sabato 12 dicembre 2009

Dai Saturnali dell'antichità al del dio Mitra, dalla solennità cristiana fino alle bancarelle di piazza Navona, tutte le celebrazioni o

Il Sole 24 Ore, 20/12/1998
GIORNI DEL SOLSTIZIO - Riti, origini e tradizioni delle festività che segnano il passaggio dal vecchio al nuovo anno
Il baccanale sia con voi
Dai Saturnali dell'antichità al del dio Mitra, dalla solennità cristiana fino alle bancarelle di piazza Navona, tutte le celebrazioni osservate nella Città Eterna
Lidia Storoni Mazzolani

A piazza Navona si sono installate le bancarelle. Fino a pochi anni (o decenni?) fa, vi si acquistavano soltanto figurine di terracotta, che servivano a popolare di pastori e pecorelle in miniatura gli umili presepi di bambini ancora ignari di elettronica - ora è il regno della plastica. Gli abeti luccicanti di palline di vari colori erano una rarità. E la notte dell'Epifania si svolgeva, allora come ora, un tripudio assordante: abito a Ponte S. Angelo, ma quella notte le trombette si sentono anche qui. La piazza era particolarmente cara a Gioacchino Belli, che scrisse una lettera in prosa romanesca a un amico, invitandolo a raggiungervelo la sera per far baldoria insieme, e un bellissimo sonetto: Befana, la misteriosa vecchietta che si cala dalla cappa del camino e lascia i suoi doni nelle calze appese, carbone ai bambini cattivi. E . Un'atmosfera altrettanto festosa regnava negli stessi giorni nell'Urbe antica: dal 17 al 23 dicembre si svolgevano i Saturnali, feste durante le quali si voleva far rivivere il regno di Saturno, l'età dell'oro, epoca di eguaglianza e di abbondanza. Agli inzi, la festa durava un solo giorno, il 26 dicembre, ma Augusto stabilì che i giorni fossero tre, poi il periodo si allungò ancora. Interroghiamo anche noi, come i suoi illustri commensali, Vettio Agorio Pretestato, che Macrobio presenta ritirato in casa, nei giorni dei Saturnali, appunto per sottrarsi al frastuono delle strade. Sono con lui pochi amici, tutti intenti a intrecciare conversazioni ad alto livello, l'opera nella quale sono registrate queste dissertazioni erudite, I Saturnali, è del V secolo, anni in cui esistevano già le basiliche. L'amabile anfitrione - al quale si deve l'ultimo monumento pagano dell'Urbe, il portico degli Dei Consenti,- consultato come un'autorità sull'argomento, narra che Saturno, profugo dal cielo, si rifugiò presso Giano, che abitava sul Gianicolo; accolto cortesemente, ottenne come sua dimora la zona a sinistra del Tevere ed egli scelse come residenza il colle capitolino: Romolo e Remo erano ancora da venire. Saturno esercitò una funzione civilizzatrice sui rozzi abitanti della zona: insegnò loro l'agricoltura, l'uso della falce e di altri attrezzi agricoli, la vite, la moneta e le prime norme di convivenza (). Memore di questa azione benefica, Tarquinio il Superbo, l'ultimo re di Roma, gli dedicò un tempio. In esso si conservava il Tesoro nonché, incise su tavolette di bronzo, le leggi: a quel dio infatti si deve l'uso della moneta e la convivenza civile. Durante le feste dedicate al dio nel mese di dicembre - che gli era sacro - si usava tra i cittadini uno scambio di doni e di candele, simbolo della luce di civiltà che Saturno aveva introdotto. Per rievocare lo spirito di fratellanza che regnava ai tempi di Saturno, durante quei giorni i padroni servivano a tavole gli schiavi, le matrone le schiave (Servi sunt - scrive Seneca - immo, humiles amici...). I Pelasgi, approdati in Italia a seguito d'un oracolo di Dodona, eressero un'ara a Saturno e gli offrivano sacrifici umani; ma Eracle li dissuase da quell'uso orrendo e insegnò loro a offrire fiaccole accese il giorno della festa del dio: le stesse che accendiamo sull'albero di Natale? Nell'era favolosa degli inizi, durante il regno di Saturno - rievocato con venerazione durante i giorni del solstizio d'inverno - nessuno possedeva nulla in proprio né si delimitavano i campi: tutto apparteneva alla comunità, l'ideale comunista è presente, sotto forma di mito, nel subconscio umano. Durante i Saturnali non si dichiaravano guerre, non si eseguivano condanne a morte: i condannati, chiusi nel carcere Mamertino, udivano il tripudio festoso della città, in attesa del carnefice. In quei giorni, il tribunale era chiuso. Fu Numa Pompilio, secondo Macrobio, a istituire quelle festività, come pausa di riposo per i lavoratori dei campi: forse, la coincidenza millenaria delle Feste nell'ultima decade di dicembre dipende semplicemente dal fatto che in quei giorni sono ultimate le semine e non si dà ancora inizio ad altri lavori: dalle date dell'agricoltura arcaica dipendono le date dell'età industriale. Inoltre, nell'ultima decade di dicembre gli uomini si accorgevano che il sole sostava un poco più a lungo a illuminare la terra. Il Natale cristiano, infatti, coincide con quello pagano del dio Mitra (il 25 dicembre: dies Natalis Solis Invicti): equiparando la divinità al sole, i fedeli della divinità iranica scelsero quella data per la sua nascita e i cristiani anticiparono a quel giorno la nascita di Gesù, che agli inizi cadeva il giorno dell'Epifania, per la rivalità del tempo con il culto di Mitra. Poi, viene il giorno di Capodanno: entrano in carica i nuovi consoli che daranno il nome all'anno del loro ministero. Salgono al Campidoglio vestiti di porpora, preceduti dai littori. Sacrificano a Giove un toro bianco. La giornata è lavorativa perché tali saranno tutti i giorni dell'anno che inizia. Quel giorno segna il distacco tra un periodo di tempo che si chiude e un altro che incomincia: il primo deve portarsi via tutto il male che ha contenuto (gli spari attuali mirano a colpirlo). Il secondo, che si apre, dovrà apportare tanti doni: si chiamavano strenae, come oggi, quelli che si scambiavano i romani. Su questa festa abbiamo un altro competente da consultare: Ovidio, nel primo canto dei Fasti (l'esilio sul Mar Nero impedì al poeta di andare oltre il mese di giugno) interroga il dio Giano: perché l'anno ha inizio nella stagione fredda, anziché in primavera, quando la natura è in fiore, gli uccellini cinguettano e tornano le rondini? Il dio spiega che l'inizio dell'anno coincide con il nuovo sole, l'anno e il sole nascono insieme. E perché, insiste Ovidio, ci si scambiano auguri? Perché all'inizio di ogni cosa si presta attenzione agli auspici, si ascolta con ansia la prima parola che si ode pronunciare, l'augure osserva il primo uccello che vede in cielo, si offrono datteri, frutta secca e miele (non si conoscevano i cioccolatini) affinché tutto l'anno sia dolce come sono dolci le offerte della natura. Si usava inoltre sceneggiare la cacciata dell'anno vecchio con l'espulsione d'un povero vecchio cencioso, chiamato Mamurio Veturio: gesti, parole che esprimono la partecipazione emotiva al distacco tra un periodo dell'esistenza che si chiude e un altro che si apre, la speranza che quello nuovo sia migliore: sentimenti istintivi, ai quali si accompagnano ricordi, rimpianti e il tentativo, vano, di ignorarli.

Costume romano alla fine ottocento

Costume romano alla fine ottocento

Carrettiere

Carrettiere

LA BEFANIA TUTTE LE FESTE SI PORTA VIA

Il Sole 24 Ore, 04/01/1987
LA BEFANIA TUTTE LE FESTE SI PORTA VIA
Giuseppe Pittano

Natale e Capodanno sono oggi le due piu' importanti sagre commerciali dell' anno. Tredicesime e gratifiche se ne vanno infatti in gran parte nelle casse dei negozi spesso aperti con orari non stop per sedare quella febbre emitoria _ come diceva Bianciardi nel romanzo La vita agra _ scatenata dalle feste dei regali. Una volta questa febbre scoppiava per lo piu' il 6 gennaio, giorno dell' Epifania o della Befana, e interessava quasi solo i bambini. Epifania e Befana sono la stessa cosa, poiche' la seconda parola non e' altro che una corruzione della prima. Da Epifania infatti derivo' prima la voce pifani' a, poi befani' a, e infine befana. Epifania vuol dire e deriva dal greco epiphaneia, aggettivo neutro plurale di epiphane' s (* visibile, che appare). In senso cristiano l' Epifania indica infatti la prima manifestazione della divinita' di Cristo. La festa odierna nacque probabilmente in Oriente, nel sec. II d.C., per celebrare contemporaneamente la nascita di Gesu' e l' adorazione dei Magi: si diffuse poi in Occidente mantenendo la data del 6 gennaio e il valore della duplice celebrazione. Quando, verso la meta' del IV secolo, Papa Liberio sposto' al 25 dicembre la festivita' del Natale, l' Epifania divento' una festa autonoma, e la Chiesa, sfruttando il racconto dell' offerta fatta a Gesu' dai tre re Magi, riusci' a collegare a questa festivita' la maggior parte dei riti pagani di Capodanno, dedicati allo scambio di omaggi e di strenne, fondendo cosi' il rito sacro della manifestazione divina a quello profano della festa dei regali. Molto probabilmente anche la Befana e' una soppravvivenza di magiche credenze pagane, come quelle dell' orco, della capra ferrata, del lupo mannaro, dei nani e delle fate. Secondo un' antica usanza, ancor oggi conservata nei paesini e nelle campagne delle aree depresse, la Befana e' raffigurata in un fantoccio di cenci, con ampie tasche gonfie di regali che si fa girare di casa in casa il giorno della vigilia per spaventare i ragazzi, per convincerli a essere buoni e ad andare a letto presto. I bambini credono che la vecchia dai capelli di stoppa di notte si aggiri a origliare dal tetto prima di scendere lungo la cappa del camino con la sua gerla piena di doni. E se i bambimi dormono, allora la Befana porta caramelle, torrone e regali di ogni genere se invece non sono buoni, la vecchietta getta lungo la cappa carbone e cipolla. E mentre i genitori preparano i regali che li renderanno felici al risveglio, i bimbi, anche se non dormono, trattengono il respiro e nascondono il capo sotto le coperte, perche' sanno che la Befana non vuole essere vista. Guai a chi cerca di sapere chi e' : non la vedra piu' non avra' piu' doni. La magia della Befana e' tutta qui: dolci e regali di poco valore si possono comprare spesso, ma quando li porta la Befana hanno il sapore della favola e del segreto che circonda le cose piu' belle. Ormai questa magia e' pero' scomparsa, non ci sono piu' ne' la vigilia, ne' la gioia del risveglio. E' rimasto si' l' uso delle strenne e le bancarelle di piazza Navona e di tante altre piazze meno famose hanno ancora il loro fascino. Ma il posto della Befana e' ormai stato preso dai genitori, dai parenti, dai sindaci, dai direttori delle aziende e degli enti di beneficenza, dai segretari di partito e dai parroci, che fanno a gara per riempire un poco di quel grande vuoto lasciato dalla buona vecchietta. Questo uso della Befana pubblica non e' pero' recente, come si puo' credere: ha un precursore nel Duca di Ferrara Ercole I, che nel 1473, come narrano le cronache, con grande codazzo di nobili e musicanti, percorse la citta' la sera dell' Epifania bussando alle porte delle famiglie benestanti. Ovviamente, i regali furono degni del sovrano che se ne torno' alla reggia carico di strenne che distribui' poi ai suoi sudditi. Sempre a Ferrara nel giorno dell' Epifania del 1492, si istitui' la Festa della Ventura, che in seguito si trasformo' nel gioco del lotto. In quell' anno, con pochi soldi, i ferraresi poterono concorrere al sorteggio dei doni raccolti dal duca: 21 manzi, 95 vitelli, 15 agnelli, 5 caprioli, 1 capretto, 1 maiale, oltre 2.000 tra capponi, galline, anatre, fagiani, tarabusi e pile di forme, formaggi, marzapani, ciambelle, ceste di tortellini e fiaschi di vino. Una Befana veramente ducale.

Costume tipico della Campagna Romana

Costume tipico della Campagna Romana

Corbezzoli, arriva il Natale

Il Sole 24 Ore, 23/12/2007
Corbezzoli, arriva il Natale
I cosiddetti ciliegi marini, gli abeti, il pungitopo e il vischio fanno tutti parte della nostra flora mediterranea e sono gli addobbi ideali per le feste. Il «pino» è tradizione più recente - Un tempo i regali venivano disposti su un trespolo di legno infiocchettato e nel Sud si bruciava l'olivo
Francesca Marzotto Caotorta

Sono speciali le piante del Natale perché sono figure che si stagliano tra le favole, le poesie, le canzoni, le leggende. Per qualche giorno all'anno si trasformano: da vegetali a figure in attesa della nostra meraviglia. E intanto: "respirano lievi gli altissimi abeti" di Rilke e gli agrifogli si dispongono a formare una magica stanza, come in quel "Canto di Natale" alla fine del quale si ravvede anche un tristissimo cattivo come Scrooge. Nessuno fin'ora, ha inventato immagini di Natale intorno ai sempre verdi corbezzoli, che proprio in questi giorni sono simultaneamente pieni di fiori color crema e dei loro piccoli frutti rossi e rotondi e che appartengono ai paesaggi mediterranei, dove la tradizione dell'abete di Natale è faccenda recente. Si dice fosse stata la Regina Margherita a portare un abete al Quirinale, mentre nel resto d'Italia rimaneva la tradizione del ceppo di olivo o di quercia da far bruciare nel camino, ma senza farlo consumare, fino alla Befana. I regali invece che sotto l'abete venivano disposti su un trespolo di legno tutto infiocchettato. Una tradizione quasi persa ed evocata dai dolci a forma di tronchetto ricoperto di cioccolata, che si trovano in questi giorni nelle pasticcerie dell'Italia centrale. Antichissima era la tradizione di scambiarsi rami ben augurali tagliati da boschi sacri, come quello dedicato alla dea Strenia, da cui la parola strenna. Abeti, agrifogli, corbezzoli formano un gruppetto apparentemente eterogeneo riunitosi solo per la scena del Natale, sulla quale vien chiamato anche il poco tenero pungitopo e il morbido vischio. Tutti fanno parte della nostra flora mediterranea. Anche se la sagoma degli abeti è per lo più associata alle montagne settentrionali ci sono specie tipiche delle isole, come il siciliano, preziosissimo perché quasi estinto, abete dei Nebrodi e l'abete greco (Abies cephalonica). Sarebbe gran bella cosa se, nei prossimi anni, riuscissimo a regalare un abete dei Nebrodi o un abete di Cefalonia per il Natale di chi sa cosa farsene di un abete, anche a feste concluse. Scegliendo tra le centinaia di specie di abete, tra le molte varietà di agrifoglio, raccogliendo tutti i possibili corbezzoli, coltivando il pungitopo quanto basta e facendo qualche esperimento col vischio, potremmo avere una parte del giardino o del terrazzo che faccia da quinta a un Natale non solo comprato, ma a un Natale che si manifesta per quanto abbiamo dato. Provare a riprodurre il vischio, pianta sacra ai Germani, usata in fitoterapia, è faccenda possibile ma dagli esiti incerti, come quando si prova a seminare i capperi. Il vischio è un parassita di alberi come pioppi, tigli, olmi, querce; i semi sono "distribuiti" dagli uccelli che si cibano dei suoi frutti, quindi sono semi in qualche modo trattati dalla digestione. Noi senza ali possiamo incidere la corteccia di uno degli alberi adatti a essere ospitati e schiacciare "sotto pelle" un frutto, sapendo che l'attesa dei primi segni di nuova vita può durare anche due anni. Il pungitopo (Ruscus aculeatus) cresce spontaneo nel sottobosco di quercie, pini e perfino nelle leccete; i giovani getti che spuntano a primavera vengono raccolti come gli asparagi e hanno un sapore buono ma amarognolo; le bacche che fanno allegro il Natale sono velenose, mentre le radici hanno molte proprietà officinali e sono usate per la preparazione di farmaci tonico-venosi vaso costrittori. E tale è la richiesta, che in certe regioni, come la Turchia ad esempio, la pianta è data come estinta e la si trova spesso nell'elenco delle specie protette; malgrado non sia facile da riprodurre per seme la si trova comunque in molti vivai. Non vuole il pieno sole, non vuole terreni acidi, non vuole ristagno d'acqua, se bruciata dal fuoco dopo un anno ricaccia getti nuovi. Creatura del sottobosco, anche del l'oculato sottobosco dei faggi, è l'agrifoglio che nel primo giorno della creazione era pianta dioica, per cui per avere frutti ci voleva una pianta maschile in prossimità di una femminile. Oggi si trovano molte varietà di piante ermafrodite per cui basta un solo esemplare per avere bacche sontuose; sempre più ricca è la scelta del profilo delle foglie, del loro colore e della spinosità. Le varietà dalla foglia screziata di bianco portano luce nel sotto bosco. Sono molto decorativi disposti a gruppi lasciati crescere liberamente, e indicati a formare siepi di cui scoraggiare il varco. Il loro legno chiaro e compatto viene usato per le caselle "bianche" delle tavole di scacchi. Per la collezione di corbezzoli da non dimenticare, oltre agli americani, il corbezzolo greco (Arbutus andrachne) dalla corteccia che si scorteccia con tante sfumature rossiccie. E ora arriviamo agli abeti, alle 400 specie che ne costituiscono il genere e che si affrettano a ricordarci che, per l'albero di Natale, guai ad avere a che fare con l'abete rosso (Picea abies) i cui rami tendono verso il basso come le sue pigne, come gli ornamenti e le candeline che metteremo su quei rami. Il nostro abete, buono per far festa, è l'abete bianco (Abies alba), le cui pigne stanno dritte all'insù, e i cui rami stanno belli orizzontali, tanto da tenere in buona posizione delle candele che illumineranno un buon Natale.

pifferai

pifferai

Nel vischio si annida la vita

Il Sole 24 Ore, 29/07/1990
Nel vischio si annida la vita
Francesca Marzotto Caotorta

Visitare il giardino di Villa Hambury in Liguria negli anni 60, poteva dare la sensazione di aver visto il paradiso terrestre, l' Eden dove prosperavano tutte le piante del Creato. Allora il giardino era ancora diretto dal professor Masera, allora viveva ancora Lady Hambury, il giardino era ben conservato e custodiva una collezione straordinaria di specie sia ornamentali che medicinali, un patrimonio che bisognava riclassificare, un giardino provato dalle guerre ma pur sempre un giardino di acclimatazione che mandava e riceveva semi da tutto il mondo. Un giardino vivo nel quale lo studioso comincio' a classificare le piante dall' identita' incerta, per seguirne la vita da immigrate. Il mondo delle piante offriva il piacere del collezionista, quello del sapere individuare il minuscolo dettaglio che permette di riconoscere e dare un nome esatto a ogni oggetto visto tra una quantita' di altri simili. Evocando il giardino di allora si ricorda la straordinaria collezione di agrumi, di succulente, di Opunzie, l' indimenticabile pergolato ricoperto da dai fiori gialli come lo zolfo, e quella pianta di che lontano dal suo paese aveva perso le proprieta' di alleviare la fatica, di dare una certa euforia a chi ne masticava le foglie; la terra di Liguria l' aveva come acquietata. Oggi, le annotazioni di allora potrebbero servire al restauro di un monumento botanico degradato a causa del solito caos, governatore-vicario d' Italia. Lo stesso caos aveva, per altri versi, indotto l' enciclopedico giardiniere di Villa Hambury a cercare altre occasioni di studio. E fu proprio l' occasione a portarlo a studiare per quindici anni una sola pianta: una pianta poco appariscente come il vischio, ma che nella famosa Lukas Klinic (nei pressi di Basilea) viene adoperata nella cura del cancro. Nella Lukas Klinic si cura il cancro secondo i principi steineriani, cui si accennera' qui solo per necessita' di cronaca e per quanto concerne l' esplorazione botanica che ci interessa. Si ricordera' ora brevemente che nel mondo ci sono diverse specie di vischio e che lo stesso vischio natalizio (Viscum album) cresce piu' o meno facilmente su diverse piante: molto facilmente su meli e pioppi, molto raramente su olmi (Ulmus campestris) e quercia (tanto che il solo vischio delle querce era per i druidi pianta sacra per eccellenza). Secondo i principi adottati nella viscoterapia si usa l' estratto intero di vischio (conosciuto da tempi immemorabili come pianta medicinale) attribuendo effetti terapeutici diversi a seconda della pianta ospite, cosi' il vischio di quercia e' correlato ai tumori "maschili" (prostata, retto, stomaco, polmoni), il vischio di melo a quelli femminili (seno, ovaie), quello di pino ai tumori della pelle, quello di olmo per le affezioni polmonari. Piu' o meno vent' anni fa l' attivita' dei medici steineriani fu affiancata da una e' quipe di botanici e chimici, diciamo cosi' tradizionali, in modo da individuare i modi per coltivare una pianta di cui si sapeva poco o nulla (a parte la monografia di Von Tubeuf) e che pareva crescere con la regolarita' dei miracoli e soprattutto su piante in via di estinzione come gli olmi. Le prime osservazioni di quegli anni fecero annotare il fatto che il vischio non cresce su tutti gli olmi, ne' su tutte le querce; e l' ipotesi su cui si lavora oggi e' quella secondo cui il nostro semiparassita si insedia su piante che trasmettono una compatibilita' col vischio ai loro discendenti: una compatibilita' "genetica" che se trasmessa per seme e' circa del 5%, mentre e' totale se la pianta viene riprodotta per via vegetativa (polloni radicali, marze, talee). Quindi al botanico che voleva coltivare il vischio non rimaneva che trovare le piante portatrici. Una ricerca facile per il melo, meno facile per la quercia, difficilissima per l' olmo. Si setacciarono tutti i boschi d' Europa, fino a catalogare soltanto trenta olmi "utili" in Francia. Quegli olmi furono riprodotti (oggi ne sono rimasti solo quattro di quelli originali). Nei terreni svizzeri il vischio fu seminato (si schiacciano le bacche sulla corteccia dei rami giovani) e la coltivazione ebbe inizio. Nel frattempo, continuarono gli studi sul rapporto tra semiparassita e specie ospite, e su come questo modificasse la natura dei principi attivi; si studio' la convivenza ottimale tra pianta e parassita (50% pianta, 50% parassita) in maniera che quest' ultima non soffrisse e non riducesse le qualita' dell' alimento necessario all' ospite. Si individuarono i cicli produttivi di ogni specie: ci vogliono querce (Quercus robur, Quercus paetraea) di almeno dieci anni per coltivare il vischio che sara' raccolto dopo altri sette, e olmi di almeno tre anni per iniziare a coltivare molte piante della speranza.

campagna romana capanne pecorai


campagna romana capanne pecorai

Alberi, bacche e spine di Natale

Il Sole 24 Ore, 24/12/1995
Alberi, bacche e spine di Natale
Francesca Marzotto Caotorta

Questi nostri tempi maldestri sono riusciti a far si' che anche Natale diventasse riconosciuta occasione di stress, almeno questa e' la condizione che riflettono quei grandi specchi della nostra realta' che sono i giornali. Ma poiche' l'eta' e l'indole mi sconsigliano la vicinanza di ogni specchio, continuo ad aspettare e accogliere il Natale come la grande festa della vigilia che da piccoli e' tutta attesa di meraviglia e da grandi e' meraviglia di avere ancora attese. Il Natale e' una festa antica, che ha assimilato riti ancora piu' antichi, ed evoca celebrazioni che qua e la' nel mondo, in modi diversi, in giorni un po' diversi, festeggiano comunque il tempo di un rinnovamento vitale, di un'attesa realizzata: l'avvento di un prodigio. Una festa ai cui riti, da secoli, sono state associate piante capaci di sottolinearne il valore o il significato. In Europa alla tenace edera, al lucido agrifoglio, allo statico abete, al sacro vischio, al bianco elleboro si e' aggiunta l'esotica poinsezia, la cosiddetta stella di Natale che, come scarlatta testa di cometa, entra nelle nostre case e muore sui nostri balconi. Nel lontano oriente l'arrivo dell'anno nuovo si festeggia tra piante di mandarini, alberelli e rami di pesco opportunamente fioriti e tanti tanti profumatissimi narcisi. Tutte piante che sia culturalmente che colturalmente sono a noi piu' vicine della poinsezia, cosi' difficile da ospitare a lungo e onorevolmente. Laggiu', in Cina, i narcisi venivano raccolti nelle montagne o erano coltivati in modo da essere fioriti e di buon auspicio per il capodanno. Pertanto se ne accelerava la fioritura con aumento di luce, calore e umidita' o se ne ritardava lo sviluppo con rischiose immersioni in acqua salata. Nel secolo scorso, il cacciatore di piante Robert Fortune raccontava di barche cariche di rami di pesco e di susino raccolti per essere fatti fiorire a capodanno nelle abitazioni della regione di Guandong, in Cina, In altre parti del Paese gli alberi di pesco venivano allevati in piena terra ed erano poi recisi a una spanna dal suolo poco prima delle feste, per essere portati in casa cosi' come si fa da noi con l'albero di Natale. Jack Goody in La cultura dei fiori (Einaudi, 1993, L. 65.000) racconta di come, in alcune regioni cecoslovacche, le ragazze, il 4 dicembre, festa di S. Barnaba, raccogliessero i rami di ciliegio perche' a Natale fossero fioriti e portati alla messa protetti dai loro mantelli, dai quali poi, i loro eventuali spasimanti, avrebbero cercato di sottrarli. Tutta nordica e' la cultura del vischio di cui gia' Plinio descrisse la raccolta da parte dei druidi Galli che coglievano quello che cresceva sulle quercie: vischio con un nome che significa: quello che guarisce tutto>. Oggi, questo semi-parassita di cui si conoscono 70 specie, ha perso il carattere sacro, ma non gli sono state negate le proprieta' terapeutiche per cui viene coltivato su diverse piante a seconda della malattia da trattare. Nella sua Monographie der Mistel, scritta nel 1922, K. Tubeuf dimostra che esistono 3 razze di vischio che a loro volta colonizzano soltanto determinati gruppi di piante. Da noi si puo' provare a 'seminare' il vischio raccogliendo i frutti maturi degli esemplari che crescono su meli, peri, pioppi, biancospini, pini e abeti e schiacciandone la polpa contro la corteccia della porzione inferiore dei giovani rami della stessa specie di albero. La polpa, asciugandosi, rimane appiccicata alla corteccia facendo aderire i piccoli semi che 'radicheranno' facendosi strada nel suo tessuto. Il vischio e' una delle piante le cui bacche sono usate per preparare la pania, ovvero la sostanza appiccicosa adoperata per catturare gli uccelli. Sostanza analoga viene estratta dalla corteccia della lentaggine (Viburnum linus) e dalla corteccia delle radici dell'agrifoglio, pianta natalizia per eccellenza. Pare strana una pianta che sia allo stesso tempo cosi' ricca di spine e tanto carica di auguri, ma il fatto e' che una volta si pensava che le foglie spinose dell'agrifoglio avessero la proprieta' di tenere lontano il malocchio e gli spiriti maligni. In ogni caso tutta quella profusione di bacche rosse, tiene ancora oggi sicuramente lontano ogni cattivo umore. Spontaneo nel sotto bosco di molte regioni italiane, l'agrifoglio costituisce un genere botanico cui appartengono ben 300 specie e nel Dictionary of gardenig viene diviso in due gruppi principali di cui uno si distingue per il fogliame verde scuro e lucido, e l'altro per foglie variegate di bianco o di giallo. Alcune varieta' come Ilex acquifolium bacciflava o I. acquofolium aureo marginata fructu luteo, producono bacche gialle. Nel loro insieme sono piante ideali per il sotto bosco rado: per esempio si troveranno bene in un gruppo di betulle e Pinus silvestris; ma anche sotto ai faggi dove di solito, oltre a piccoli fiori di fine inverno, si vede ben poco.

mercoledì 9 dicembre 2009

Da Demetra alle celebrazioni Mariane

La città di Salerno, 17 aprile 2004
Da Demetra alle celebrazioni Mariane

Gilda Camaggio

Leggenda, tradizione e fede si mescolano e confluiscono nei festeggiamenti della Madonna delle Galline. Si racconta che, intorno al 1500, alcune galline che razzolavano in un cortile,Êscostando la terra, fecero emergere una tavoletta dipinta, forse nascosta nel periodo dell'iconoclastia e delle invasioni saracene (tra i secoli VIII e IX), dove era raffigurata la Madonna Del Carmine. La designazione della processione di Pagani trae origine dal ritrovamento dell'effigie, che assunse una particolare forma di devozione dal 1609 in seguito alla guarigione di uno storpio. Ma anche dalla consuetudine di offrire questi volatili come tributo antichissimo da parte dei Paganesi in occasione della festa di Maria Santissima. Un gesto, talmente legato nella mentalità locale come forma simbolica di omaggio, che nei racconti si afferma che la gallina più bella del pollaio si sente chiamata e si dirige spontaneamente in chiesa in occasione della festa della Madonna per onorarla, proprio come accadde ad una gallina, che, essendo stata data in dono alla Vergine da una donna poi pentitasi dell'offerta, si recò da sola al santuario.

La giornata dedicata alla Madonna delle galline, che cade per consuetudine la prima domenica dopo Pasqua, rievoca anche l'antica venerazione della dea Demetra, divinità protettrice della natura e delle messi.

All'origine delle celebrazioni dunque confluiscono più elementi, come spiega il professore Paolo Apolito, docente di Antropologia culturale presso l'Università degli studi di Salerno.
«Occorre sempre distinguere - spiega l'antropologo - l'origine precristiana da quella cristiana di una festa. La Madonna delle Galline è una delle tante feste mariane che si svolgono dopo Pasqua, quando si chiude il ciclo invernale legato alla morte, che parte in agosto dall'Assunta, passa per il Natale e culmina appunto nella settimana Santa, momento topico della commemorazione della morte.

Le feste Mariane, legate alla celebrazione della Madonna, sono feste primaverili di vita, scandite dai ritmi della ciclicità contadina, che anticipano o prefigurano il momento del raccolto, della natura rigogliosa e produttiva». Il professore Apolito continua, ricordando le origini pre cristiane di una celebrazione che ogni anno polarizza l'attenzione di centinaia di persone provenienti da tutta la provincia e anche da fuori. «Già prima del cristianesimo troviamo feste legate a divinità femminili con bambino, un immagine che richiama alla fertilità - ha continuato il docente universitario - dove la fecondità umana è simbolicamente di auspicio alla fertilità delle terre. Un'eredità pagana che la Madonna ha raccolto, ma i cui significati oggi sono peculiarmente cristiani». Ma in che periodo è avvenuta la trasformazione della festa? «Si tratta di una cristianizzazione di un dettato narrativo precedente, avvenuta a cavallo tra il '500 e il '600, periodo in cui la Chiesa si accorse che nel sud Italia il Vangelo non era penetrato - ha spiegato l'antropologo - e sollecitò la nascita di culti di rifacimento delle leggende, proprio per cristianizzare il mondo contadino. Il passaggio è avvenuto nella maniera più indolore, accogliendo tra l'altro anche l'eredità delle forme musicali dal mondo antico arcaico.

La modalità campana di festeggiare con forme musicali e danze contadine basate su strumenti come le tammorre, la troviamo in tutte le feste Mariane dopo Pasqua. La caratteristica peculiare di questa festa è il rapporto con i volatili, presente già in divinità precristiane. I volatili segnalano un rapporto con la morte ma anche con la rinascita; in particolare la gallina collega cielo, terra e sottoterra. è un uccello, quindi guarda al cielo, ma non vola, e dunque appartiene alla terra, inoltre, nel caso di Pagani, scava e trova l'immagine della Madonna, toccando così anche il sottoterra».

Così il mitico regno d'acque di Ypa si trasformò in una immensa palude. Una leggenda forse legata alla tradizione dei Salassi

LA PADANIA, 8 ottobre 2007
Così il mitico regno d'acque di Ypa si trasformò in una immensa palude. Una leggenda forse legata alla tradizione dei Salassi

Una regina guerriera che si sacrifica per il suo popolo sfidando gli dèi. È la leggenda di Ypa, o Yppa, che in Canavese si tramanda da tempo immemorabile e che affonderebbe le sue radici in un antico mito celtico legato alla tradizione orale dei Salassi, il popolo che per primo abitò queste terre.
Il regno di Ypa, secondo la mitologia locale, era l'azzurro specchio d'acqua che un tempo colmava le pianure canavesane: il lago del Canavese. Il fiume Dora Baltea, molto più ampio del suo attuale letto, ne era l'immissario e l'emissario. Sulla sponda a nord del lago, la leggenda narra fosse stata costruita Ypo-regia, la fortezza della regina guerriera, mentre tutt'intorno i villaggi, le palafitte (fra cui la più grande detta la città del Sole), i templi, i menhir.

Come in tutti i miti, però, lo scorrere del tempo offusca l'idillio: le mutazioni climatiche rovinarono i raccolti, mentre la popolazione aumentò tanto da desiderare nuove terre. Preoccupata per il crescente malcontento fra le tribù, Ypa si ritirò su uno dei colli dell'anfiteatro morenico per meditare. E fu così che le apparve la dea Cerere, suggerendole la soluzione alla carestia: far defluire le acque del lago per trasformare il regno d'acqua in una distesa di fertile terra. Ma l'intromissione della dea nelle vicende umane, unita alla decisione del popolo di Ypa di modificare la natura del luogo, suscitò la furia di Giove.

I lavori sulla sponda erano già iniziati quando il terreno franò all'improvviso travolgendo gli operai e distruggendo i villaggi. Ypa fu maledetta dal dio ad errare per l'eternità come un fantasma nel regno, trasformato per l'affronto non in una fertile distesa di terra, bensì in una immensa palude fangosa, anzi caenosa, come la chiamarono i romani (da cui Canavese).
El. Si.

Ecco il sedile delle streghe

IL MATTINO, 24 gennaio 2004
Ecco il sedile delle streghe
SALVATORE DELLI PAOLI

È un cippo dell'antica centuriazione dell'ager campanus, la suddivisione del territorio di pertinenza dell'antica Capua (oggi Santa Maria Capua Vetere) che, dopo la defezione della importante città campana da Roma e il passaggio ad Annibale nel corso delle tormentate vicende della seconda guerra punica, venne confiscato e destinato a nuovi coloni tra il secondo e il primo secolo a. C. Ma è anche, in qualche modo un documento dell'identità cittadina, fonte di storie e leggende diverse, legate a fantasmi e streghe. È insomma un elemento della cultura di Marcianise ed è diventato negli ultimi tempi motivo di attenzione di Pietro Zinzi, l'infaticabile cultore di memorie patrie di Marcianise che sta preparando uno studio su di essa.
Sì uno studio su di una pietra. Che ci sarà da studiare, diranno in molti. Ma secondo Zinzi motivi di studio ce ne sono a iosa. In primo luogo che significano le due scanalature che si trovano incise abbastanza profondamente alla sommità del cippo?
Sedili per le streghe, secondo le leggende popolari, o più verosimilmente appigli per porla a dimora nel terreno, o incisioni che alludono alla vicina presenza di un corso d'acqua. In particolare quest'ultima tesi è stata sostenuta dall'archeologo Mario Pagano, che inserisce il cippo di Trentola con i suoi incavi tra quelli che indicavano la vicinanza all'antico fiume Clanio scorrente in prossimità. Ora di questo fiume resta solo il ricordo, né è possibile rintracciarne l'antico percorso nei cosiddetti Regi Lagni, diventati una fogna a cielo aperto.
Secondo Zinzi, questa tesi dell'indicazione dell'antico corso d'acqua è quanto mai arbitraria, non fosse altro che per il fatto che un identico cippo, sia pure inserito nel muro perimetrale di una moderna abitazione, si trova a Succivo, molto lontano dal Clanio. A ciò si aggiunge il fatto che le due incisioni sono fatte con molto studio e uguali nelle dimensioni. Il che fa supporre che esse fossero l'alloggiamento proprio di una groma, strumento, suddiviso in due parti, usato dagli agrimensori per l'allineamento degli assi della centuriazione, capace quindi di indicare le direzioni degli orientamenti nord-sud ed est-ovest.
Non a caso i due incavi si trovano tra di loro orientati a 45 gradi proprio in corrispondenza della diagonale indicante perfettamente le direzioni astronomiche dei cardini e dei decumani.

Storie del Gargano

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO - 7 maggio 2005
Storie del Gargano: il secondo volume di Angelo Del Vecchio che raccoglie racconti e
leggende della memoria popolare

"Racconti e leggende del Gargano - 2", di Angelo Del Vecchio e Salvatore Villani, sarà presentato domenica 8 maggio a Rignano Garganico Palazzo Baronale in occasione della festa nazionale della "Piccola Grande Italia". Del volume parlerà il giornalista e scrittore Giovanni Scarale e sono previsti interventi di Rocco Cozzola, cantore e costruttore di chitarre battenti di Carpino e i Cantori di Mattinata le cui storie sono riportate in "Racconti e leggende del Gargano.
E' questo un libro assai importante perché documenta il patrimonio culturale della tradizione dei pochi narratori popolari sopravvissuti al dilagare mass-mediatico.
E' il libro un omaggio all'immaginario collettivo fatto di racconti, d'eventi soprannaturali, di aneddoti, storie e personaggi misteriosi, di leggende, fiabe, di indovinelli, di antichi mestieri e di giochi dell'infanzia..

"Il volume- scrive Saverio Serlenga, addetto stampa del Parco Nazionale del Gargano- è affollato di "scazzamurriddi", di folletti, di streghe, di fattucchiere, di morti che ritornano tra i vivi, di strani fatti realmente accaduti e che accompagnano la nostra esistenza, contribuendo a rinsaldare il legame profondo con il tessuto mitico delle radici culturali garganiche".
Sul filo della prima esperienza di ricerca, pubblicata nel 2003, sempre a cura di Angelo Del Vecchio, anche questa raccolta ha finalità divulgative di storie del passato e del presente, conservate e registrate nella loro forma originaria presso gli archivi sonori del Centro Studi di Tradizioni Popolari del Gargano e della Capitanata, diretto dallo stesso Villani.
Le storie, inoltre, sono state riscritte e rielaborate per poter essere facilmente fruibili da un pubblico più ampio, rispetto a quello esclusivo degli specialisti in materia.

L'autore s'è avvalso anche del contributo di alcuni depositari di tradizioni popolari: Pasquale Carbone, Maria Rachele Caruso, Rocco Cozzola, Antonio Del Vecchio, Maria Michela Del Vecchio, Nunzia Del Vecchio, Natale Di Michele, Domenico Leggieri, Nunzia Lonero, Carolina Muscarella, Mimmo Palena, Paolo Pizzichetti, Rina Pizzichetti, Rosa Pizzichetti, Giuseppina Urbano, Antonio Vigilante, Antonio Gisolfi, Leonarda Viola e i Cantori di Mattinata.
Alcuni racconti e cronache degli antichi mestieri, riportati nel libro, si tratta di articoli pubblicati da Del Vecchio su "La Gazzetta del Mezzogiorno", tra il 2004 e i primi mesi del 2005, ma riveduti e corretti per l'edizione libraria.
V.S.

Miti e leggende sul Monte Serva

Miti e leggende sul Monte Serva
Il Gazzettino, 14 ottobre 2004

RITROVO DELLE STREGHE PER IL SABBA DI GIUGNO
Parlando dell'abbattimento della grande croce posta in cima al
Serva, abbiamo sottolineato come questa caratteristica montagna posta a settentrione della città, verde e meno ripida sul versante di Belluno ed assai impervia sugli altri versanti, sia sempre stata cara ai valligiani. Per tanto tempo vi hanno portato i loro animali in alpeggio e da essa hanno ricavato in abbondanza legna e fieno. Non a caso sul suo conto sono sorte col tempo diverse leggende e proverbi. Era considerato infallibile il detto "Quando Serva l'à 'l capèl/ gnen (viene) piova in Campedel" che significa: quando il Serva è nuvoloso, a Belluno vien pioggia". L'adagio ha alcune varianti sullo stesso tema e, quindi, ad esempio "Co 'l Serva ha la zentura (cintura)/ piova sicura", om anche "Co 'l Serva l'à 'l capèl/ tol su 'l restel" (lascia i lavori nei campi).
Insomma, il Serva nell'immaginario collettivo era una sorta di montagna-barometro. Sui suoi pascoli è ambientata una bella sfida tra San Martino, patrono di Belluno, e il diavolo, che avevano un gregge di capre in comune. Poiché Martino col siero del latte aveva inventato la ricotta, il suo rivale, infuriato, sciolse la società e spartì le bestie. Da allora i pastori, per tener lontano il diavolo, segnano con la croce latte, formaggio, ricotta e capre e portano sempre con sé un pane benedetto, per far fuggire le capre del diavolo. Secondo un'altra radicata credenza nella notte di San Giovanni, tra il 23 ed il 24 giugno, le streghe celebravano in cima al Serva il loro scatenato "sabba", accendendo per l'occasione fuochi fantastici, ballando sfrenatamente e gridando così forte da poter essere sentite dai valligiani. Sul versante del Serva opposto a Belluno si diceva invece che vagassero le anime in pena condannate al Purgatorio per espiare le loro colpe tra i burroni, provocando rumori notturni spaventosi che mettevano in agitazione le mandrie e i pastori, ai quali spesso rubavano anche burro e formaggio. E che dire della cazza salvadega ,la caccia selvaggia che si svolgeva nottetempo tra le forre e i canaloni del Serva?
Essa aveva per protagonista il diabolico "omo del corno", accompagnato da un muta di neri cagnacci che abbaiavano alla luna ed inseguivano le anime dei cacciatori che in vita non erano riusciti a controllare la loro passione per l'arte venatoria in favore della quale avevano trascurato di adempiere ai precetti festivi e dovevano scappare precipitosamente per l'eternità di monte in monte.

Giovanni Larese

Le Rogazioni. Nel mondo agricolo questa festa è stata un tempo particolarmente importante perchè legata alla fecondità dei campi

Le Rogazioni. Nel mondo agricolo questa festa è stata un tempo particolarmente importante perchè legata alla fecondità dei campi
Il Gazzettino. 21 maggio 2004

La fede dei contadini bellunesi nella protezione divina era assoluta, senza tentennamenti. Un esempio di tale profonda fiducia riposta nell'Altissimo ci viene dalla partecipazione, devota ed in massa, all'antichissimo e primaverile rito collettivo delle Rogazioni, officiato ogni anno con solennità dalla Chiesa al fine di ottenere da Dio benedizioni per la fecondità dei campi e la serenità dell'aria nelle campagne. Le Rogazioni avevano luogo in due periodi: nel giorno di S. Marco e nei giorni immediatamente precedenti l'amata festività della "Sensa" (l'Ascensione). O meglio, il 25 aprile si celebravano le Rogazioni o Litanie maggiori, i cui antenati erano i sacrifici pagani che nacquero a Roma col nome di Rubigalia e si svolgevano 31 giorni dopo l'equinozio di primavera fino al 28 aprile; le Rogazioni minori, invece, erano di origine gallica ed erano dette Ambaravalia. Dunque, come è avvenuto per molte altre cerimonie liturgiche cristiane, anche le Rogazioni affondano le loro radici storiche addirittura nel paganesimo. Si tratta di riti penitenziali cattolici con tanto di preghiere e di devote processioni che partivano dalla parrocchiale la mattina presto e toccavano tutte le terre coltivate entro i confini parrocchiali.
Il pio corteo era formato da appartenenti a tutte le frazioni, ognuna delle quali si distingueva per la presenza della propria croce e del proprio stendardo. Alla testa dei fedeli si poneva naturalmente il parroco, con paramenti sacri, chierichetti, aspersorio e croce. La processione compiva un itinerario noto e fissato nel tempo dalla tradizione, sostando di volta in volta presso i capitelli, gli incroci, gli alberi sacri e gli altaroi (piccoli altari provvisori) che incontrava lungo il cammino. I penitenti pregavano insieme contro i malanni del tempo e per ottenere con l'aiuto celeste un raccolto sufficiente a sfamare tutte le famiglie. Ad ogni fermata il sacerdote intonava un brano del Vangelo e le litanie dei santi, poi benediva i campi brandendo la croce in direzione di tutti e quattro i punti cardinali. Egli pronunciava quindi ad alta voce l'invocazione latina "a fulgure et tempestate, a flagello terremotus, a peste, fame et bello" (dal fulmine e dalla tempesta, dal flagello del terremoto, dalla peste, dalla fame e dalla guerra), mentre i fedeli per tre volte imploravano in risposta "Libera nos Domine" (liberaci o Signore). All'invocazione "ut fructus terrae dare et conservare digneris" (affinché ti degni di dare e conservare i frutti della terra) si doveva invece rispondere con la formula "te rogamus audi nos" (ti preghiamo ascoltaci). Va ricordato infine che in occasione delle Rogazioni la popolazione offriva in dono al parroco alcuni prodotti del proprio lavoro come burro, ricotta e formaggi.

Giovanni Larese

I Tratturi in corsa con Monte Bianco e Campi Flegrei

I Tratturi in corsa con Monte Bianco e Campi Flegrei
IL TEMPO 09/12/2009

Esiste un collegamento tra l'azione di rivalorizzazione della riserva Mab e il progetto di candidare i tratturi per l'ambito riconoscimento di patrimonio dell'umanità.

Intanto perché entrambi dipendono dallo stesso ente, che ha sede a Parigi, l'Unesco appunto, ricadente sotto l'ombrello dell'Onu. La Convenzione sul Patrimonio dell'Umanità, datata 1972, prevede che il riconoscimento riguardi quei siti che presentano delle particolarità di eccezionale importanza da un punto di vista culturale o naturale. Il Comitato che decide ha sviluppato dei criteri severi per l'inclusione. È chiaro che se sarà realizzato tutto ciò che Asso Mab si propone (portale telematico, a valenza istituzionale, scientifica e turistica; operazioni di marketing pubblicitario condotte attraverso depliant e pubblicazione a colori, ecc. ecc.) servirà anche in prospettiva della candidatura, solo poche settimane fa sottoscritta ufficialmente dalla Regione in occasione della Borsa mediterranea del turismo archeologico di Paestum. Per questo obiettivo la partnership è forte: 5 regioni, 10 province e 350 comuni, oltre ai soggetti privati. Ma la concorrenza è agguerrita: il Monte Bianco (che oltre all'Italia, conta su Francia e Svizzera), La Maddalena, la cattedra di Monreale a Palermo, il bradisismo dell'Area Flegrea. Peccato che, nell'era della multimedialità e di internet, non sia ancora nato un sito dedicato alla candidatura dei tratturi e della transumanza.
R.M.

martedì 8 dicembre 2009

I fuochi accesi hanno il potere di risvegliare la natura e annunciare l'arrivo della Primavera

Nell'agro di Viggianello, a Rotonda e sul Pollino si organizzano succulente sagre all'aperto
LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, 19/03/2006

Nemoli/ I fuochi accesi hanno il potere di risvegliare la natura e annunciare l'arrivo della Primavera

NEMOLI Plenilunio e falò propiziatori hanno salutato la notte appena passata la festa di S. Giuseppe l'avvento della primavera e non solo, anche in Basilicata. Comune a quasi tutta la dorsale appenninica lucana - e riscontrabile in molte zone della penisola - l'usanza, una volta, era riferibile pure alla prima domenica di Quaresima in tutta Europa. Altra data calendariale e capodanno contadino, oggi tributata al Padre putativo di Gesù e patrono dei falegnami, il 19 marzo non è quindi soltanto la consumistica «festa del papà», quanto una manifestazione popolare, che nella sua semplicità arcaica attinge a cerimoniali arcaci e pagani in onore del «dio sole». I falò, oggi ancora accesi hanno motivo di esistere per diversa ragioni, non ultima quella di risvegliare la natura secondo i cicli stagionali e della rigenerazione cosmica. Al pari delle cataste ardenti in onore di Sant'Antuono, specie sulla collina materana, le pire di S. Giuseppe hanno carattere lustratorio e apotropaico. Servono cioè ad allontanare gli spiriti maligni e le avversità stagionali. La pratica, oggi assoggettata dalla religione cristiana, rispecchia tutti gli elementi che caratterizzavano i fuochi primordiali - come si legge nelle intuizioni di James Frazer ne «Il ramo d'oro». Si capisce così la similitidine che si riscontra nei «Focarazzi 'i San G'sepp» di castelluccio Inferiore con le più celebri «fogarazze» romagnole del poeta-sceneggiatore Tonino Guerra, esaltate in quel capolavoro di Federico Fellini che è «Amarcord». Vicino a tali focolari si dialoga, si mangia e si beve, si balla e più scatenate sono le danze maggiori e migliori saranno i raccolti.

Ma c'è di più il salto sulle fiamme come il passaggio sul fuoco quasi spento di persone e animali serve a purificare da malanni ed è beneaugurante per la prole. L'abitudine, poi, di conseravrne come amuleti dei resti o braci per portarli nelle case o di disperderne le ceneri nei campi e persino nei pollai, serve a «benedire e proteggere» le mura e aumentare la quantità di uova.
Si spiega così l'intento ludico di rubare - ma si tratta di un furto autorizzato - di «frascine» in quel di Castelluccio. Rami di ginestre, olivo, sarmenti di vite provienenti dalla potatura portano in alto le lingue di fuoco. Tra le fiamme, nei vicoli e negli slarghi, anche sedie, mobili e suppellettili, a significare il vecchio che se ne va. Un po' come accade con la bruciatura della «Segavecchia» , paragonabile alla befana e forse di più alle streghe dell'inquisizione o, più semplicemente, il fantoccio dell'anno che passa (anche impersonificato dal Carnevale).

Così per un magico incanto minuscoli camini all'aperto, impreziositi da succulente sagre all'aperto, si apparecchiano in tutto il Pollino: nell'agro di Viggianello o a Rotonda, dove a Piano Incoronata e Fratta, nella festa del Convito, si mangiano le oraziane «laganeddre» con ceci. Altri mucchi di legna e frasche brillano intorno alla cappella di S. Giuseppe, presso la Taverna del Postiere a Lauria, e poi in quel di Castelsaraceno. Tra i vicoli di Latronico, Carbone per la degustazione di dolci e manicaretti di tutte le massaie come accade intorno ai «fucaruni» di Moliterno e Sarconi. E se a S. Martino d'Agri ci sono maccheroni al «ferretto» a Spinoso si preparano «patane arrustute» sotto la cenere. Prodotti tipici pure a Ruvo del Monte e Rionero (con fagioli e salsiccia). E la serie continua con i falò (focare, fanove, focariedd, fucanoie - o fuochi nuovi) a Paterno, Marsico Nuovo e Vetere, Brienza, Tito, Picerno, Ruoti, Filiano, Atella, Venosa, Ripacandida, Barile, Calciano ecc.
Mille fuochi per scacciare le tentazioni e le «pestilenze» del terzo millennio. Mille fuochi di pace intorno ai quali fare festa, incontrarsi, dalogare, partecipare e condividere il calore, gli alimenti e l'allegria, come i sapori e i saperi, recuperando la memoria e i suoni di una volta come quelli degli ormai rari organetti e zampogne, colonna sonora di un mondo che forse non c'è più...

Salvatore Lovoi

Natale non significa solo ricordare la nascita di Gesù Cristo: questa ricorrenza coniuga festività, tradizioni e costumi celebrati da tutti gli europe

Natale non significa solo ricordare la nascita di Gesù Cristo: questa ricorrenza coniuga festività, tradizioni e costumi celebrati da tutti gli europei, da Dublino a Zagabria.
http://www.cafebabel.com/it/article.asp?T=T&Id=5532


Dicembre è il tempo di una festa veramente europea: i bambini aspettano visitatori notturni a sorpresa, le famiglie si riuniscono e le luci degli alberi di Natale rendono più accoglienti le case. Sembra quasi scontato dire che Natale è una festività europea – dopo tutto Gesù è nato nel Medioriente – ma uno sguardo attento alle tradizioni che caratterizzano questi giorni di festa rivela che questa festività non è un'invenzione occidentale: deve, infatti, molto di più al nostro comune passato pagano che a quello cristiano.


Uniti da tradizioni vecchie e nuove

Il 25 dicembre fu designato come celebrazione cristiana da un decreto ufficiale dell'Imperatore romano Costantino solo nel Quarto secolo dopo Cristo. La scelta di questa data scelta dimostra in modo evidente l'influenza del paganesimo: i teologi sostengono infatti che Cristo sia nato in settembre o in ottobre, ma Costantino posticipò la festa alla data della celebrazione pagana della rinascita del dio Sole. Che cade, appunto, con il solstizio d'inverno, celebrato il 25 dicembre.
Un'altra tradizione di origine pagana è quella dell'albero: quando decoriamo il nostro tedesco tannenbaum o albero di Natale, addobbiamo le pareti con festoni, ci baciamo sotto il vischio, non facciamo niente di nuovo: sono tutte cose che venivano fatte già molto prima della nascita di Cristo. Questa tradizione infatti risale addirittura all'antico Egitto, alla Grecia e all'antica Roma. I druidi della Britannia vedevano l'albero di Natale come un essere dotato di poteri magici proprio perché non perdeva mai le foglie. E intorno al Sedicesimo secolo in Germania gli alberi di Natale furono portati come tradizione nel Natale cristiano.
Coloro che abitano nell'Europa anglofona possono ringraziare i norvegesi per l'usanza di baciarsi sotto il vischio. Si racconta che Frigga, dea scandinava del matrimonio e della famiglia, piangesse il figlio defunto e che le sue lacrime si fossero trasformate in bacche di vischio e avessero fatto rinascere il figlio. Piena di gioia la dea iniziò a baciare tutti coloro che passavano sotto questa pianta chiamata vischio. I celti dell'Europa moderna devono ai loro avi la tradizione del ceppo natalizio:quest'usanza per cui i bambini decorano un ceppo che circonda un candela


Dalla mitra al cappello di lana

E ancora, l'Europa contribuì alle tradizioni natalizie con un personaggio carico di magia e caro a tutti: San Nicola. Quest'uomo leggendario, gioviale e generoso, avrebbe vissuto nel Quarto secolo in Asia Minore (l'attuale Turchia), e sarebbe il vescovo di Myra, Nicola, famoso per la sua generosità e per aver salvato tre povere sorelle impedendo che fossero vendute come schiave, rovesciando tre borse d'oro giù dal camino delle loro abitazioni. Il tempo e l'amore delle persone per queste piccole leggende avrebbe così trasformato San Nicola di Myra nel Babbo Natale che scende dai camini.
San Nicola è veramente un mito europeo: la sua leggenda ha viaggiato e si è diffusa nella maggior parte dei Paesi europei. Oltre ad essere infatti il personaggio che ha dato vita al mito di Santa Claus, il santo turco è "padre" di molte altre figure natalizie. In Olanda si chiama Sinterklass o Sint Nicolaas, che arriva a bordo di una nave dalla Spagna con Zwarte Piet, un aiutante maligno. In Finlandia troviamo invece lo Joulupukki o "capretta di Natale", un uomo anziano e molto buono che viaggia con la slitta partendo da casa sua in Lapponia per consegnare regali ai bambini. Nell'Europa anglofona diventa Father Christmas o St. Nick, nonostante il mito americano di Santa Claus (dall'olandese Sinterklaas) stia diventando sempre più popolare. Potrebbe sembrare il personaggio europeo più noto, ma Santa Claus non è l'unico a consegnare i doni. Durante le notti di fine dicembre infatti i cieli europei sono pieni di figure fantastiche: in Italia ad esempio i bambini ricevono la visita della Befana, un'anziana donna che viaggia su di una scopa magica, in Germania, Svizzera ed Austria è invece il Gesù Bambino a portare i doni.
Dappertutto in Europa i bambini vengono visitati durante la notte dal piccolo Gesù, la Piccola Stella o i tre Uomini Saggi.

Non solo poi l'Europa ha dato vita alle tradizioni natalizie, ma è anche l'inventrice di alcuni degli aspetti più commercializzati del Natale: il calendario dell'Avvento fece la sua prima comparsa nel mercato nel 1851, mentre i biglietti di Natale e i biscotti si diffusero in Inghilterra durante la metà dell'Ottocento. Ma è solo dopo l'avvento del Santa Claus della Coca Cola, nel 1931, che l'America si è guadagnata ufficialmente lo scettro delle tradizioni natalizie. Vuol forse questo suggerire che il futuro del Natale sarà quello di essere edulcorato dai commercialissimi bastoncini di canditi rossi e bianchi?

Sfilate in costume, sacre celebrazioni eimponenti pire di fuoco (i Pignarûi, di antichissime origini pagane) segnano e propiziano i riti legati alla f

Sfilate in costume, sacre celebrazioni eimponenti pire di fuoco (i Pignarûi, di antichissime origini pagane) segnano e propiziano i riti legati alla festa del 5 e 6 gennaio
Corriere della Sera, 12 Dicembre 2006

In Friuli Venezia Giulia, nei giorni dell'Epifania, rivivono antichi riti in cui si fondono tradizioni pagane e cristiane. Il fuoco, dal mare alle montagne, è protagonista. Elemento rituale, arde in molte località e accende il paesaggio con le luci di piccoli e grandi falò: uno spettacolo davvero unico. La tradizione delle pire di fuoco ha origini antichissime, celtiche. La loro accensione era un rito che allontanava gli influssi malefici invocando la benevolenza delle divinità. Il Cristianesimo fa sua questa tradizione. Ancor oggi alla vigilia dell'Epifania vengono accesi i pignarûi (chiamati anche foghère o pan e vin), grandi falò propiziatori, per lo più collocati sull'alto dei colli. Mentre bruciano, in base all'orientamento di fumo e faville, si traggono previsioni sul nuovo anno. Attorno, la gente mangia la tradizionale pinza (una focaccina con farina di mais, pinoli, fichi secchi, uvetta) bevendo vin brulé (vino caldo aromatizzato con cannella e chiodi di garofano), sintesi genuina di questa antica festa.

Fra i falò più belli e suggestivi vi è il Pignarûl Grant di Tarcento (graziosa cittadina sulle colline alle spalle di Udine), che arde su un'altura, tra le rovine del Cjastelàt (Castello).

All'imbrunire del 5 gennaio un corteo di centinaia di figuranti in costume medievale percorre le strade del paese fino ai piedi del Colle di Coia, dove il Vecchio venerando (metà druido, metà sacerdote) accende il rogo. Altri e più piccoli falò brillano nelle frazioni vicine, punteggiando la notte. A concludere la festa i rappresentanti delle borgate (Pignarûlars), muniti di fiaccola, partecipano alla spettacolare Corsa dei carri infuocati per conquistare il Palio. Ad illuminare la notte di Paularo, in Carnia, è invece, il 5 gennaio, la fiamma di un'altra grande pira detta Falò della Femenate. Anche in questo caso si osserva la direzione presa dal fumo per predire l'andamento dell'anno. La femenate è una vecchia padrona di casa alla quale, con diverse filastrocche, viene chiesta un po' di farina e cibo in cambio del fuoco propiziatorio. Sempre alla Carnia e all'Epifania è legata la tradizione de Las Cidules. A Comeglians e Pesariis i giovani lanciano dalla cima di alture delle rotelle di legno infuocate, che illuminano la notte con imprevedibili traiettorie. Frasi beneauguranti, legate soprattutto all'amore, accompagnano il volo. I fuochi epifanici non mancano neanche a Cassacco (il falò più alto della regione) e a Tricesimo; a Latisana, in una vera e propria sfida tra capoluogo e frazioni; a San Vito alTagliamento (ne vengono accesi una decina), a Sesto al Reghena e Cordenons: da tutti si traggono auspici. In queste ultime località, sulla cima del falò viene posto un fantoccio con le fattezze di strega.

Nella località sciistica di Piancavallo, il 5 gennaio, si tiene una grande fiaccolata dei maestri di sci, seguita da falò, pinza e vin brulé. Alla vigilia dell'Epifania le befane scendono nelle piazze di Tarvisio ai piedi delle Alpi Giulie, mentre a Stolvizza di Resia – sempre in montagna - è in programma la rappresentazione della discesa della Stella cometa, con l'arrivo dei Re Magi nel presepe vivente.

Ancora nel Tarvisiano, a Fusine il 6 gennaio una fiaccolata preannuncia l'arrivo della Befana e per le strade di Pontebba si snoda la sfilata dei Re Magi. A Moggio Udinese, in Canal del Ferro, la Befana anticipa l'accensione del Pignarûl. Il 6 gennaio antiche cerimonie religiose di grande suggestione riportano alla luce gesti e riti le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Particolarmente significativa in provincia di Udine è la Messa dello Spadone di Cividale, antica capitale longobarda. Qui, il giorno dell'Epifania, il Duomo ospita la rievocazione della solenne investitura del patriarca Morquardo Von Randeck, avvenuta nel 1366. Il diacono di Cividale con il capo coperto da un elmo piumato stringe in una mano la spada e nell'altra un antico Evangelario. Benedetta la folla ribadisce il doppio potere, temporale e spirituale. Segue una spettacolare rievocazione con centinaia di figuranti, che per tutta la giornata riporta Cividale agli antichi fasti medievali. Anche a Gemona, suggestivo borgo dell'Alto Friuli, il 6 gennaio si ripete un'antica e sentita cerimonia religiosa: la Messa del Tallero, preceduta e seguita da un corteo storico in costume. Nel Duomo di Santa Maria Assunta il sindaco consegna nelle mani del rappresentante della Chiesa, l'arciprete, un tallero d'argento di Maria Teresa d'Austria: anche in questo caso la sottomissione del potere temporale a quello spirituale.

Informazioni: numero verde Turismo FVG 800.016044, www.turismo.fvg.it

Carbone o zolfo? Indagine antropologica sulla buona vecchietta che distribuisce dolciumi: dietro c'è il mito arcaico e arcano della strega

Carbone o zolfo? Indagine antropologica sulla buona vecchietta che distribuisce dolciumi: dietro c'è il mito arcaico e arcano della strega
La Stampa, 7 gennaio 2007

di Giuseppe Cassieri

Devoti e semplici curiosi di tradizioni popolari si tranquillizzino: ancora una volta la Befana (Befanìa, nella voce cinquecentesca) lotta contro se stessa per non estinguersi. Lotta e, in buona parte, vince.
Di certo l'assiste qualche demone non meno interessato alla propria sopravvivenza, se è vero che l'arzilla vecchietta, pur di esistere, accentua goffaggine e prodigalità, si mostra eretica o ecumenica, si adegua al gigantismo ludico del mercato, finge di non vedere le patetiche euforie degli adulti e le smorfie teatrali dei bambini.
Politicamente agnostica, vanta almeno due successi incontestabili: clientela pressoché globale e riflettori accesi sulla figura che essa incarna nel mito, nella leggenda, nell'etno-antropologia, nella storia della mentalità.

Scrittori, esegeti, linguisti e nostalgici del mondo arcaico la coccolano, continuano ad analizzare la sua genesi, le sue ibridazioni, i suoi travestimenti. Male che vada, la restringono nei riti folclorici di strapaese, nelle «befanate», nelle feste mascherate, nelle incisioni di Bartolomeo Pinelli, nei ghiotti «befanini» di Viareggio. Tanta attenzione non è casuale e lei lo sa. Sa che si porta dietro un apparato di cultura millenaria, poco o nulla percepita la notte del 6 gennaio. A tratti s'indigna e lo rivendica; depone la scopa e si strucca. Dismessi i panni clawneschi, svuotate le tasche di carbone e gianduiotti, il personaggio che suscita (o meglio suscitava) nei puberi attrazione e repulsione, si sdoppia e diventa speculare all'attrazione e repulsione infuse dal genio alato Thanatos. Un balzo prodigioso, un rovescio di senso al varco del soprannaturale. Nel merito, ci viene incontro l'antropologo Lombardi Satriani che esplicita l'analogia («da un lato abbiamo la paura di essere contaminati dalla morte; dall'altro, l'esigenza di rapportare la nostra vita di superstiti alla vita dei nostri familiari andati nell'aldilà») e ci rappresenta il ruolo specifico della fabulatrice.
Un ruolo nobile che consiste nel mediare tra città terrena e oltretomba, tra l'angoscioso fluire della clessidra umana e «il tempo fuori del tempo», tra i labili segni del nostro essere e il culto sacrale degli antenati. Ma il curriculum della signora, le sue metamorfosi, il suo moto perpetuo, non cessano di sorprendere le anime pie, e su questo tema molto ci dice il saggio di Claudia e Luigi Manciocco (L'incanto e l'arcano, Armando, pagg. 221, euro 20), a complemento di Una casa senza porte apparso nel 1996. Dopo la fase neolitica e il nucleo totemico, in compagnia di Propp e Van Genepp, dopo la dea delle foreste e gli apporti del Vicino oriente e dell'Egitto predinastico, gli autori ci attraggono in special modo con le drammatizzazioni del Medioevo, alto e basso, e i furori del Rinascimento, senza trascurare le ricerche condotte nell'età moderna.
Dovessi però isolare l'immagine più avventurosa della protagonista, in un periodo storico definito, sceglierei quella registrata a metà del Quattrocento e nei decenni successivi, allorquando riemergono le antiche passioni mitologiche, l'adorazione delle divinità lunari (Sibilla, Diana, Erodiade, Ecate, Empusa...), si afferma lo «stereotipo del sabba», di cui parla Carlo Ginzburg, si moltiplicano le diaboliche «cavalcate notturne», si esalta il viaggio estatico, assimilabile al viaggio dello sciamano. Nella cerchia esclusiva degli spiriti orgiastici, ecco prodursi chi avevamo lasciato sulla soglia celeste. Grazie alla testimonianza di Isabella Orsini, detta Bellezza - vittima del processo svoltosi a Fiano Romano intorno al 1530 - veniamo a conoscere organizzazione e iniziazione della setta e perfino il numero delle apprendiste: squadre di venti-trenta aspiranti, ciascuna capitanata da una strega. Al vertice della struttura gerarchica chi trionfa? Non c'è da scommettere: la regina è Befanìa.
Si suppone che nel corso delle epoche costei si conceda, qua e là, una pausa di ristoro, un riepilogo delle imprese ben riuscite.

Un po' come la diva sul viale del tramonto che sfoglia l'album fotografico e contempla il volto sfiorito. Ma il rimettersi in gioco è fulmineo e lo comprovano gli studi capillari che la circondano, la invadono e cercano di entrare nella sua dimora segreta col sostegno di artisti, topografi e archeologi, questi ultimi particolarmente attivi nell'area mesopotamica, in Anatolia e nell'Italia del Sud.

Gratificazioni non sono di sicuro mancate all'ex cavallerizza. Le riterrà insufficienti? Avrà qualcosa da rimproverare al dinamismo virtuale della fantasia? Oggi come oggi, ci sfuggono i suoi obiettivi, le sue strategie nell'aridirsi della società contemporanea. Un dato è comunque acquisito e concerne il viaggio-battibaleno, il volo magico compiuto sin qui puntualmente, la notte epifanica, in ogni angolo del pianeta. Ebbene, quel primato non è più assoluto, la concorrenza dell'immateriale morde e schiaccia; il volo telematico ruba il mestiere e il mistero, il facsimile conquista la platea, la verosimiglianza brucia la realtà. E tuttavia la «vecchietta» sognata e sognante non cede, o forse non crede. Incassa e si sforza di sorridere; riconta le calze da destinare e svanisce nella cappa del camino.

«La Befana? Solo un'intrusa»

Panevin e polemiche.
Il sociologo Bernardi: «La Befana? Solo un'intrusa»
Il gazzettino 5 gennaio 2009

Treviso (5 gennaio) - La Befana che vola sulla scopa e arriva nella notte dei 'Panevin', i roghi propiziatori della campagna veneta, perquanto ben accetta, è soltanto un intruso che si è appropriato di unrito esistente da secoli prima della sua comparsa. A sostenerlo è il docente di sociologia dei processi culturali dell'università Cà Foscari di Venezia, Ulderico Bernardi.
A poche ore dall'inizio dell'accensione delle migliaia di fuochi rituali che, da epoche precristiane, illuminano la pianura veneta fino al margine della fascia pedemontana, Bernardi fa scoccare la scintilla per una nuova polemica.

I "Panevin" ufficialmente censiti solo dalla Provincia di Treviso sono circa 130. «La Befana è un'infiltrata - spiega Bernardi - ma non è inopportuna, perché occorre focalizzare l'attenzione su un altro punto. Dalla notte dei tempi nelle civiltà umane il periodo da novembre a gennaio, il più magro sotto il profilo delle risorse naturali e delle scorte alimentari, l'economia della solidarietà, cioè del dono, prevale su quella che oggi chiameremmo "di mercato". Non a caso qui si trovano feste da santa Lucia a san Nicolò fino all'Epifania».

Secondo ingrediente dei fuochi è quello del ritorno della luce: con il solstizio d'inverno il sole riprende a salire e vince la notte. «Il fuoco può anche essere letto come il caos originario - aggiunge Bernardi - che annienta le differenze. I 'panevin' sono appunto feste collettive che aggregano allo stesso modo tutti i ceti sociali e tutte le età».

Terza componente è quella oracolistica. «In Veneto la direzione dell'abbondanza è quella occidentale. Se le faville vanno di là la madre terra ci riserva un anno di abbondanza. Uno dei nomi del panevin è "marantega", per molti - conclude Bernardi - derivazione, appunto, di "mater antiqua".

lunedì 7 dicembre 2009

Carro trainato da buoi nella campagna romana

Carro trainato da buoi nella campagna romana

Più spazio per i tesori della tradizione sarda

Più spazio per i tesori della tradizione sarda
Antonio Bassu
Nuova Sardegna, Nuoro, 10/1/2006

Museo del costume. Trentamila visitatori all'anno e una struttura ormai inadeguata.
Lavori a pieno ritmo all'Etnografico per il raddoppio della superficie espositiva

NUORO. L'Istituto superiore regionale etnografico raddoppia, anzi triplica i suoi spazi espositivi. I lavori di ampliamento e sopraelevazione del complesso di via Mereu, alle falde del colle di Sant'Onofrio, vanno avanti a pieno ritmo. Ed è possibile che alla fine dell'anno vengano completati, per poi passare immediatamente dopo all'allestimento delle nuove sale di esposizione. Il Museo del costume potrà fornire così ai suoi visitatori un panorama sempre più completo della cultura e delle tradizioni sarde.
L'interesse dei visitatori, italiani e stranieri, è in continua crescita. Ma la struttura, costruita all'inizio degli anni Sessanta su progettazione dell'architetto Antonio Simon Mossa, è ormai inadeguata dal punto di vista delle dimensioni. Non riesce più a contenere le diverse centinaia di reperti, documenti e testimonianze di cui da tempo si è avviata la conservazione nei magazzini dell'Istituto.
L'intervento progettato comporta un ampliamento delle superfici espositive, che passano dai 670 metri quadrati disponibili finora a 1393. In questo modo sarà possibile ottenere un percorso museale con carattere di continuità, evitandosi così l'alternanza tra ambienti interni ed esterni e assicurando una migliore e più razionale funzionalità.
Il nuovo percorso si sviluppa secondo una logica che presenta ampi spazi, dotati dei servizi capaci di rendere piacevole e pratico l'approccio con i contenuti del museo: servizi igienici, di sosta, informazione, biglietteria, vendita di libri e gadget, guardaroba, uffici, locali tecnici preposti al controllo di tutti gli ambienti, i quali, come le sale, saranno tutti dotati dell'impianto di climatizzazione.
È prevista, inoltre, l'installazione di un ascensore, capace di trasportare 21 persone, anche per ovviare alla presenza di barriere architettoniche. L'Istituto etnografico ristrutturato esprimerà insomma una visione completa di tutte le espressioni della cultura materiale etnografica sarda.
Stando alle soluzioni progettuali, sono previste immagini in movimento a misura d'uomo su schermi al plasma, arricchiti da commenti sonori e perfino da supporti olfattivi, gestiti da un software che presiederà all'alternanza dei vari messaggi. In vetrine in metallo e cristallo a dimensioni variabili, dotate di sistemi autonomi di climatizzazione e illuminazione, saranno esposti diversi reperti e significative testimonianze. Il museo della vita e delle tradizioni popolari, con la nuova ristrutturazione, è sicuramente destinato a moltiplicare l'interesse, insieme al numero già cospicuo di trentamila visitatori all'anno.

martedì 1 dicembre 2009

Dalla fabbrica alla vigna, il racconto di un ritorno alla terra e alle tecniche naturali e "bio"

Dalla fabbrica alla vigna, il racconto di un ritorno alla terra e alle tecniche naturali e "bio"
CARLO PETRINI
DOMENICA, 29 NOVEMBRE 2009 LA REPUBBLICA - Torino

In Val Chisone la famiglia Coutandin ha riportato in auge antichi vitigni autoctoni che parevano ormai scomparsi e producono i nettari che piacevano al cardinale Richelieu

Niente chimica tranne rame e zolfo Così nascono le varietà "becouet", "avanà" e "chatus"

Ben pochi sono a conoscenza di un´ottima produzione vinicola portata avanti con serietà e passione dalla famiglia Coutandin. «Quando nel 1995 andai in pensione, dopo aver fatto per una vita l´operaio meccanico, non avevo intenzione di trascorrere tutto il mio futuro al bar o in bocciofila e per questo decisi di trasformarmi in viticoltore»: una bellissima testimonianza quella di Giuliano Coutandin che, sulla soglia dei sessant´anni, decide di cambiare profondamente la sua vita per seguire un sogno che aveva coltivato durante i tantissimi anni di lavoro in fabbrica.
La svolta si ebbe quando a metà anni Novanta lui e la moglie, Laura Pero, parteciparono a un corso di viticoltura ad Aosta organizzato dall´Institut Agricole Regional. La vista di quel panorama vitato li colpì a tal punto che decisero di tornare in Val Chisone e di recuperare alcuni vigneti che versavano praticamente in stato di abbandono. «Prendemmo accordi verbali con tanti vecchietti che stavano ritirandosi. Il rischio era piuttosto chiaro: in pochi anni le viti sarebbero state sostituite prima dalle erbacce e poi dalle piante con il rischio che tutti i muretti a secco sarebbero franati a causa della mancata manutenzione», racconta Laura sul filo dei ricordi.
I Coutandin avevano letto su numerose pubblicazioni che i vini della Val Chisone e di Perosa Argentina erano famosi addirittura ai tempi del Cardinale Richelieu, che sul finire del diciassettesimo secolo si faceva spedire a Parigi questi rossi di montagna. «La qualità media dei vini di questa zona ci sembrava davvero insufficiente e ci pareva impossibile che un personaggio così importante come Richelieu si facesse spedire presso la corte di Francia vini di così scarso interesse. Evidentemente questo terroir aveva potenzialità nascoste, che ci impegnammo ad esaltare con la produzione dei nostri vini» continua Giuliano nel suo racconto.
La vera svolta si registrò con l´ingresso in azienda del giovane figlio Daniele. Dopo aver fatto l´operaio per alcuni anni, decise di licenziarsi per fare il viticoltore: «Avevo una trentina di anni e stare sotto padrone proprio non mi piaceva. Sono un po´ anarchico e la campagna mi piaceva troppo per lavorare tra i filari solo nei ritagli di tempo, per cui presi questa decisione un po´ pazza e abbinai alla campagna un impiego part time nel sociale». Ora il vigneto è condotto da Daniele in prima persona, che ha trasformato questi eroici fazzoletti di terra, abbarbicati su terrazzamenti a picco sul borgo di Perosa, in veri e propri giardini, con le viti circondate da fiori e piante di timo.
«Non abbiamo certificazioni di tipo biologico e biodinamico, perché comunque costano care e noi produciamo solo duemila bottiglie. Però utilizziamo solo ed esclusivamente rame e zolfo, tengo a dirlo perché da quando è nato mio figlio Sebastiano lo porto qui a giocare e sarebbe stata una pazzia avvelenarlo con diserbanti e insetticidi» così Daniele Coutandin racconta la svolta bio che ha impresso in questi ultimi anni alla gestione agricola.
In effetti, camminare tra i loro filari è un´esperienza unica per chi ama la biodiversità e la natura più in generale. L´erba è tenuta bassissima, sotto i filari sono state tolte zolle di terreno per evitare di dover utilizzare il diserbo sottofila, proprio questo terreno in eccesso è stato ammucchiato a lato e sopra questo suolo così ricco di sostanze organiche sono coltivate le zucchine. Tutt´intorno ai vigneti resistono ancora splendidi boschetti e "ciabòt" in pietra che rendono il paesaggio particolarmente affascinante. «Un mese fa sono venuti in visita alcuni importatori americani - continua con orgoglio Daniele - che avevano percorso in lungo e in largo i principali territori viticoli italiani. Ebbene, dopo aver fatto ritorno in patria mi hanno scritto una e-mail che mi diceva che la tappa che avevano fatto da noi era stata una delle più suggestive. Noi che viviamo questo territorio quotidianamente non ci rendiamo conto del fascino che esercita sul visitatore e del patrimonio paesaggistico a nostra disposizione».
C´è da dire che questo percorso votato totalmente alla naturalità ha avuto anche conseguenze molto positive sulla qualità organolettica dei vini prodotti dai Coutandin (Borgata Ciabot 12, Perosa Argentina). Le loro pochissime bottiglie riescono a esprimere in modo molto interessante il territorio. Per prima cosa sono il frutto di un recupero sistematico delle principali varietà autoctone della Val Chisone, i nomi di questi vitigni sono davvero particolari e unici: tra questi vale la pena citare almeno il "becouet", l´"avanà", l´"avarengo", lo "chatus" chiamato anche "neretto". Nel loro piccolo i Coutandin stanno procedendo anche alla selezione di varietà maggiormente resistenti alle malattie che non abbiano addirittura bisogno del ricorso a sostanze come il rame e lo zolfo. Un percorso davvero unico quello dei Coutandin, da operai meccanici a paladini della naturalità, un percorso che li sta anche portando a esaltare le caratteristiche di un terroir prezioso e bisognoso di tantissime cure, perché la viticoltura di montagna è fragile per sua stessa definizione.

Animali da tiro nella campagna romana

Animali da tiro nella campagna romana

Le quattro stagioni dell´Alta Via la Liguria più bella in 160 foto

Le quattro stagioni dell´Alta Via la Liguria più bella in 160 foto
FRANCESCO LA SPINA
DOMENICA, 29 NOVEMBRE 2009 LA REPUBBLICA - Genova

Può bastare una ventina di giorni a percorrerla se si è allenati e disposti a dormire non sempre al coperto, in un mesetto anche un escursionista mediamente preparato può farcela. Attraversare la Liguria sempre affacciati su un eccezionale balcone naturale è un´esperienza che consigliamo senza riserve, perché i 440 chilometri dell´Alta Via dei Monti liguri, a una quota che raramente scende troppo sotto i 1000 metri, garantiscono una full immersion nella natura incredibilmente affascinante. E talvolta a due passi da casa, visto che i suoi sentieri, specie nel Genovesato, passano quasi alle spalle della città. Carrarecce, mulattiere, pochissimi tratti asfaltati sono veramente alla portata di tutti, anche solo per parziali avventure tra boschi, praterie e laghi, incontrando aquile e bianconi, volpi e daini, percorrendo itinerari in cui ancora a metà del secolo scorso si incrociavano i commerci tra mare e entroterra e si scambiavano le risorse produttive delle vallate.
Ma se proprio si vuol essere dei san Tommaso e non si crede alle parole, dopo le preziose guide che chi pratica escursionismo ben conosce, ecco che si può constatare con gli occhi la bellezza dell´Alta Via. Merito di sei fotografi (Paolo Bolla, Roberto Malacrida, Gianni Carrara, Alessandro Fronza, Guido Paliaga e Renato Cottalasso) che hanno realizzato il volume «Un anno sull´Alta Via», edito da Il Piviere (casa specializzata nella ricerca naturalistica) che martedì 1° dicembre, alle ore 18, con ingresso libero, sarà presentato presso la sede della Camera di Commercio in via Garibaldi 4. Il libro rappresenta il percorso per immagini, secondo l´interpretazione degli autori, dell´alternanza delle stagioni. Le foto, il cui punto di ripresa è localizzato mediante coordinate GPS e cartografie schematiche, testimoniano un paesaggio unico: montagne a volte brulle, a volte ricoperte da rigogliose foreste rappresentano la struttura portante di un ecosistema ricco di biodiversità e dal clima variegato in cui animali e piante trovano, in uno spazio limitato, condizioni diverse per la vicinanza del mare e la rapidità con cui i rilievi salgono verso il cielo. Si passa dai paesaggi alpini a quelli tipicamente mediterranei e le foto sono preziose apportatrici di sensazioni, colori, suoni e profumi. In attesa di viverli nella realtà, passo dopo passo.