giovedì 27 dicembre 2007

Solstizio d'Inverno, Sol Invictus e Natale: storia e tradizione

VIAROMA100 - Solstizio d'Inverno, Sol Invictus e Natale: storia e tradizione
http://www.viaroma100.net/notizia.php?id=12992&id_sez=3

Gli Europei dovrebbero riappropriarsi della propria cultura e delle proprie tradizioni, che hanno radici ben distinte dal cristianesimo, che ha dominato dopo essersi appropriato di gran parte della cultura greco-romana.

Roma – Il Cristianesimo si è appropriato indebitamente di feste e tradizioni forse perché ha poco di suo, se non le fantasie bibliche ed evangeliche…
Pur partendo da una considerazione volutamente polemica, per inquadrare un inganno storico e culturale che si perpetua nel tempo, è bene fare un excursus sul perché fra il 21 dicembre ed il 25 i popoli festeggino da millenni.

IL SOLSTIZIO
Il Solstizio d'Inverno cade tra il 21 e il 22 dicembre, questa data coincide con il giorno più corto dell'anno e con la notte più lunga.
Il Sole è al nadir, il punto più basso che tocca sulla linea dell'orizzonte rispetto al parallelo locale. Da questo giorno il suo potere comincerà a crescere, a rinascere e per questo i popoli dell'antichità celebravano il ritorno del figlio della promessa.

25 DICEMBRE: SOL INVICTUS
Il Natale è la versione cristiana della rinascita del sole, fissato secondo la tradizione al 25 dicembre dal papa Giulio I (337 -352) per il duplice scopo di celebrare la nascita del Cristo come "Sole di giustizia" e creare una celebrazione alternativa alla più popolare festa pagana del Sol Invictus, che, dopo giorni in cui la luce stenta prevalere sul buio, prevale e fa rinascere la natura.

I SATURNALI
I popoli antichi, da sempre festeggiavano il Solstizio, come i Saturnali della Roma antica, Alban Arthan (la Luce di Artù) nella tradizione druidica, o Yule in quella Germanica, ed altre ancora nelle tradizioni dei popoli dell'emisfero boreale. I Saturnali affondano le radici negli arcaici riti di rinnovamento legati al solstizio d'inverno, quando il Vecchio Sole moriva per rinascere Sole Fanciullo e Saturno era il dio che presiedeva l'Avvento del Natale del Sole Invitto, intendendo il Sole non in senso naturalistico, bensì essenza ed epifania del dio Creatore e Vivificatore.

Sarebbe oltremodo riduttivo e svilente considerare i Saturnali semplicemente delle festività più o meno allegre e licenziose, così come una certa tradizione cristiana ha contribuito a far credere. I Saturnali, in effetti, esprimono un profondo pensiero religioso la cui essenza risale alla Notte dei Tempi, a quella Notte di cui auspicavano il ritorno, illuminata dalla Luce di un Fanciullo Divino. Per poter penetrare nell'effettiva natura spirituale dei Saturnali occorre risalire la corrente del Tempo sino alle leggendarie origini di Roma, quando i suoi miti s'intrecciano con quelli di un'altra epica città, cioè Troia.

A Roma si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, come stabilito dall'Imperatore Domiziano. Alban Arthuan, rappresenta nella tradizione druidica un momento in cui possiamo aprirci alle forze dell'ispirazione e del concepimento.

Tutto attorno a noi è oscurità. La nostra sola guida è Arturo, l'Orsa Maggiore, la Stella Polare. Nel silenzio della notte nasce l'ispirazione. Tanto la festività che la funzione sono collocate al Nord, il regno della morte e del mezzo inverno. Il cuore della cerimonia è la conclusione rituale del lutto per la morte della luce, in qualunque forma divina o astratta venga percepita. L'anno che si è avvicinato alla fine con l'arrivo dell'inverno, portando con se il caos e l'incertezza dell'oscurità, ora viene lasciato alle spalle. Il miracolo della nascita ha fermato lo s correre verso l'oscurità: il flusso si è invertito.

YULE
La germanica Yule o Farlas, è insieme festa di morte, trasformazione e rinascita. Il Re Oscuro, il Vecchio Sole, muore e si trasforma nel Sole Bambino che rinasce dall'utero della Dea: all'alba la Grande Madre Terra dá alla luce il Sole Dio.

La pianta sacra del Solstizio d'Inverno è il vischio, pianta simbolo della vita in quanto le sue bacche bianche e traslucide somigliano allo sperma maschile. Il vischio, pianta sacra ai druidi, era considerata una pianta discesa dal cielo, figlia del fulmine, e quindi emanazione divina.

Per chi vuole approfondire: http://it.wikipedia.org/wiki/Sol_Invictus
dove si legge:
Aureliano consacrò il tempio del Sol Invictus il 25 dicembre 274, in una festa chiamata dies natalis Solis Invicti, "Giorno di nascita del Sole Invitto", facendo del dio-sole la principale divinità del suo impero ed indossando egli stesso una corona a raggi.

La festa del dies natalis Solis Invicti divenne via via sempre più importante in quanto si innestava, concludendola, sulla festa romana più antica, i Saturnali.

lunedì 17 dicembre 2007

L'albero di Natale Tra storia e simbolismo

L'albero di Natale Tra storia e simbolismo
http://www.grandain.com/informazione/dettaglio.asp?id=14594

di Michela Brandino

Misteri in... - Sono origini molto antiche, quelle che collocano il
famoso abete nelle feste del Solstizio d'inverno, ovvero il Natale.
I popoli germanici, lo usavano nei loro riti pagani, per festeggiare
il passaggio dall'autunno all'inverno. In seguito era usanza bruciarlo
nella stufa, in un rito di magia simpatica (secondo cui il simile
attira il simile), in modo che con il fuoco si propiziasse il ritorno
del sole.

Fu scelto l'abete perché è un albero sempre verde, che porta speranza
nell'animo degli uomini visto che non muore mai, neppure nel periodo
più freddo e difficile dell'anno.
Era un simbolo fallico, di fertilità ed abbondanza associato alle
divinità maschili di forza e vitalità. Ecco che addobbarlo, prendeva
quindi i connotati di un piccolo rito casalingo che portava fortuna ed
abbondanza alla famiglia.
Il Solstizio d'inverno, è il momento in cui la divinità maschile
muore, per poi rinascere in primavera. Questo ciclo di morte-nascita,
lo si ritrova in moltissime culture, oltre quella cristiana. E'
presente in Egitto, con la morte di Osiride e nel mito di Adone che si
evirò proprio sotto ad un pino.

Addobbare l'albero di Natale con le luci, accendendolo di mille
riflessi, ricorda il rituale del grande falò dell'abete, che spesso si
prolungava fino all'attuale festa della Befana. In alcune popolazioni
europee, con il fuoco dell'abete, si bruciava simbolicamente le
negatività del passato, e le streghe leggevano nel fuoco i presagi per
il futuro.
La tradizione dell'albero prese piede in Italia nel 1800, quando la
regina Margherita, moglie di Umberto I, ne fece allestire uno in un
salone del Quirinale, dove la famiglia reale abitava. La novità
piacque moltissimo e l'usanza si diffuse tra le famiglie italiane in
breve tempo.

Molte leggende cristiane sono poi nate nel tempo attorno all'albero di
Natale, come quella americana che racconta di un bambino che si era
perso in un bosco alla vigilia di Natale si addormentò sotto un abete.
Per proteggerlo dal freddo, l'abete si piegò fino a racchiudere il
bambino tra i suoi rami. La mattina i compaesani trovarono il bambino
che dormiva tranquillo sotto l'abete, tutto ricoperto da cristalli che
luccicavano alla luce del sole. In ricordo di quell'episodio,
cominciarono a decorare l'albero di Natale.

Quest'anno, non acquistate alberi vivi, i tempi sono cambiati e non è proprio il caso di far soffrire una pianta per egoismo e piacere personale!

Miti, Leggende e Storia. Il vischio

IL GAZZETTINO -
Miti, Leggende e Storia. Il vischio
http://gazzettino.quinordest.it:80/VisualizzaArticolo.php3?Luogo=Udine&Codice=36\
10683&Pagina=AMBIENTE%20%26%20NATURA

a cura dell'Associazione Forestali d'Italia

Miti, Leggende e Storia.Il vischio è sempre stato una pianta sacra.
Una specie di miracolo della natura che d'inverno spicca nei boschi
quando alberi e arbusti mostrano solo rami spogli. Già Plinio il
Vecchio descrive i rituali delle popolazioni gallico-celtiche che
accompagnavano la raccolta del vischio. Nella mitologia greca poi esso
viene associato ad Atena.

Per i Greci inoltre il vischio é la "chiave" usata ogni anno da
Persefone per raggiungere il marito all'inferno nei mesi invernali; ed
è con un rametto di vischio in mano che (secondo Virgilio) Enea
convince Caronte a fargli attraversare lo Stige e scende agli inferi
per incontrare il padre Anchise. E soprattutto con esso può superare
tutte le difficoltà e tornare sano e salvo nel mondo dei vivi.
Tuttavia a proposito dell'origine del vischio c'è una interessante
fiaba del Trentino. Di essa ci sono varie versioni che differiscono
nella forma, non certo nella sostanza (che è sempre la stessa).
Partiamo dunque da questa fiaba. C'era una volta, in un paese tra i
monti, un vecchio mercante. L'uomo viveva solo, non si era mai sposato
e non aveva più nessun amico. Per tutta la vita era stato avido e
avaro, aveva sempre anteposto il guadagno all'amicizia e ai rapporti
umani. L'andamento dei suoi affari era l'unica cosa che gli importava.
Di notte dormiva pochissimo, spesso si alzava e andava a contare il
denaro che teneva in casa, nascosto in una cassapanca.
Per avere sempre più soldi, a volte si comportava in modo disonesto e
approfittava della ingenuità di alcune persone. Ma tanto a lui non
importava, perché non andava mai oltre le apparenze. Non voleva
conoscere quelli con i quali faceva affari. Non gli interessavano le
loro storie e i loro problemi. E per questo motivo nessuno gli voleva
bene. Una notte di dicembre, ormai vicino a Natale, il vecchio
mercante non riusciva a dormire e dopo aver fatto i conti dei
guadagni, decise di uscire a fare una passeggiata. Cominciò a sentire
delle voci e delle risate, urla gioiose di bambini e canti. Pensò che
di notte era strano sentire tanto chiasso in paese. Si incuriosì
perché non aveva ancora incontrato nessuno, nonostante voci e rumori
sembrassero molto vicini. A un certo punto cominciò a sentire qualcuno
che pronunciava il suo nome, chiedeva aiuto e lo chiamava fratello.
L'uomo non aveva fratelli o sorelle e si stupì.

Per tutta la notte, ascoltò le voci che raccontavano storie tristi e
allegre, vicende familiari e d'amore. Venne a sapere che alcuni vicini
erano molto poveri e che sfamavano a fatica i figli; che altre persone
soffrivano la solitudine oppure che non avevano mai dimenticato un
amore di gioventù. Pentito per non aver mai capito che cosa si
nascondesse dietro alle persone che vedeva tutti i giorni, l'uomo
cominciò a piangere. Pianse così tanto che le sue lacrime si sparsero
sul cespuglio al quale si era appoggiato. E le lacrime non sparirono
al mattino, ma continuarono a splendere come perle.

Era nato il vischio.

Ma torniamo ai Gallo-Celti. Non solo per brevità (il soffermarci sulla
sua presenza nella tradizione greca e latina ci porterebbe, infatti,
assai lontano). Ma anche perché le consuetudini sull'uso del vischio
come elemento apportatore di buona sorte derivano in buona parte dalle
antiche tradizioni celtiche, costumi di una popolazione che
considerava questa pianta come magica (perché, pur senza radici,
riusciva a vivere su un'altra specie) e sacra. Lo poteva raccogliere
infatti solo il sommo sacerdote, con l'aiuto di un falcetto d'oro.

Gli altri sacerdoti, coperti da candide vesti, lo deponevano (dopo
averlo recuperato al volo su una pezza di lino immacolato) in una
catinella (pure d'oro) riempita d'acqua e lo mostravano al popolo per
la venerazione di rito. E per guarire (per i Celti il vischio era
"colui che guarisce tutto; il simbolo della vita che trionfa sul
torpore invernale) distribuivano l'acqua che lo aveva bagnato ai
malati o a chi, comunque, dalle malattie voleva essere preservato. I
Celti consideravano il vischio una pianta donata dalle divinità e
ritenevano che questo arboscello fosse nato dove era caduta la
folgore, simbolo della discesa della divinità sulla terra. Plinio il
Vecchio riferisce che il vischio venerato dai Celti era quello che
cresceva sulla quercia, considerato l'albero del dio dei cieli e della
folgore perché su di esso cadevano spesso i fulmini. Si credeva che la
pianticella cadesse dal cielo insieme ai lampi. Questa congettura -
scrive il Frazer nel suo "Ramo d'oro" - è confermata dal nome di
"scopa del fulmine" che viene dato al vischio nel cantone svizzero di
Argau. "Perché questo epiteto - continua il Frazer - implica
chiaramente la stessa connessione tra il parassita e il fulmine; anzi
la scopa del fulmine è un nome comune in Germania per ogni escrescenza
cespugliosa o a guisa di nido che cresca su un ramo perché gli
ignoranti credono realmente che questi organismi parassitici siano un
prodotto del fulmine". Tagliando dunque il vischio con i mistici riti
ci si procura tutte le proprietà magiche del fulmine.

Le leggende che considerano il vischio strettamente connesso al cielo e alla guarigione di tutti i mali si ritrovano anche in altre civiltà del mondo come ad esempio presso gli Ainu giapponesi o presso i Valo, una popolazione africana.

Inoltre queste usanze, chiamate anche druidiche (i sacerdoti dei Celti
erano infatti i Druidi), continuarono (specie in Francia) anche dopo
la cristianizzazione. La natura del vischio, la sua nascita dal cielo
e il suo legame con i solstizi non potevano infatti non ispirare ai
cristiani il simbolo del Cristo, luce del mondo, nato in modo
misterioso. "Come il vischio è ospite di un albero, così il Cristo -
scrive Alfredo Catabiani nel suo "Florario" - è ospite dell'umanità,
un albero che non lo generò nello stesso modo con cui genera gli
uomini".

Prima di questa elaborazione simbolica, tuttavia, la Chiesa non aveva
voluto ammettere il vischio fra i suoi "ornamenti", perché legato alla
tradizione pagana. A questa prima fase della sua storia risale forse
la formazione di quella leggenda medioevale che narra come
originariamente il vischio fosse considerato una pianta normale. Anzi.
Probabilmente per mantenere una certa distanza dalle antiche
tradizioni pagane (ritenute foriere di malvagità e peccato), il
vischio fu considerato dai cristiani una pianta maledetta. Quando
infatti Gesù venne condannato a morte per crocifissione, tutti gli
alberi si frammentarono minutamente per non divenire legno per la
Croce. Solo il vischio (unico albero in tutta la Palestina) rimase
intero e per questo fu utilizzato per costruirla. Allora la pianta
ebbe la maledizione di non essere più un albero ma un misero arbusto senza radici, una specie non più in grado di vivere autonomamente ma con la necessità di sostenersi ad una pianta nobile per poter sopravvivere, una di quelle piante che "eroicamente"aveva preferito farsi in mille pezzi pur di non divenire legno per la Croce.

venerdì 14 dicembre 2007

Kurdistan La patria perduta tra i monti del Kandil

Kurdistan La patria perduta tra i monti del Kandil

La Repubblica del 29 novembre 2007, pag. 32

di Vanna Vannuccini

Il profilo delle montagne ancora prive di neve, che si stagliano contro il cielo in colori grigi beige e gialli, è interrotto da tor­ri cilindriche munite di oblò e feritoie e filo spinato, che fanno subito pensare che il Kur­distan è stato pacificato con la forza. Gli scontri tra Repubblica islamica e movimenti indipen­dentisti curdi-iraniani comin­ciarono in questa provincia dell'Iran nord occidentale su­bito dopo la rivoluzione, e di­vennero una guerra vera e pro­pria, con migliaia di morti, du­rante il conflitto tra Iraq e Iran. «I ribelli venivano la notte e por­tavano via le scorte di cibo; i mi­liziani arrivavano di giorno e ci punivano come collaboratori», ricorda un vecchio pastore nel villaggio di Kulesareh, sulla strada che da Sanandaj porta al confine iracheno. I primi erano i peshmerga, i secondi i pasdaran khomeinisti. I nomi dei bambini in questi villaggi evo­cano ancora quei tempi: alcuni si chiamano Restegar (Libera­to), altre Shurosh (Rivolta).



«Ho ancora negli occhi l'im­magine del corpo di mio fratel­lo trascinato dai pasdaran per le strade di Sanandaj « racconta Fariba, una bella donna che porta con orgoglio il chador verde consentito solo alle di­scendenti del Profeta. Il fratello era un membro del Komaleh, uno di due movimenti indipen­dentisti (l'altro era il Partito De­mocratico Pdki). Fariba era allora una giovane sposa, il matrimonio era stato celebrato pro­prio il giorno in cui lo Scià Pahlevi aveva lasciato l'Iran, ricor­da. La coincidenza era sembrata di buon auspicio, perché le repressioni contro i curdi al tempo dello scià erano state durissime, e i curdi aveva­no sperato nella rivoluzione. Ma anche dopo l'arrivo di Khomeini le cose non migliorarono, gli ayatollah al potere soffo­carono subito ogni speranza di autonomia. La lingua, la musi­ca, la letteratura, perfino gli abi­ti tradizionali curdi furono vie­tati; il territorio curdo fu diviso in quattro province — Kurdi­stan, Kermanshah, Azerbaijan occidentale e Ilan; e i militanti curdi perseguiti fin nell'esilio. A Vienna, nel 1989, cadde in una trappola il capo del Pdki Ghassemlu, ucciso mentre stava trattando con i nuovi dirigenti iraniani (Khomeini era morto da poco), la rinuncia alla lotta armata — ma non quella all'au­tonomia. Il suo successore Sharafkandi fece pochi anni dopo la stessa fine in un ristorante nel centro di Berlino, Mykonos, do­ve entrò un commando e fece fuori tutti a raffiche di mitra.



Anche l'Iran come la Turchia ha una «questione curda». I cur­di sono più di sei milioni, quasi un decimo della popolazione, e da sempre insofferenti del po­tere centrale. Se la vita nelle città si era relativamente pacifi­cata, i villaggi e le montagne so­no sempre rimasti scarsamente controllabili e la presenza di militari un obiettivo per i ribel­li. Il presidente Khatami aveva cercato di avviare il suo «dialo­go delle civiltà» anche con le minoranze etniche — curdi e arabi a ovest, baluci e turkmeni a est, e qualche miglioramento c'era stato. Il Ministero per la Cultura islamica aveva consen­tito la pubblicazione di libri in curdo, l'università di Sanandaj aveva ospitato una conferenza in curdo sulla letteratura di questa etnia, e negli esami di accesso all'università si era smesso di imporre a questa minoranza, sunnita, di rispondere secondo le regole di fede sciite. Ma negli ultimi mesi gli scontri tra ribelli e milizie della Repubblica islamica sono ripresi con violenza. Raid di commando curdi, soldati iraniani uccisi, elicotteri di pasdaran abbattu­ti, rappresaglie sui villaggi sono cronaca quotidiana. I ribelli curdi sostengono che da agosto a oggi cono morti almeno 150 pasdaran, ma in generale — diversamente da quanto accade per i combattimenti tra Pkk ed esercito turco — nessuna delle due parti ha interesse a rendere noti gli scontri.



Teheran accusa gli Stati Uni­ti di finanziare i ribelli, che im­provvisamente sono muniti di armi sempre più moderne e sembrano ottimamente adde­strati. Nella primavera del 2006 Condoleezza Rice annunciò che 75 milioni di dollari sarebbero andati a finanziare «l'opposizione» iraniana, e questa volta, diversamente che nel ca­so dell'Iraq, Washington non giocava più la carta dei «demo­cratici in esilio» bensì quella delle «identità etniche e religiose».



La catena del Kandil, dove ha le sue basi il Pkk, il partito di Ocalan, è al centro di quello Sta­to ideale — tra Iraq, Turchia, Iran e Siria—che i curdi sogna­no di creare, meglio oggi che domani. Dalle cime del Kandil il Pkk ha creato delle filiali in tutti i paesi circostanti. Il partito cur­do — iraniano si chiama Pjak, Partito per una Vita Libera nel Kurdistan. Ufficialmente Pkk e Pjak non hanno nulla a che ve­dere: così almeno ha assicurato il capo del Pjak, Rahmad Haj Ahmadi, durante una visita in agosto a Washington dove ha chiesto e ottenuto finanzia­menti. Il Pkk, che combatte contro un alleato occidentale, la Turchia, è considerato negli Stati Uniti un gruppo terrorista, ma il Pjak non ha questa eti­chetta, perché combatte con­tro uno «Stato canaglia», l'Iran. Tuttavia è chiaro che i due rag­gruppamenti condividono lo­gistica, obbiettivi e lealtà a Oca­lan.



Dopo che sono aumentati i raid del Pjak, i pasdaran hanno triplicato la loro presenza nella regione, e non riuscendo quasi mai a trovare i responsabili de­gli attentati, che compiono dei blitz e ritornano subito dopo nelle basi in Iraq, al di là del con­fine, intensificano la repressio­ne sugli abitanti. Gli spiragli che si erano aperti con Khatami so­no stati tutti richiusi. Chiusi i giornali bilingui, arrestati i giornalisti con accuse di spio­naggio e attentato alla sicurez­za dello Stato, due di loro, Adnan Hassanpour e Hiva Bouto-mar, che lavoravano per la rivi­sta bilingue Assoo (Orizzonti), sono stati condannati a morte.



Cresce anche la povertà degli abitanti, in una regione che è sempre stata tra le più povere dell'Iran perché da sempre negletta dalle autorità centrali. Perfino le coltivazioni sono sta­te spesso messe a fuoco dai pa­sdaran nel tentativo di avvista­re i ribelli.



Il Kurdistan ha un'unica in­dustria agroalimentare, per la conserva di pomodori, nem­meno una fabbrica di marmel­lata o di yogurt sebbene vi cre­scano le fragole più buone del­l'Iran e il latte sia straordinario. Uno su tre giovani è disoccupa­to, l'accesso a posti pubblici è diventato impossibile per un curdo. Per sopravvivere resta solo il contrabbando: benzina, alcool, droga, armi, tutto passa attraverso queste montagne, e i peshmerga naturalmente lo fa­voriscono, in cambio di altrettanti favori e lealtà politica. Co­sì, per le autorità centrali, ogni curdo è un sospetto. Processi iniqui, discriminazioni, sono pane quotidiano.



La gente ha paura, non osa parlare, pasdaran e polizia se­greta sono onnipresenti.



Una stanzetta piena di carte nella città vecchia è la sede di una piccola agenzia di stampa. Una decina di giovani, in mag­gioranza ragazze, raccolgono le notizie che arrivano da tutte le città del Kurdistan e denuncia­no arresti, chiusure di fabbri­che, discriminazioni. Fino a qualche mese fa l'agenzia man­dava le sue notizie all'Una, un'agenzia nazionale a Tehe­ran, ma orai'lina è stata chiusa e solo il giornaleEtemadripren­de ogni tanto i dispacci dell'a­genzia: uno sciopero in una fabbrica tessile, una protesta di studenti, un processo contro cinque colleghi che avevano protestato per l'arresto di un sindacalista, Mahmud Saleghi (tutti condannati a tre mesi di carcere e quaranta frustate). Il direttore della piccola agenzia ci riceve per non venir meno al­la tradizionale ospitalità curda ma è preoccupato che la nostra visita possa costituire un prete­sto per chiudere l'agenzia. «La situazione è diventata irrespi­rabile. Se la repressione conti­nua, ci sarà una sollevazione» dice un redattore del settima­nale Karaftoo. Settimanale per modo di dire, in quattro anni sono usciti 60 numeri. A volte il giornale già pronto è stato vie­tato, a volte è lo stesso direttore che all'ultimo momento decide di rinviare la pubblicazione per riflettere ancora sui rischi. Ka­raftoo ha una tiratura di 5000 copie, che quando compare in edicola vengono vendute nel giro di due giorni. «Il curdo è un curdo in qualsiasi parte del mondo si trovi» è scritto a gran­di lettere sulla porta della redazione.

lunedì 10 dicembre 2007

i riti del folklore tra "magare e fatture"

AMANTEA.Net - Ferlaino racconta i riti del folklore tra "magare e
fatture". Un libro commissionato dall'Accademia degli arrischiati
finanziato dalla regione Calabria
http://www.amantea.net/index.php?option=com_content&task=view&id=1903&Itemid=111
di Lucia Baroni Marino - "La Provincia Cosentina" del 08/12/07

Il profilo di vecchie magare, fatture, filtri magici e antidoti;
l'affascinu e la sfascinatrice; 'u gabbu, le bestemmie e le
maledizioni imbastiscono solo uno degli interessanti capitoli di
un'originale pubblicazione, edita recentemente da Rubbettino,
"Folklore in Calabria tra memoria ed oblio".

Autore, Franco Ferlaino, cultore di etnologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Unical che ha realizzato il testo su commissione dei soci dell'Accademia degli Arrischiati di Amantea, con sede al Palazzo delle Clarisse, grazie ai finanziamenti stanziati dalla Regione Calabria. Di pagina in pagina lo scrittore ripercorre, in lungo e in largo, l'assetto antropologico del territorio amanteano mettendo in rilievo cicli della vita, tradizioni, riti apotropaici, festività religiose, abitudini alimentari, giochi popolari. E' sorprendente l'insieme delle informazioni su ataviche pratiche e rituali affossati dai ritmi moderni. Per fare un esempio al collo dei neonati si appendeva 'u scanticiellu, una minuscola borsa con sale, incenso, un soldo bucato e la medaglia di un santo, contro gli spiriti maligni. La dichiarazione d'amore poteva essere una semplice serenata cantata sotto la finestra dell'amata; mentre le serenate a dispetto, dopo la rottura di un fidanzamento, erano dei veri e propri panale contro la ragazza per rimediare all'umiliazione subita dal maschio.

Si apprende, inoltre, che fino alla seconda guerra mondiale, lo sposo conservava il diritto di rimandare ai suoceri la moglie se fosse stata deflorata anzitempo. Si leggono, altresì, i significati più profondi di gesti e parole. A proposito della strina di Natale, l'autore dice ch'è un'azione che riscalda l'anima e le relazioni con gli amici.
Scrive Ferlaino: "Pare che la tradizione si possa richiamare alla dea Strenia, preposta ai doni di Capodanno, consistenti in piatti di frutta, dolci e miele che venivano offerti sia a lei sia a parenti ed amici. Del resto gli strinari vanno in giromolto tardi quando il convivio è giunto alla frutta e al consumo di dolci ricoperti di miele (turdriddi, scaliddre, pignolata)". Lo scrittore non si ferma qui.
Enuclea nella sua ricerca altre memorie, indicando contaminazioni culturali provenienti da epoche, sepolte dalle incrostazioni della storia, nonché il mondo magico e immaginario dei comuni che rientrano nella costiera tirrenica, centrale all'intera Calabria.