parlato a lungo, il nostro albergatore raccontò di come una banda di contrabbandieri, di sua conoscenza, fu cacciata via da Market-Jew-Green da un piccolo gruppo di esseri fatati. C'è ancora qualche speranza che non tutto il popolo fatato abbia abbandonato questi luoghi, infatti, alcuni vecchi hanno visto numerose «creature», non più di cinquanta anni fa, danzare e far baldoria a Eastern Green. A quel tempo vi erano molti acri di prato che cresceva sugli argini sabbiosi e si poteva fare una piacevole passeggiata sull'ampia zona verde che andava da Chyannour fino al ponte Market-jew. Gran parte di questo prato, ora, è stato portato via dalle onde e molto di ciò che il mare ha risparmiato è stato rubato dagli avidi proprietari delle terre vicine, sebbene il loro diritto su questa proprietà sia dubbio. La storia che vi racconterò mi è stata narrata da un vecchio poco tempo fa, egli l'ha udita da un uomo che vi era implicato personalmente. Tom Warren di Paul era noto come uno dei contrabbandieri più sfrontati dei dintorni. Una notte d'estate, circa quaranta anni fa, egli e altri amici sbarcarono da una nave piena di generi di contrabbando a breve distanza da Long Rock; il brandy, il sale e il resto erano stati presi in alto mare. Due uomini andarono nelle case dei loro migliori clienti ed uno andò a Newton per procurarsi dei cavalli, in modo da poter mettere il bottino al sicuro prima dell'alba. Tom e altri due, essendo molto stanchi, si sdraiarono su un mucchio di sale, sperando di fare un bei sonnellino mentre Ì loro compagni erano via. Tuttavia, furono subito disturbati dal «cinguettio» dei «feapers» (canne bucate che emettevano una nota stridula quando vi ci soffiava dentro), e, insieme, da un continuo tintinnio, come quello che fanno le vecchie donne sbattendo Ì coperchi contro le pentole per impaurire le api che sono entrate in casa. Gli uomini pensarono che il rumore provenisse da un posto poco distante dove forse, alcuni contadini stavano danzando sull'erba. Tom andò a vedere, deciso a mandarli via. Passata la spiaggia, salì su di un'altura di sabbia per guardare intorno, la musica sembrava provenire da molto vicino. Fra alcune fessure dei banchi di sabbia scorse delle luci e alcune persone vestite come bambole che saltellavano allegramente e facevano capriole. Si avvicinò e vide un gruppo di esserini che avevano l'aspetto di vecchi; molti di loro suonavano armoniche a bocca (pifferi di Pan), altri battevano i cembali o i tamburini mentre altri ancora suonavano gli scacciapensieri, i fischietti e altri strumenti a fiato. Tom notò che gli ometti erano tutti vestiti di verde e avevano il cappello rosso (quegli ometti vanno molto fieri del loro cappuccio rosso e perciò sono soprannominati «berretti rossi») ma ciò che più lo colpì fu il vedere come i piccoli pifferai con la faccia da vecchi agitavano le loro lunghe barbe. Muovendo la bocca sulle cornamuse, appoggiate al petto, sembravano più caproni che uomini e, allora, Tom disse: «Volete che vi faccia la barba. Ripeto, volete che vi faccia la barba, Berretti rossi?». Egli li chiamò a gran voce per due volte e stava per farlo la terza volta, allorché tutti i danzatori — cento e forse più — si disposero in fila, si armarono in un attimo con archi e frecce e gli si posero innanzi con aria vendicativa. Tali truppe di guerrieri cominciarono ad avanzare verso Tom che li vide diventare sempre più alti, man mano che si facevano più vicini. Il loro aspetto era così terrificante che egli si girò e corse in fretta dai suoi amici e li svegliò dicendo: «Buttatevi nel mare se volete salvarvi, vi sono centinaia di ometti che marciano contro di noi e tra poco saremo circondati». Poi corse alla barca, seguito dai suoi compagni, ma lungo il cammino furono investiti da una gragnuola di sassolini che bruciavano come carbone ardente quando colpivano.
Gli uomini si spinsero molto al largo prima di avere il coraggio di guardare, sebbene sapessero che in mare sarebbero stati salvi — infatti, nessuna tribù fatata osa toccare l'acqua salata. Alla fine essi videro in lontananza sulla spiaggia un gruppo di creature brutte, come non ne avevano mai viste prima, che gesticolavano minacciosamente e lanciavano, invano, sassi contro di loro. Appena furono a circa duecento metri dalla riva, lasciarono i remi e rimasero ad osservare i loro assalitori fino all'alba; quando si udirono i cavalli che galoppavano sulla strada che viene da Market-jew, il piccolo popolo si ritirò nei banchi di sabbia e Ì contrabbandieri ritornarono a terra. Essi non furono molestati mai più dagli esseri fatati, ma si dice che Tom, dopo questo incontro, divenne molto sfortunato.

Stories ad Folk-Lore of West Cornwall, William Bottrell

La fata

La fata
Nelle fiabe che vedono la protagonista adolescente le fate compaiono ad aiutare la realizzazione della femminilità.
La matrigna-strega di Biancaneve è l'esatto opposto della protettrice-fata di Cenerentola. Madri non reali, donne dotate di poteri magici, che utilizzano per fini contrari. La fatina di Cenerentola le procura vestiti, gioielli, carrozze e cavalli per recarsi al ballo reale, ne valorizza in pieno la femminilità e la capacità di attrazione. È proprio lei che rende possibile l'incontro con il principe e contemporaneamente lo tutela imponendo dei limiti.
Le fatine delle adolescenti sono provvide di consigli, di suggerimenti e di aiuti. Sanno sempre dove si trova il principe e che cosa bisogna fare per conquistarlo, trasmettono conoscenza e potere alle loro protette. Sono abilissime nei lavori di casa: tessono chilometri di tela in una notte, separano tonnellate di chicchi di miglio da quelli di grano ecc.
Spesso agiscono apertamente come potere compensativo rispetto a quello della strega o della matrigna. La matrigna lascia Cenerentola a casa coperta di stracci, la fatina rimedia al danno; la strega impone di filare stanze piene di cotone, la fatina svolge tutto il lavoro in un battibaleno.
Queste figure compaiono quando la protagonista completamente impotente, piange disperatamente.
Nello sviluppo del racconto è sempre presente qualche evento drammatico precedente, che ha posto la ragazza in una situazione in cui sola, senza aiuto e sostegno, è incapace di compiere l'opera che la potrebbe salvare.
Il suo processo evolutivo ha subito qualche distorsione drammatica ed è ora minacciato di un arresto definitivo. Qui interviene la fata a portare il processo a buon fine.
Come è tipico della figura materna negativa compiere operazioni che, qualunque esse siano, hanno sempre l'effetto di impedire lo sviluppo, così è altrettanto tipico della figura materna positiva eliminare gli ostacoli, rimediare ai danni, colmare le lacune, in modo tale che il processo evolutivo possa continuare il suo corso naturale.
Questa funzione viene svolta dalla fata anche più tardi, quando la ragazza ormai donna ha trovato il suo principe.
È la fata, o la vecchia saggia, quella che fornisce consigli e aiuti per ritrovare il marito scomparso, per riconquistare lo sposo distratto, o per fargli tornare la memoria quando, perso in qualche regno lontano e colpito da amnesia, è in procinto di risposarsi.
Vediamo qui all'opera un femminile esperto e alleato che si prodiga al mantenimento della relazione coniugale in opposizione alla matrigna-madre-strega che fa di tutto per romperla.
Ancora nell'ultimo passaggio della realizzazione del femminile, quello della procreazione, troviamo all'opera la fata.
«Eccoti una rossa melograna, mangiala al cantare del gallo e prima che l'anno abbia volto al suo termine, ti nascerà un bei bambino dai riccioli d'oro...» dice la fata alla regina disperata per la sua sterilità.
Sono le fate quelle che conoscono le pozioni magiche per avere figli, e gli incantesimi per assicurare al nascituro un avvenire felice.
Quanto più la figura della vecchia esperta mostra di possedere doti magiche, tanto più si manifesta il senso liberatorio della sua opera.
La fata libera il principe dalle segrete del castello ove giaceva prigioniero del drago, scioglie la principessa dai potenti incantesimi, che la paralizzavano, opera trasformazioni in senso filogeneticamente evolutivo trasformando gli animali in uomini, riporta in vita i morti, ridona funzioni perdute. Il senso dei suoi interventi è sempre ricostruttivo, risanatorio, aggiuntivo.
Vediamo ora come si comporta in particolare la fata rispetto ai protagonisti maschili.

Direttamente o indirettamente, attraverso strumenti ed emissari, favorisce la fuga dalla prigionia, quindi in senso simbolico la emancipazione da una femminile inglobante.
Conferisce poteri attivi: forza, coraggio, capacità straordinarie, tanto quanto la strega li toglieva, privando le sue vittime delle forze e paralizzandole. Agisce quindi in senso stimolante sul maschile espandendone le possibilità.
Guida e indirizza il principe nella ricerca della principessa, fornendogli i consigli e gli strumenti per superare gli ostacoli, svolgendo così una funzione favorevole all'incontro tra le due polarità.
Interviene quando il principe è stato ucciso o privato della vista, delle braccia o delle gambe, restituendogli piene facoltà, ripristinando cioè le funzioni che sono andate perdute.
Rappresenta un femminile che da un lato è presente, non abbandona i suoi protetti nel momento del pericolo, ma d'altro lato non li vincola in nessun modo a sé.
La fata compare all'occorrenza e poi scompare, non costringe il protagonista a una relazione di dipendenza coatta da lei.
Le figure femminili positive svolgono una funzione stimolante sul maschile, opposta rispetto a quelle negative che agiscono sull'inibizione.
Riza scienze, curarsi con le fiabe

Fairies

Fairies
(Esseri fatati). La parola «fairies» ha una origine tarda; il nome più antico è Fays, il cui suono, ormai, è troppo arcaico. Si pensa che venga direttamente da Fatae. Le tre fate classiche (le tre Grazie), più tardi, si moltipllcarono e divennero dame soprannaturali che dirigevano il destino degli uomini e assistevano alle nascite. «Fay-erie» era, anticamente, uno stato di incantamento o magia (Glamour) e solo in seguito fu usato per gli esseri che possedevano tale potere. Il termine «fairy», attualmente, indica un vasto gruppo di spiriti: gli Elfì (Elves) anglosassoni e scandinavi, i Daoine Sidhe delle Highiands, i Tuatha de Danann dell'Irlanda, i Tylwyth Teg del Galles, la Corte felice (Seelie court) e la Corte malvagia (Unseelie court), il Piccolo Popolo (Wee folk) e i Buoni Vicini (Good neighbours) e molti altri. Sotto questo nome sono inclusi pure gli esseri fatati che vivono in gruppo (Trooping fairies) e quelli solitari (Solitary fairies), così come gli esseri fatati della stessa altezza degli uomini, quelli più alti, quelli di soli tre piedi e quelli minuscoli; gli esseri fatati domestici e quelli selvaggi che odiavano l’umanità.

giovedì 26 marzo 2009

Salvati i brani della tradizione pugliese. Lunedì l´inaugurazione

Salvati i brani della tradizione pugliese. Lunedì l´inaugurazione
ANTONELLA GAETA
GIOVEDÌ, 26 MARZO 2009 LA REPUBBLICA Bari

Andrea Sacco, anziano cantore di Carpino, ne aveva fatto una massima di vita: "Chi suona e canta non muore mai". Ma il patrimonio sonoro della tradizione pugliese ha rischiato molte volte di morire, dissolto nell´indifferenza, ignorato dalla cattiva cultura. Intanto, studiosi indipendenti hanno continuato a registrare, catalogare, inventariare e, dunque, a preservare canti, nenie, serenate, tesori. Poi sono venuti gli anni della riscoperta e le piazze si sono riempite di quegli stessi suoni che adesso sappiamo riconoscere e (forse) amare. Il momento giusto, insomma, per un bell´Archivio sonoro della Puglia che lunedì sarà inaugurato alla Cittadella della cultura di Bari. Con una festa straordinaria che, tra Biblioteca nazionale e Archivio di stato, schiererà sessanta cantori della tradizione, da Grumo a Zollino, da San Giovanni Rotondo ad Altamura.
Grande risultato l´archivio che porta la firma di un caparbio e appassionato etnomusicologo, Vincenzo Santoro, dell´associazione Altrosud di Mimmo Ferraro con il sostegno del ministero per i Beni culturali e dell´assessorato alla Cultura della Regione. Tre le postazioni che, al momento, saranno allestite nella Biblioteca nazionale, terminali soltanto della ricerca. Perché l´ottimo sito www.archiviosonoro.org/puglia offre agili possibilità di consultazione da casa (la parte tecnica la cura il laboratorio Leav dell´Università di Milano). Basta inserire nel motore di ricerca il titolo di un pezzo, il nome di un´artista, di un ricercatore e si apre mezzo secolo di storia sotto gli occhi. Voci antiche si schiudono assicurando l´effetto viaggio nel tempo come accade con la festa di san Rocco in Salento raccolta da Diego Carpitella. Un affaccio su un mondo scomparso.
Sul sito si ha tutto a disposizione con assaggio di ascolto da 40 secondi. Per completarlo occorre raggiungere Bari. A disposizione, per il momento ci sono 1500 pezzi catalogati, ma quando l´archivio andrà a regime ce ne saranno 4000 e il successivo passo sarà quello di decentrarlo in sedi territoriali. E veniamo al patrimonio catalogato che va dalla primissima campagna mai effettuata nel 1950 dal tarantino Alfredo Majorano alle celeberrime campagne di ricerca di Alan Lomax e Carpitella nel 1954, passando per rarità come le registrazioni del ´64 di Leo Levi nella comunità neo-ebraica di Sannicandro Garganico e attraverso l´esplorazione del tarantismo lungo gli anni Sessanta di Annabella Rossi, fino alle più recenti rilevazioni sulla Murgia di Massimiliano Morabito, Annamaria Bagorda e Gianni Amati. Sette in tutto i fondi a disposizione. Quello dell´Accademia nazionale di Santa Cecilia con 467 documenti di Lomax-Carpitella e di Remigio De Cristofaro tra ´54 e´66. Il fondo De Carolis dedicato a Sannicandro Garganico e Carpino. Il fondo Leydi, uno dei più ricchi, depositato nel 2003 in Svizzera, con quarant´anni di rilevazioni dal ´64 al 2000 su tutto il territorio regionale. Il fondo Profazio che offre delle rarità su Matteo Salvatore che lo stesso Otello Profazio registrò nel corso di trasmissioni radiofoniche negli anni ´60. E, ancora, il fondo Rinaldi realizzato alla fine degli anni Settanta da Gianni Rinaldi e Paola Sobrero con un´inchiesta sulla memoria storica dei braccianti del Tavoliere. E, per finire, i più recenti, il fondo Morabito e l´Amati-Bagorda composto percorrendo dagli anni Novanta, Puglia centrale e Murgia. Tre le macro-aree di suddivisione: Capitanata, Puglia centrale e Murgia, Salento che consentono anche un passaggio attraverso il lavoro di ricerca di fondamentali studiosi come Ernesto De Martino, Giovanna Marini, Gianni Bosio, Brizio Montinaro, Salvatore Villani, Luigi Chiriatti, Ivan Della Mea, Clara Longhini.

domenica 15 marzo 2009

Le Anguane

Le Anguane

In Trentino questo è il nome usato per le ondine o per le ninfe, cioè le donne dell’acqua.
Le aguane sono esseri minuti, di aspetto assai seducente, ma hanno un piede rivolto all’indietro.
Le aguane hanno una regina che si chiama Vodia. E assai difficile vedere un’aguana perché escono dall’acqua solo il venerdì per stendere il loro bucato.
Delle ondine in generale si dice poi che vivono nei laghi e nei fiumi e il loro sorriso sono le ninfee. Il loro più gran desiderio è ottenere un’anima e che è loro possibile sposando un mortale.
Ciò accade di frequente perché il loro aspetto è del tutto simile a quello degli uomini.
Il loro potere è grande: esse governano tutte le acque, quelle di sopra e quelle di sotto, quelle buone e quelle cattive.
Per riconoscere un’ondina basta osservare la sua veste: le vesti delle donne d’acqua sono lunghe e larghe per nascondere il piede torto.
Un’altra curiosità è quella che non lasciano ombra, ma tracce umide come le lumache.

Brunamaria Dal Lago
Il Sogno della Ragione
Unicorni, ippogrifi, basilischi, mostri e sirene
Mondadori, Milano, 1991

Pagina 187

Il Sogno della Ragione. Unicorni, ippogrifi, basilischi, mostri e sirene

Brunamaria Dal Lago
Il Sogno della Ragione. Unicorni, ippogrifi, basilischi, mostri e sirene
Mondadori, Milano, 1991
Dall’immaginario al Mostruoso potrebbe essere il titolo di questo libro. L’origine della sua scrittura sta nella esplorazione di spazi ambigui e misteriosi dove l’esperienza del già conosciuto si interseca con il racconto. Luoghi privilegiati di questo itinerario sono terre lontane: la terra di Babele, le porte di ferro di Alessandro per tenere lontani i popoli di Gog e Magog, l’esperienza dell’incontro con le Sirene. Il territorio dei mostri è il territorio dell’inconscio: ci spaventa il noto divenuto ignoto che ritorna a noi nel “Sogno della ragione” stravolto, modificato, mostruoso. Il magico rappresentato in figure, in opere, è la strategia per sconfiggere la novità e il mostruoso: così la ragione trova il modo di relegare i mostri in luoghi fissi, lontani, non pericolosi. Ma che cosa accade ora? L’immagine si apre di nuovo, cede il posto alla fantasia, il mondo dei mostri non è più libresco o grafico. Forse stiamo intraprendendo un viaggio all’incontrano: un viaggio che dal Mostruoso ritorna all’immaginario.

Dalla quarta di copertina.

domenica 8 marzo 2009

Vischio

Vischio
«I Druidi — scriveva Plinio il Vecchio — non considerano niente di più sacro del vischio, e dell’albero sul quale cresce, purché si tratti di un rovere». Pur essendo una pianta parassita, poiché trae il suo nutrimento dalla corteccia degli alberi sui quali vive, e, anzi, proprio per questo perché «disceso dal cielo» il vischio era considerato sacro al Sole e simbolo beneaugurante di rigenerazione e di immortalità. Questa pianta è stata poi cristianizzata ed è rimasta un simbolo del Verbo incarnato. Oggi il vischio (ma anche l’agrifoglio) viene regalato in occasione del Natale e del Capodanno.

Dario Spada
Da “Il giornale dei Misteri, dicembre 1994

Usi e tradizioni del Capodanno

Usi e tradizioni del Capodanno

Il folklore festivo italiano legato al capodanno è estremamente ricco. In molte parti del paese giovani compagnie di questuanti che suonano e cantano vanno in giro per le case a far baldorie (sono le Stelle, le Pasquelle, le Befanate). Si tratta, molto probabilmente, di un antico retaggio pagano legato ai riti solstiziali. Da altre parti si fanno grandi falò e si bruciano pupazzi raffiguranti vecchie megere o creature antropomorfe personificazioni di diavoli. Molto curiosa è la leggenda di S. Silvestro a Poggio Latino in provincia di Rieti dove la tradizione afferma che il Santo liberò il paese dalla presenza di un drago che viveva in una caverna per scendere nella quale si dovevano percorrere 365 gradini, tanti quanti i giorni dell’anno. Oggi la festa a S. Silvestro consiste solo in una veglia collettiva conclusa con un gran cenone pantagruelico.

Dario Spada
Da “Il giornale dei Misteri, dicembre 1994

Redodesa

Redodesa
La Redodesa è una Befana conosciuta in tutto il Bellunese e in altre zone del Veneto. A Gron, a mezzanotte della vigilia dell’Epifania passa la Redodesa con i suoi dodici Redodesegot (i dodici mesi dell’anno ma anche le dodici notti sante che vanno dal Natale all’Epifania) che fermano le acque dei fiumi Cordevole e Mis; chi attinge acqua in quel preciso momento viene travolto dai flutti e il primo che al mattino seguente porta gli animali ad abbeverarsi trova sul greto del fiume uno splendido mazzo di fiori. Secondo Q. Ronzon — vedasi Almanacco Cadorino, anno III, 1885 — «la Redodesa è una donna che suole farsi sentire la sera dell’Epifania a strepitar catene. Guai in quella sera a non tener alzate le catene dal fuoco della cucina o lasciar la stoppa sulla rocca, ne fa un inferno! Una volta, per farla fuggire, si accendevano dei fuochi e si mandavano delle grida».

FAVOLE. DAL FOCOLARE DEI GRIMM DOLCI FIABE

Il sole 24 ore, 06/04/1986
FAVOLE. DAL FOCOLARE DEI GRIMM DOLCI FIABE
Silvia Tomasi

E' in questo desiderio nostalgico di unire forse per l' ultima volta parola e realta' , soggetto e mondo, sogno e natura che i fratelli Grimm, Jakob (1785-1863) e Wilhelm (1786-1859), curano l' allestimento della loro straordinaria raccolta di favole: le Fiabe del focolare. La Germania delle fanciulle dalle trecce bionde o color dell' ebano come quelle di Biancaneve, delle finestre spettrali a forma gotica, degli oscuri castelli turriti dove esplodono i drammi di Rosaspina e Raperonzolo, ci viene proposta in una nutrita rassegna a Cesena, per celebrare i fratelli Grimm, nel bicentenario della nascita di Wilhelm. Il "progetto Grimm" e' articolato in una serie di laboratori, incontri con appuntamenti da marzo a ottobre, in un ciclo di conferenze, uno spettacolo teatrale prodotto dal centro Roselle e una mostra fotografica e documentaria aperta fino al 20 di aprile. E' in un clima ricco di slanci poetici, genialita' creativa ed elaborazione collettiva che i Grimm raccolgono i racconti popolari, quando la tensione romantica verso la poesia si trasforma, dopo il 1820, in filologia e' allora che, dall' appassionato filologismo poetico, nasce la filologia vera e propria, e si svilupperanno poi come scienze anche linguistica e folclore. Jacob, il filologo, e Wilhelm, il poeta, raccolgono un vastissimo materiale fiabesco e lo rielaborano con un fine intuito poetico: le favole raggiungono un equilibrio fra eleganza stilistica e angoscia mitica. Impresa comune dei due fratelli sara' anche il monumentale Deutsches Worterbuch, il dizionario dei Grimm che tuttora risulta ricca miniera della lingua tedesca al nome di Jacob sono legate una grammatica in quattro volumi e una mitologia germanica a quello di Wilhelm, la ricerca sulle Leggende eroiche tedesche. Nella creazione delle favole, la filologia si reinventa in colori irridescenti, e i due fratelli adottano un compromesso fra la fedelta' al testo originale e l' immediata efficacia sui lettori: la tradizione orale arcaica o dialettale si trasforma nel linguaggio dei tasti fantastici e febbrili conta l' abbandono a una musica, anzi a un canto, che nella creazione fiabesca riproduca un mondo di conoscenze, fatti e sentimenti semplici, anche se spietati, comuni a tutti. Cosi' la favola dimostra la sua eccentrica simbiosi fra cultura, mitologia e immaturita' , essa risolve in un' educata armonia il richiamo al caos, alle tenebre orribili dell' infanzia del mondo. Fra i primi lettori delle Fiabe dei Grimm, ci furono Achim von Arnim e Clemens Brentano (la cui celebre raccolta di canti e poesie popolari, Il corno magico del fanciullo, e' stata recentemente ristampata nella Bur, a cura di Marina Cavalli e Dario Del Corno). Arnim si mostro' subito entusiasta della prima versione della raccolta, Brentano rinuncio' addirittura a pubblicare le proprie fiabe, molto piu' elaborate e letterariamente costruite. Per la raccolta dei Grimm si spalancava la "storia infinita" di una straordinaria fortuna critica presso ogni tipo di lettore. Dietro alle parole delle favole, naturalmente, ci si aspetta l' illustrazione, quasi un suggello dei drammi, mormorii segreti della natura, furberie dei personaggi. Tra ironia e nostalgia, grossolanita' e struggimento, si ando' ben presto instaurando quella sorte di "complicita"' fra le magie fiabesche dei due fratelli e gli illustratori che ce ne hanno trasmesso il fascino in un' iconografia memorabile. Come ha sottolineato Guido Almansi in una delle relazioni tenute nell' ambito delle manifestazioni cesenati, gli scettici incanti degli illustratori condividono con la fantasia infantile un' identica "malafede" nel credere, e allo stesso tempo non credere, alla verita' della fiaba. La vitale "ambiguita"' garantisce la forza del patrimonio fiabesco dei Grimm, e l' importanza di riaccostarsi a esso con acume critico e disponibilita' d' incanto. Il che avverra' , presumibilmente, anche nel convegno sulla letteratura per l' infanzia organizzato da Giorgio Cusatelli, previsto presso l' Universita' di Pavia dal 9 all' 11 aprile, e avra' tra i suoi protagonisti i due fratelli Grimm, poeti e filologi dell' immaginario.

DA OLTRE 200 MILA ANNI I LUPI CANTANO ALLA LUNA

Il sole 24 ore, 29/11/1987
DA OLTRE 200 MILA ANNI I LUPI CANTANO ALLA LUNA
Mario Schiavone

Ampliando le note riportate da Conrad Gesner (Historiae Animalium... Zurigo, 1551-1587) sulle Locuste, Thomas Moffett (o Moufet, 1553-1604) ci tramanda su questo insetto il seguente passo, scritto intorno al 1590: . La storia dei rapporti fra animali e uomini e della loro evoluzione ci sono presentati nell' interessante opera di Robert Delort (Les animaux ont une histoire. Editions du Seuil, 1984), tradotta in italiano e pubblicata nel 1987 dagli Editori Laterza col titolo L' uomo e gli animali dall' eta' della pietra a oggi, (pagg. 426, L. 45.000). Il contenuto testuale di quest' opera e' molto interessante dato che esso, oltre all' indagine storico-scientifica, si basa sull' analisi di quei rapporti intercorsi fra l' uomo e l' animale fin dai piu' antichi tempi. Come lo stesso Autore scrive: . In questo libro la storia degli animali si snoda dalle sue forme piu' semplici sino all' avventura spaziale che mette in orbita cani, scimmie, api e topi. La trattazione e' ricca di dati storici, ma anche di particolari curiosi, provocatorii, familiari, assolutamente inattesi. Numerosissimi i riferimenti alle scienze esatte come pure ai testi sacri, alla letteratura, ai racconti epici del periodo feudale, ai trattati di caccia, ai manuali di veterinaria, alla storia dell' arte, al folclore, alla pubblicita' , ai fumetti (cosi' dal books di copertina posto al libro). In sostanza l' Autore traccia un quadro preciso e ampio di osservazioni curiose e impensabili, anche sugli animali a noi piu' vicini e familiari. Tralasciando l' esposizione noiosa e retorica della classificazione zoologica, egli descrive le vicende storiche di alcuni animali, come quelle riguardanti la zanzara, la locusta, l' ape, il lupo, l' elefante, il coniglio, il gatto, il cane e altri animali. Fra i rapporti dell' uomo con gli animali interessante e' quello con il Lupo (Canis lupus). Per renderci conto di questo rapporto basta gettare uno sguardo alle cronache del passato per capire quale importanza abbia avuto questo animale per l' uomo, tanto e' vero che questa bestia feroce, pur presente sulla Terra da oltre duecentomila anni, ha visto il proprio mondo sconvolto negli ultimi tre millenni: da circa tremila anni fra l' uomo e il lupo e' nata quella rivalita' atavica che ha portato il lupo alla quasi completa estinzione. Il discorso sarebbe troppo lungo, ma rifacendoci a periodi piu' recenti, basti rammentare alcuni episodi verificatisi nei vari paesi. Si racconta che nell' anno 1422, al tempo di Carlo V, periodo in cui l' Europa era stretta in una morsa di carestie e di guerre, nell' ultima settimana di settembre vennero segnalati a Parigi diversi casi di aggressioni di lupi affamati pure proveniente dalla Francia e' la famosa storia della Bete de Ge' vaudau che divoro' fra gli anni 1764-1767 oltre cento persone. Contro la bestia si mobilito' anche Carlo Magno col suo corpo addestrato di lupari, mobilitazione che ricorda quella di Gubbio per liberare la citta' da un , ammansito poi dalle parole di San Francesco. Ovviamente in questi racconti esiste molta fantasia dovuta all' eccitazione popolare e alla trasmissione orale dei fatti. Documentati invece sono quei fatti a noi piu' vicini nel tempo, come quello di una banda di lupi inferociti che, alla fine del secolo scorso, assedio' un villaggio russo sito ai confini con la Siberia, tanto che le persone uscite malconce dalla lotta furono inviate a Parigi dallo Zar per essere sottoposte alle cure di Luigi Pasteur, che in quel periodo stava sperimentando la terapia contro l' idrofobia. Da cio' si capisce come, in tale atmosfera di terrore e di paura, la lotta contro il lupo si sia moltiplicata causando in poco tempo la quasi estinzione di questa specie animale. Naturalmente il lupo da tanta notorieta' non poteva non interessare l' arte, la letteratura, la poesia e successivamente la scienza zoologica. Chi non ricorda gli affreschi di Giotto e di Pisanello che magistralmente hanno raffigurato le sembianze di questo carnivoro? Chi puo' dimenticare le favole di Esopo, la poesia di Dante, di de La Fontaine e di Perrault, fino a Trilussa? Ma il lupo ebbe una parte predominante in quei proverbi popolari che, nati per lo piu' durante il Medioevo, sono giunti fino a noi, come: ha una fame da lupo chiudere il lupo fra le pecore come atto di dissuadere chi pecora si fa, il lupo se la mangia come atto di ammonimento un mondo di lupi come atto di deplorazione e per finire come diceva Plauto Homo hominis lupus. A questi proverbi di condanna, si contrapponevano quelli umoristici e di superstizione, come: in bocca al lupo| come augurio, sempre pero' a condizione che crepi il lupo| Non meno interessanti sono le immagini del lupo nella cultura antica dove lo troviamo associato a Marte, dio della guerra o come emergente dall' oscurita' del bosco, come luce che rompe le tenebre, in questa accezione accostato al nome di Apollo-Licio che significa di luce e di lupo oppure a Miletos, figlio di Apollo, che fondo' Mileto, mentre Romolo, figlio di Marte, allattato dalla lupa, fondo' Roma o anche come e' visto nel mondo nordico che lo associa al dio-lupo (= Belen, Belenos), che in gallico significa appunto lupo.

MA NEL FOLKLORE RESTA L' EQUINOZIO

Il sole 24 Ore, 14/02/1988
MA NEL FOLKLORE RESTA L' EQUINOZIO


Diverso era il calendario presso i popoli antichi in possesso di civilta' avanzate, in special modo presso i Romani con la Riforma Giuliana che Cesare appronto' nel suo terzo consolato di cui non si hanno opinioni concordi, riforma successivamente emendata con la Correzione Gregoriana. Sulla riforma giuliana i pochi cenni storici pervenutici sono quelli di Ovidio, Plinio il Vecchio, Svetonio, Plutarco e Dione Cassio notizie piu' ampie ci sono date dai grammatici Censorio, Solino e Macrobio. Solo Ovidio (Fasti, III, 161-162), quasi contemporaneo alla riforma, ci parla di che Cesare avrebbe chiesto agli astronomi inserendola nello stesso ordinamento della riforma collaborazione mirante a eliminare l' arbitrato e l' incostanza del calendario in uso fino a quel momento, al fine di portare l' anno civile a coincidere quanto piu' possibile con l' anno tropico e ritenuto poco diverso dai 365 giorni e un quarto di quello civile. Cosi' Cesare istitui' cicli quadriennali: tre anni formati di 365 giorni e uno di 366 giorni. Al tempo della riforma, l' anno ufficiale era in anticipo di circa novanta giorni sull' anno compensato, cosicche' Cesare nel mese di febbraio del 708 di Roma, inseri' il mese mercedonio di 23 giorni, e i rimanenti giorni li riparti' in due mesi, inserendoli fra novembre e dicembre: quell' anno non fu di 12 mesi ma di 15 mesi pari a 445 giorni secondo quanto ci tramanda Censorio, di 444 secondo Solino, di 443 secondo Macrobio e fu conosciuto come . Per eliminare la caotica situazione, Cesare ristabili' il seguente ordine: lascio' inalterati i mesi di marzo, maggio, luglio, ottobre e febbraio, aggiunse due giorni a ciascuno dei mesi di gennaio, agosto e dicembre (portandoli a 31 giorni) aggiunse, inoltre, un giorno a ciascuno dei mesi di aprile, giugno, settembre e dicembre (portandoli a 30 giorni). Questo togliere e aggiungere ai mesi, peraltro assai confuso, servi' a superare la diffusa superstizione esistente presso i Romani del inoltre dispose che ogni quattro anni, fra il 23 e 24 di febbraio (giorni in cui precedentemente si inseriva il mese mercedonio) si inserisse un giorno che, in base al sistema di numerare dei Romani, prese il nome di bis sexto kalendas Martias, da cui il nome rimasto all' anno bisestile formato di 366 giorni, mentre quelli comuni erano formati di 365 giorni cosi' quando entro' in uso contare e numerare i giorni di ciascun mese, il giorno aggiunto a febbraio fu segnato col numero 29 (XXIX). Da quel momento, gli anni ordinati con tale sistema si chiamarono e si contarono in progressione il primo anno giuliano inizio' nel giorno di novilunio del primo gennaio del 709 di Roma. Molte sono state le discussioni sull' effettiva collocazione dell' anno bisestile. Secondo Censorio e Macrobio, il bis sexto kalendas Martias va posto fra il VII kalendas e il VI kalendas. Pero' , secondo Th. Mommsen, Romische Chronologie bis auf Caesar, Berlin 1858, il bis sexto kalendas era collocato fra il VI e V kalendas, cio' in base a una iscrizione trovata nel tempio di Cirta recante la data di V kalendas Martias. Dopo la morte di Cesare, la Chiesa latina ritenne il 24 febbraio come giorno intercalato, mentre i pontefici invece di intercalare l' anno bisestile ogni quattro anni, lo intercalarono ogni tre, cioe' solo dopo due anni comuni questo fatto duro' per 36 anni, durante i quali si ebbero ben dodici bisestili. Augusto, accortosi dell' errore commesso, elimino' per dodici anni l' intercalazione del bisesto, per assorbire i tre bisesti inseriti per eccesso. Questa ricorrenza triennale e' dubbia dato che Dione Cassio (Roman. Hist., XLVIII, 83) narra che nell' anno 713 di Roma, durante i giochi Apollinari del 5 luglio fu intercalato un giorno oltre il consueto al fine di evitare che il primo gennaio dell' anno 714 di Roma cadesse col primo giorno di mercato, subito dopo ritolto per riallineare l' anno a quello di Cesare. La correzione gregoriana apportata alla riforma giuliana ebbe grande valore scientifico. Nel 1582 papa Gregorio XIII basandosi sugli studi scientifici di Luigi Lilio, sottoposti all' approvazione dei piu' grandi matematici dell' epoca, promulgo' l' atto per la correzione del calendario. Ovviamente i dati scientifici astronomici che servirono alla correzione sono stati continuamente rettificati in base alle ricerche degli scienziati, sempre piu' sicure e precise. Il calendario gregoriano fu accolto favorevolmente in quasi tutti i paesi, contrasti si ebbero solo nei paesi di religione protestante. Cosi' per lungo tempo si alternarono il calendario giuliano e il calendario gregoriano. Attualmente il gregoriano e' adottato quasi ovunque. Se questa e' in sintesi la storia del calendario e dell' anno bisestile, non meno interessante e' la storia del calendario nel folclore specialmente italiano. Per la cultura popolare, generalmente, l' anno e' posto sotto due pleniluni: quello di maggio che regola l' estate, e quello di settembre che regola l' inverno. Da qui il proverbio: . Nella stragrande maggioranza delle societa' agricole, i contadini conservano ancora proverbi antichissimi come: (equivalente al giorno piu' lungo, cioe' l' 11 giugno festa di San Barnaba) e (corrispondente al 13 dicembre, giorno di Santa Lucia). Questi proverbi nacquero, probabilmente, sulla base del calendario giuliano che faceva corrispondere l' 11 giugno al 20 giugno (San Siverio), e il 13 dicembre al 20 dicembre (San Giulio) (cosi' : Rubieri, Storia della poesia popolare italiana. Firenze, 1877, pagg. 291). Per alcune regioni dell' Italia meridionale, per esempio, i contadini della Calabria, il simbolo dell' equinozio di primavera consiste nel pesco coperto di fiori e frutti per quelli della Puglia l' equinozio autunnale cade il 21 settembre. In linea generale nella cultura popolare l' inizio e la fine delle stagioni sono legate non alle scadenze poste dal calendario, ma ai fatti naturali, che per il loro ripetersi, sono ritenuti infallibili, come il fiorire e il fruttificare delle piante, il canto di alcuni uccelli e le abitudini degli animali che si ripetono a intervalli di tempo abbastanza precisi questi fatti coincidono stranamente con quelli dei Pellerossa dell' America del Nord. La citazione dei proverbi popolari potrebbe continuare all' infinito, ci limitiamo a ricordare ancora qualcuno fra i piu' famosi come quello riguardante la festa della Purificazione del 2 febbraio: o come quello dell' entrata della primavera: o ancora quello sul canto dell' assiuolo che i Siciliani chiamano cirrincio' annunciante di cedere o tenere in fitto il fondo: . Nelle regioni settentrionali tale annuncio e' fatto dal cuculo che compare fra marzo e maggio, mentre il fringuello o il merlo avvertono il contadino che l' autunno e' inoltrato, l' anno agricolo e' iniziato e non e' piu' tempo di allontanarsi dal podere. Nel linguaggio figurato popolare, per esempio, agosto e' raffigurato nell' atto di porgere a settembre il messaggio da leggere agli uomini, avvertendoli che l' inverno e' vicino ed e' tempo di provvedere alle provviste alimentari e infatti il 25 novembre si crede giunto l' inverno come dice un altro proverbio: . Per i contadini della Romagna i giorni che compongono l' anno sono ridotti ai dodici, i primi dodici giorni di gennaio questi, in base a una antica tradizione, sono fatti corrispondere a dodici mesi su questa base e' pronosticato il bello e il cattivo tempo che fara' nell' arco dei dodici mesi dell' anno corrente. Questi dodici giorni corrispondono ai giorni endegari dei Veneti e alle calende dei Calabresi. Qualche volta i calendari popolari sono indicatori di prosperita' o di avversita' , come i primi 25 giorni di gennaio, su cui spesso si basano i pronostici. La cultura popolare distribuisce i primi 25 giorni di gennaio in due modi per ricavare auspici, uno crescente, contando da gennaio a dicembre dodici giorni (1-12), l' altro decrescente, contando da novembre a gennaio gli altri giorni (13-24) con il 25o giorno intercambiabile. Fatti mnemonici che possono essere ritenuti gli archetipi di calendari misuratori di tempo popolari non mancano presso la gente meno acculturata. Per esempio, in molte localita' , per conoscere di quanti giorni era fatto un mese si costumava contare sul pugno della mano, partendo dall' indice seguendo le nocche e le fossette, e, al mignolo ricominciando. I mesi corrispondenti alle nocche contavano 31 giorni, quelli corrispondenti alle fossette di 30 giorni, tranne febbraio che contava 28 o 29 giorni. Queste credenze, ovviamente, non appartengono alla scienza astronomica, la sola a stabilire le regole esatte del tempo ripartendolo in ore, giorni, settimane, mesi e anni, ciononostante esse fanno parte di quella cultura il cui studio ci permette di capire meglio le nostre origini, le nostre superstizioni, le nostre credenze, e, perche' no, le nostre speranze di un futuro migliore.

C' e' saggezza in quei boschi

Il Sole 24 ore, 19/03/1989
FIABE
C' e' saggezza in quei boschi
Franco Loi
La fiaba ha una sua tradizione che sappiamo incentrata attorno a pochi nomi famosi, che nelle diverse epoche hanno lavorato attorno al folklore popolare e ai racconti da filo' o da satura per non lasciare dispersi patrimoni di saggezza e di fantasia altrimenti destinati, con la scomparsa dell' oralita' e della sua funzione culturale, ad andare perduti. I nomi sono noti a tutti: Esopo, Fedro, Perrault, La Fontaine, i fratelli Grimm, Krilov, Von Brentano, Afanasjev. Anche l' Italia ha una vasta e importante produzione fiabesca. Per non parlare dell' assunzione di storie e miti che Boccaccio fa nella sua narrativa, si pensi a Nastagio degli onesti, da Giovan Battista Basile sino alle recenti raccolte di Italo Calvino abbiamo un repertorio tra i piu' ricchi della mappa mondiale. Bene ha fatto quindi la Mondadori a pubblicare negli Oscar, e l' edizione e' in corso da anni, un repertorio della fiaba suddiviso nelle sue versioni e tradizioni regionali, anche se questo straordinario panorama avrebbe dovuto in alcuni volumi e per talune regioni avere studiosi piu' preparati e un piu' vasto riferimento. Ora la Salani ha voluto ristampare un libro che sul finire dell' 800 ha avuto grande popolarita' in Italia, scritto da uno studioso celebre in tutte le nostre scuole per una meritoria e ponderosa opera quale il Vocabolario della lingua italiana, noto a generazioni di studenti come . Ed e' proprio Policarpo Petrocchi l' autore illustre di questo Nei boschi incantati, che raccoglie circa otto fiabe introdotte da una premessa di Fernando Tempesti. Dico perche' alcune di queste sono una specie di repertorio di diverse fiabe, storie che cuciono insieme brani di altre ed eterogenee storie. Cioe' l' edizione toscaneggiante di un purpurri' o favolesco. Ed e' appunto nella lingua toscana, anzi nel vernacolo piu' basso, il fascino piu' sottile di quest' operazione. E anche se il prefatore afferma che e che in e, inoltre, che qui avremmo , a me pare che il toscano sia usato abbastanza in modo folklorico piuttosto che in funzione narrativa, specialmente nelle ultime quattro fiabe tratte da miti o antichissime leggende, e che appunto la , al modo di certo Fucini deteriore, prenda spesso la mano dell' affabulatore. Tuttavia un libro che andrebbe curato maggiormente e che avrebbe dovuto essere reintrodotto, non parendomi utile riproporre in modo cosi' brutale un testo che e' decisamente nei gusti di un periodo appena postunitario.
Policarpo Petrocchi, Nei Boschi incantati, Salani, Firenze 1989, pagg. 190, L. 18.000.

Mappa delle impronte del diavolo in Italia

Leggende.
Mappa delle impronte del diavolo in Italia

A 1.200 metri sul monte Vandalino in territorio di Cuneo in una caverna vi sono, impressi nella roccia, delle orme di piede che i locali chiamano «peà dar diàu» (pedate del diavolo).
Tra S. Bartolomeo e S. Martino (Sondrio) c’è una pietra con incisa l’impronta dell’intero corpo del diavolo e dirimpetto, sopra Tirindree, su una rupe, l’artiglio impresso nella roccia: cinque fori. Anche sulla strada fra S. Antonio Morignone e S. Bartolomeo (Sondrio), dove avvenne uno smottamento anni fa che causò molte vittime e danni incalcolabili, vi è una pietra con l’impronta degli zoccoli di un demonio.
Sulla vetta del Monte Burello, in VaI Magra, in provincia di La Spezia, vi è una cavità chiamata «il forno del diavolo» dove sono nette le impronte delle corna del diavolo.
L’impronta di un piede del diavolo è sulla strada per Malciaussia (Torino) vicino al Piss Madaj.
Impronta di piedi, zoccoli, corna e artigli del diavolo sono anche sulla pietra cagna che si trova in un punto del Bec Ceresin nella Valle di Lanzo Torino.
Nel territorio di Gressoney-Saint Jean (Aosta) poco oltre l’hotel Miravalle c’è la roccia del diavolo con l’impronta di due corna.
Vicino al Santuario di Oropa (Vercelli)
in una galleria vi sono, nette, le tracce lasciate da un carro infernale e, nel sasso, si possono vedere anche le impronte delle mani del diavolo.
A 5. Benigno (Torino) sulla parete del campanile c’è l’impronta di un artiglio del diavolo.
In Val Grande, in territorio di Vercelli sul monte Ventolaro c’è la «parete forata», un ampio foro nella roccia largo 4,50 m e alto 1,70 prodotto dalla cornata di un diavolo.
Nella Conca di Cilimo (Novara) vi è un masso con l’impronta del piede del diavolo.
Un macigno che conserva le impronte della testa delle corna e degli unghioni del diavolo è situato sulle falde della Ravasina, vicino a Cervarolo (Novara).
Nell’agro montuoso di Alice Superiore (Torino) presso le gole del Caravò c’è un masso con l’impronta di una zampa del demonio.
In piazza Sant’Ambroglio a Milano vi è una colonna con i fori delle corna del diavolo.
Un buco provocato da un demonio è anche sul ponte di Pavia che attraversa il Ticino.
A Bobbio (Piacenza) nella cripta della chiesa di S. Colombano si possono vedere sul pavimento piccole impronte nere lasciate dalle zampe di un cane che, in realtà, era un demonio.
A Ganda (Bolzano), in Val Martello, in una roccia sono impresse le impronte di un corpo e i locali chiamano il sasso «il seggiolone del diavolo» perché, si dice, vi stava seduto un demonio in meditazione.
Sulla serra sopra la Fornacetta di Barga (Lucca) sulla sommità di un monte c’è una rupe che conserva l’impronta degli artigli del diavolo che salta di sotto per scommessa. Il luogo è «il salto del diavolo».
Sul monte di Saliceto nei pressi di Zeri (Massa Carrara) vi è una grotta sulle cui pareti è incisa l’orma dello zoccolo di un cavallo montato dal diavolo.
Sulla via Ristonchiaia vicino a Vallombrosa (Firenze) è visibile il «masso del diavolo» con le orme dei piedi infernali.
A Roma nella chiesa di S. Domenico c’è una pietra che, si dice, fu gettata da un diavolo contro il santo.
A San Vito Chietino (Chieti) c’è uno scoglio largo tre metri e, quando è bassa marea, si possono vedere due impronte di piedi di capra che, sembra, sono del diavolo.
Sul monte di Luogosanto (Sassari) ci sono due orme: una di Gesù e l’altra di un diavolo.
A Buggerru (Macerata) sul fianco della montagna c’è una spaccatura a forma di mano provocata da un diavolo.
Vicino ad Aci Platani (Catania) in una viuzza che porta ad un vecchio mulino vi è un masso di lava sul quale si notano due incavature somiglianti alle orme di un piede. La prima è quella del Signore, la seconda è la pedata di un demonio. In località «petre cent’anni» vicino a Isnelli (Palermo) c’è un masso in arenaria con incise due orme fatte da un diavolo.

Dario Spada
Il Giornale dei Misteri, Agosto 1992, pagina 47

Mappa dei Ponti del Diavolo in Italia

Leggende Popolari.
Mappa dei Ponti del Diavolo in Italia

A Pont Saint Martin (Aosta), nella Valle del Lys, allo sbocco del torrente omonimo della Dora vi è un Ponte del Diavolo a una sola arcata.
Un altro è a Neive (Cuneo) costruito in una sola notte dal diavolo Berlicche.
A Foppiano (Novara), nelle vicinanze di Domodossola c’è un Ponte del Diavolo di antica fattura e un altro sulla strada del Sempione è chiamato «Ponte dell’Orco».
A Biella (Vercelli) sul fiume Elvo ve n’è uno molto bello.
Sempre in Val di Lanzo, tra Pessinetto e Mezzenile (Torino) c’è il «figlio del Ponte del Diavolo)> più modesto dell’altro di cui si è narrata la leggenda.
A Sondalo (Sondrio) in Valtellina c’è un Ponte del Diavolo a una sola arcata.
A Bobbio (Piacenza) il Ponte Gobbo che attraversa il Trebbia è opera del diavo
lo.
Anche il bel ponte sul fiume Ticino, a Pavia, che fu distrutto e poi rifatto nel 1351 era stato eretto da un demonio.
Il Ponte di Véia situato in una valletta carsica sul ripido fianco destro del Vàio della Marcora in provincia di Verona venne approntato in una sola notte da un diavolo.
Il ponte a due arcate di Cividale del Friuli (Udine) sul fiume Natisone è opera del demonio.
In quei di Venezia, al Torcello vi è un ponticello del diavolo senza parapetto perché c ogni volta che questo veniva costruito crollava improvvisamente.
Un colossa1e monolito fa da ponte naturale tra Brandola e Montecenere (Modena) in Val Rossena: è il Ponte del Diavolo.
E opera di un satanasso anche il ponte di Tiberio a Rimini (Forlì).
Sempre nel modenese, nei pressi di Fiumalbo. alle falde del monte Cimone vi è un porte del diavolo che scavalca il fiume
A Borgo a Mozzano (Lucca) il ponte medievale dell’ XI secolo detto «della Maddalena posts sul Serchio è un ponte del diavolo e fu fatto costruire dal maligno a San Giuliano. Un altro è a Fiumetto, nei pressi di Pietrasanta.
Uno è sull’Afra. un torrentello che si getta nel Tevere nelle vicinanze di Sansepolcro (Arezzo)
A Blera (Viterbo) c’è un Ponte del Diavolo a :tre campate sul torrente Biedano.
Uno era a Liternum sull’antica via Domitiana .ma ora è distrutto.
Un Ponte del Diavolo è a Canale Monterano (Roma).
Sul fiume Castellano, vicino ad Ascoli, c’è un ponte chiamato Ponte di Mastro Cecco costruito dal demonio. Un altro è posto sul torrente Garrufo, affluente del Tronto i cui colossali massi sarebbero stati sistemati in una notte di magia dal daivolo.

A Illerai (Sassari) sul fiume Tirso, c’è un ponte mutilato. Fu il demonio che, arrabbiato per essere stato ingannato dopo averlo costruito, lo mandò in frantumi con un poderoso calcio.
Il «Ponti Mannu» vicino a Oristano è opera del diavolo.
A sud-est di Marineo (Palermo) sul fiume Eleutherus c’è un ponte a più archi chiamato anche «ponte vecchio» costruito da piccoli diavoli in una sola notte. dal diavolo.

Nota. Alfine di compilare una casistica il più completa possibile sui Ponti del Diavolo in Italia invito i lettori a volermi segnalare, magari con l’invio di una cartolina illustrata, tutti questi manufatti. Scrivere a: Dario Spada …
Il Giornale dei Misteri, agosto 1992, pagina 47

domenica 1 marzo 2009

Nelle ultime tre generazioni scomparsi 200 dialetti

Corriere della Sera 1.3.09
Nel mondo Il cinese mandarino è il più diffuso.
Nelle ultime tre generazioni scomparsi 200 dialetti
Lingue salvate, lingue perdute Il nuovo atlante delle parole
Dei 6 mila idiomi 2.500 rischiano di sparire
di Paolo Salom

Globalizzazione
La scomparsa di certe forme espressive è un fenomeno mondiale.
Ma non si può sostenere che l'inglese e lo spagnolo siano le lingue-killer
In Italia Dalla Valle d'Aosta alla Puglia sono cinque le forme espressive autoctone minacciate di estinzione

Signor Candido Ortiz, lei è accusato di tentato omicidio in stato di ubriachezza». Niente, nessuna risposta. «Lei capisce quello che sto dicendo?». No, Candido Ortiz, 20 anni, non può capire. È uno delle migliaia di immigrati più o meno regolari che sopravvivono in California senza avere mai imparato l'inglese. Il caso di Ortiz ha meritato la prima pagina del Los Angeles Times perché i cancellieri del tribunale distrettuale hanno impiegato tre mesi prima di trovare un interprete in grado di far comprendere all'imputato i suoi diritti costituzionali e, soprattutto, le accuse. Alla fine, con un espediente degno di Hollywood, procuratore e avvocati hanno potuto finalmente interloquire con lui grazie a una triangolazione in teleconferenza con il Messico, suo Paese d'origine. Tanta fatica per un traduttore dallo spagnolo? No, certo: la lingua di Ortiz non è l'idioma di Cervantes nella sua versione americana bensì il ben più raro Quetzaltepec (una variante dialettale india del comunque inconsueto Mixe) parlato da non più di 7 mila anime nella regione montagnosa meridionale di Oaxaca.
Caso da Guinness? Non secondo l'Unesco, che nei giorni scorsi ha presentato l'Atlante internazionale delle lingue in pericolo di estinzione. Cifre da far paura: dei 6 mila idiomi parlati nel mondo, secondo l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura, almeno 2.500 potrebbero sparire per sempre. A essere «sull'orlo » della scomparsa, o a rischiare una «morte certa — ci spiega l'australiano Christopher Moseley, capo dell'équipe di 30 linguisti che hanno curato il progetto — sono soprattutto le parlate delle regioni a forte diversità linguistica come la Malesia, l'Africa subsahariana e l'America del Sud». Nell'elenco sono citate lingue conosciute (come sonorità) grazie ai film western: per esempio il Nez Perce, la lingua degli indiani Nasi Forati (sono rimasti soltanto 20 in grado di parlarla tra Idaho e Oregon); il Mescalero- Chiricahua Apache (3 parlanti nell'Oklahoma); e il Lakota di Balla coi lupi (25 mila parlanti nel South Dakota). E ovviamente lingue virtualmente sconosciute come il Chulym medio, scoperto solo 5 anni fa, e parlato da 35 persone nella russia siberiana. Sorpresa: nell'atlante la sezione dedicata all'Italia segnala cinque idiomi a rischio estinzione. Sono il Gardiol (340 parlanti), il Griko del Salento (20 mila parlanti) e il Griko della Calabria (2 mila parlanti), il Töitschu (tedesco) della Valle d'Aosta (200 parlanti) e il croato molisano (5 mila parlanti). Considerando i dialetti a basso rischio, l'atlante dell'Unesco fa una lista totale di 31 idiomi italici «in pericolo». «Il nostro lavoro — dice ancora Chris Moseley — è assimilabile a quello di un naturalista che metta in luce la fragilità di una specie animale o vegetale. Perché salvare una lingua che va scomparendo? Intanto perché è parte di una biodiversità che garantisce la ricchezza e la varietà delle culture umane. E poi perché ogni lingua, anche la più rara, è un esempio di una meraviglia, di più, di un miracolo dell'evoluzione che ha prodotto un insieme unico di parole, suoni e architettura grammaticale. Un insieme che è anche una visione del mondo originale, uno specchio delle metafore, del pensiero che una determinata popolazione utilizza per interpretare il mondo. Lasciarla svanire sarebbe un danno irreparabile: ogni lingua è un universo».
Qualcuno, a questo punto, potrebbe farsi l'idea che le lingue «minori» siano in difficoltà (unicamente) per colpa delle lingue dominanti (cinese mandarino, la più parlata, con 1.120 milioni; inglese, 510 milioni; hindi, 490 milioni; spagnolo, 425 milioni; arabo, 255 milioni). Niente di più sbagliato: «La scomparsa delle lingue è un fenomeno universale», spiega ancora Moseley. Aggiungendo come sia «semplicistico affermare che le grandi lingue che sono state lingue coloniali siano dappertutto responsabili dell'estinzione degli altri idiomi. Io non definirei spagnolo e inglese come lingue-killer, anche se è vero che hanno imposto degli standard: ma in Sudamerica, per esempio, molte parlate degli indios sono protette dai governi e stanno rinascendo. Il fenomeno è invece più legato allo sviluppo economico e alla globalizzazione, con le grandi migrazioni e l'abbandono "volontario" delle lingue "minori", alla diffusione di media moderni come televisione, radio e giornali. Poi ci sono fenomeni drammatici: lo tsunami, nel 2004, ha cancellato intere comunità nel Sud-Est asiatico con i loro idiomi». Sottolinea, a questo proposito, sul Monde Cécile Duvelle, capo della sezione del patrimonio immateriale dell'Unesco: «Le lingue sono vive. Certe muoiono, altre nascono».
Ecco dunque che, leggendo l'atlante (on line all'indirizzo www. unesco. org/ culture/ en/ endangeredlanguages), si scopre che 200 lingue si sono estinte nel corso delle ultime tre generazioni, 538 sono in una situazione «critica», 502 «seriamente in pericolo», 632 in «pericolo» e 607 «vulnerabili». Proseguendo con i dati dell'Unesco si vede che 199 lingue sono parlate al momento da meno di dieci persone.
Una tendenza preoccupante, che si può tuttavia contrastare come già accade, per esempio, nel nostro Paese. A Guardia Piemontese, paesino che, a dispetto del nome, si trova in Calabria, in provincia di Cosenza. «Nel centro storico — ci dice il sindaco di Guardia, Gaetano Cistaro — vivono oltre 300 persone la cui lingua madre è il Gardiol, ovvero l'Occitano originario delle valli valdesi del Piemonte». Nella loro lingua potremmo dire, senza bisogno di un interprete: O país de la Gàrdia l'es 'o sol país de la Calàbria aont la se parlla la lenga occitana.
Come è possibile questo miracolo? «I "gardioli" — racconta il sindaco — sono scesi in Calabria tra il XIII e il XIV secolo. Si sono stabiliti su una rocca e hanno resistito alle persecuzioni contro i valdesi durante la Controriforma. Alla fine hanno perso la loro religione: non hanno potuto evitare di convertirsi al cattolicesimo. Ma è stata proprio la lingua occitana, da loro conservata gelosamente, a salvarli dalla scomparsa come comunità culturale». Oggi sono perfettamente bilingue. E hanno, a loro disposizione, una scuola con lettorato occitano, un'amministrazione che fa di tutto per favorire la rinascita del Gardiol offrendo servizi come lo sportello linguistico, mentre la Provincia di Cosenza opera attraverso l'assessorato alle minoranze. «Noi — conclude il sindaco Cistaro — siamo in stretto contatto con le valli occitane del Piemonte. E soprattutto attendiamo con impazienza che l'Unesco riconosca il Gardiol e la cultura legata a questa lingua come patrimonio immateriale dell'umanità».