mercoledì 26 novembre 2008

La Leggenda di Cola di Pesce

La Leggenda di Cola di Pesce
Luciana Monticane
Gli Arcani, aprile 1976, pagine 62-63
Secondo una antica tradizione siciliana viveva un tempo a Messina un giovane ragazzo di nome Nicola, figlio di un povero pescatore, che amava passare la maggior parte del suo tempo in mare, tuffandosi spesso anche a grande profondità. Per questa sua passione era stato soprannominato dai suoi compaesani Cola Pesce e questi non si stancavano mai di sentire dalle sue labbra i racconti delle favolose meraviglie che egli aveva osservato sul fondo del mare: pesci, piante multicolori, coralli, grotte fosforescenti e altre stupefacenti curiosità.
La fama di Cola Pesce divenne così grande a Messina che, non appena l’imperatore Federico giunse in città, volle immediatamente che gli venisse presentato lo strano e famoso personaggio. Per metterlo alla prova il sovrano fece gettare in mare una coppa d’oro e ordinò a Cola di riportargliela, cosa che egli fece prontamente. Federico, rendendosi conto che quello che gli era stato raccontato corrispondeva a verità, lo colmò di onori ma qualche tempo dopo gli venne voglia di sapere come era fatta la Sicilia sotto l’acqua e su che cosa si appoggiasse. Incaricò allora Cola di rispondere a questi suoi quesiti.
Il giovane ubbidiente si tuffò subito. Quando tornò riferì all’imperatore che l’isola poggiava su tre colonne, una delle quali si stava lentamente consumando bruciata dal fuoco che divampava tra Catania e Messina. Federico, incredulo e capriccioso, ordinò a Cola di portargli un po’ di quel fuoco e il coraggioso ragazzo, a mani nude, si gettò in mare per cercare di accontentare l’impossibile desiderio dell’ imperatore.
Nessuno vide più Cola Pesce, solo una macchia di sangue apparve ad un tratto sulla superficie marina e i messinesi credono che egli si sia messo al posto della colonna intaccata dal fuoco per salvare la sua isola e forse è ancora là.
Quella che abbiamo riportato è una delle diciassette o diciotto versioni popolari siciliane della famosa leggenda di, Cola Pesce, la cui prima menzione letteraria risale ad un poeta provenzale del XII secolo, certo Raimon Jordan. La storia di Cola Pesce, nata a quanto sembra al Faro di Messina, venne infatti ripresa da moltissimi scrittori del Medioevo e anche di periodi successivi. Tema di poesie, poemi, opere drammatiche o dissertazioni erudite, la sua fama giunse fino in Spagna.
Molte sono soprattutto le leggende che narrano, come nel caso di quella siciliana sopra riportata, le eccezionali imprese compiute, sotto l’imperatore Federico di Svezia, da quell’arditissimo nuotatore che, secondo alcuni racconti, venne addirittura trasformato a. seguito di una maledizione che sua madre, stanca di vederlo sempre tra le onde, gli lanciò contro in un essere mezzo uomo e mezzo pesce, tutto ricoperto di squame, con le dita palmate come un’anatra e la gola di rana. Un vero e proprio uomo-anfibio insomma.
Nonostante la sua origine siciliana, Cola Pesce è però diventato, con il passare del tempo, uno dei personaggi più caratteristici del folklore napoletano, ed è proprio a Napoli infatti che è possibile ammirarne una fantastica raffigurazione. Si tratta di un antico bassorilievo, rappresentante la figura atletica di un uomo estremamente villoso e armato di un lungo coltello, collocato sulla facciata del fabbricato che fa angolo tra via Mezzo-cannone e via Sedile del Porto.
Come spiega anche una iscrizione settecentesca, questa opera venne portata alla luce nel cavare le fondazioni del Sedile di Porto, e nonostante, fin dalla fine del ‘500, gli studiosi abbiano avanzato l’ipotesi che si tratti di una raffigurazione del mitico Orione, è da secoli popolarmente chiamato il Pesce Niccolò e il suo corpo non sarebbe coperto di folta peluria, bensì da piccole onde stilizzate.
Così come Robin Hood altro non fu che un simbolo della resistenza degli inglesi contro gli invasori, Cola Pesce simboleggia da sempre le avventure, i pericoli, gli ardimenti degli uomini che vivono sul mare e del mare, ed è per questo che la sua leggenda si è trasformata sulle nostre coste meridionali in una vera e propria parte di sto -ria locale. Ancora oggi non è raro sentire qualche anziano parlare della sbalorditiva resistenza sott‘acqua di Pesce Niccolò con una familiarità e una semplicità che fanno pensare che questi altro nonchè un loro vecchio amico o un loro avo. In particolare, non mancherà certo di farvi notare che ai “suoi tempi” non esistevano mezzi che potessero aiutare il subacqueo artificialmente.


Viene quasi da pensare che Cola Pesce sia stato un personaggio reale. In verità non esistono prove o documentazione che ne attestino una passata esistenza. Che si sia trattato di un essere umano in carne ed ossa o che non sia stato altro che un parto della fantasia popolare ha tuttavia, a nostro avviso, ben poca importanza, in quanto è l’idea di ciò che egli ha rappresentato e rappresenta che conta, e vi possiamo garantire che per la gente di mare Cola Pesce è rimasto e rimarrà, forse ancora per molto tempo, uno dei più grandi eroi della storia. Se passate per Napoli non dimenticate dunque di andare a rendergli omaggio.


Bibliografia

I. Calvino: Fiabe Italiane, volume 2°, Oscar Mondadori, 1968.
G.Pitré: Studi di leggende popolari in Sicilia e Nuova raccolta di leggende siciliane, Torino, 1904

domenica 23 novembre 2008

MIBAC: BONDI ANNUNCIA DDL SOSTEGNO BANDE, CORALI E GRUPPI FOLKLORICI

MIBAC: BONDI ANNUNCIA DDL SOSTEGNO BANDE, CORALI E GRUPPI FOLKLORICI
(ASCA) - Roma, 22 nov 2008 -

Il ministro per i Beni culturali e le Attivita' culturali Sandro Bondi ha annunciato la prossima presentazione in parlamento di un disegno di legge di sostegno e valorizzazione delle bande musicali, corali e gruppi folklorici. Ddl che sara' preso in esame dal Consiglio dei ministri la prossima settimana.

Occasione dell'annuncio e' stato l'intervento alla Festa della musica, a Roma a Piazza del Popolo.

''In Italia -ha detto Bondi- esistono piu' di 4.500 bande, 2.500 corali e 600 gruppi folkloristici, che coltivano con passione in ogni angolo del Paese la nostra cultura musicale, facendo vivere momenti inconsueti e inattesi di gioia diventando esse stesse sinonimo di festa. Tutte insieme queste realta' tutelano e tramandano le tradizioni musicali della nostra storia''.

''Per questo motivo il Ministero, riconoscendo il loro alto valore culturale, ha voluto promuovere un disegno di legge -ha spiegato Bondi-, che la prossima settimana verra' presentato in Consiglio dei Ministri per poi approdare in Parlamento.

Il testo e' il frutto dell'attiva partecipazione di numerose associazioni musicali e di molti cittadini interessati, che hanno voluto far conoscere i propri suggerimenti attraverso un'innovativa consultazione telematica''.

L'iniziativa legislativa -ha aggiunto- serve a tutelare e valorizzare le bande musicali, i cori non professionistici ed i gruppi folklorici.

Queste formazioni favoriscono l'aggregazione sociale, indirizzando i giovani a gustare e vivere la musica dal vivo come protagonisti.

I complessi bandistici, i cori non professionistici e i gruppi folklorici hanno anche un ruolo importante nella ricerca e nell'elaborazione di strumenti e linguaggi musicali, che oggi rischiano di essere dimenticati.

Il disegno di legge riconosce, salvaguarda, promuove e valorizza, come patrimonio dell'intera comunita' nazionale forme di espressione musicale e di creativita' ancorate alle nostre tradizioni culturali, svolte da complessi costituiti in associazioni e fondazioni riconosciute''.

''Sono certo -ha concluso Bondi- che il Parlamento sapra' accogliere favorevolmente questa proposta, contribuendo positivamente in sede di dibattito alla sua approvazione''.

min/cam/ss

sabato 15 novembre 2008

La Madonna delle grazie svelerà il suo mistero

La Madonna delle grazie svelerà il suo mistero
SABATO, 15 NOVEMBRE 2008 la repubblica - Palermo

Sarà restaurata l´opera attribuita alla scuola del Gagini che si trova a Santa Maria della Catena

La presenza contemporanea della corona e della colomba nel blocco alludono ad un messaggio ancora tutto da decifrare
La felicità dei giovani scatenati nelle danze e le perplessità del critico de "L´Ora", secondo il quale non sarebbe rimasta traccia del genere musicale

PAOLA NICITA

Una scultura, quella della Madonna di tutte le Grazie, ricca di storia, ma anche di aneddoti e un po´ di mistero. La collocazione, innanzitutto: si trova nella chiesa di santa Maria della Catena, ma vi fu collocata solo nel 1823, in quanto proveniente dalla chiesa di san Nicolò della Kalsa. Il nome, in secondo luogo, che racconta il potere miracoloso della scultura, molto venerata e amata dai palermitani che ad essa si rivolgono da secoli chiedendo grazie, per l´appunto, e miracolose intercessioni. Storie note e conosciute almeno fino a qualche tempo addietro, ma rintracciabili anche attraverso una testimonianza del Mongitore, «La Madonna si trovava nella strada dell´Alloro, dove aveva fatto molti miracoli»; dunque si fu costretti a spostarla nella vicina chiesa». Altra testimonianza legata alla sacra immagine è quella di Lazzaro Di Giovanni che scriveva: «Si vede un´antica scultura in marmo in cui in mezzo al rilievo vi è Maria Santissima con suo divino figliolo in braccio in attitudine di benedire, ai fianchi otto angeli, quattro per parte, sopra vi è una corona sulla quale posa una colomba e sopra questa un ostensorio coll´ostia sostenuta da due angeli».
È questa preziosa Cona marmorea, di periodo cinquecentesco e attribuita alla scuola dei Gagini al centro di un restauro che è stato presentato ieri dagli sponsor, Guglielmo Bellavista e Nicola Monteleone del Lions Club di Palermo, insieme alla restauratrice, Ivana Mancino, alla storica dell´arte Maria Concetta Di Natale e al rettore della chiesa don Carmelo Torcivia. I restauri sono seguiti dalla Soprintendenza. La scultura oggi si presenta opaca e ricoperta da depositi di polvere, di sostanze di varia natura e macchie di cera. «Il restauro vero e proprio, comunque, sarà anticipato da alcuni saggi - spiega Ivana Mancino - che permetteranno di conoscere alcune caratteristiche chimiche fondamentali per potere intervenire. Saranno effettuate indagini radiologiche e spettroscopiche e poi tasselli di pulitura».
La Cona marmorea policroma, oggi collocata nella terza cappella a destra sopra l´altare gaginesco, è infatti composta da due differenti blocchi: uno superiore e uno inferiore, probabilmente realizzati da mani di artisti differenti, comunque riconducibili a scuola gaginiana. L´impianto compositivo appare complesso, la Vergine è circondata da una schiera di angeli, mentre nella parte superiore due angeli reggono una custodia con la colomba della Spirito Santo, racchiusi in una nicchia decorata con una conchiglia. L´altare è adornato da pregevoli bassorilievi raffiguranti storie relative ai santi Pietro e Paolo, attribuiti alla mano abile di Giacomo Gagini e alla sua bottega, nella metà del Cinquecento.
L´assoluta novità, nella parte della scultura raffigurante la Madonna, è la presenza contemporanea della Corona e della Colomba. «Potrebbe avere due significati - dice la restauratrice che ha analizzato la statua insieme a Maria Concetta Di Natale - un significato legato alla committenza, per cui l´Ostensorio è indicativo della Congregazione del Santissimo sacramento, oppure Corona e Colomba insieme alludono ad un messaggio ancora da svelare. La scultura infatti, potrebbe essere in realtà formata da tre parti, dunque sarebbe mancante di un frammento». L´ostensorio, il vaso sacro che reggono i due angeli, utilizzato per esporre ai fedeli o portare in processione l´eucarestia è raffigurato da una teca a base esagonale nella quale è riposta l´ostia consacrata di colore dorato, con un piede che poggia sulla colomba. Questo modello di ostensorio si diffonde largamente a partire dal XVI secolo, soprattutto in relazione allo sviluppo della processione del Corpus Domini. Spiegano le studiose: «L´ostensorio raffigurato nella Cona è ha base ottagonale, modello giunto fino a noi in argento, potrebbe essere un elemento importante, singolare, richiesto dalla committenza, forse la Cona fu commissionata dalla congregazione del Ss. Sacramento, congregazione che si affermava a Palermo nel XVI secolo».
Altro fatto singolare, legato all´iconografia della scultura, a parte la Corona e la Colomba insieme, è la posizione del Bambino Gesù, raffigurato benedicente e in piedi. «Possiamo dire - prosegue Mancino - che per quanto riguarda la statutaria di questo periodo si tratta di un unicum assoluto, dato che il bambino è generalmente raffigurato tra le braccia della Madre; però è una iconografia che in questo periodo si rintraccia nelle pitture. per questo motivo si è ipotizzato che il committente possa aver fornito all´artista un dipinto a cui ispirarsi, dipinto che conteneva alcuni elementi per l´appunto mai riscontrati nella scultura siciliana cinquecentesca».
Le ipotesi legate all´attribuzione si dirigono per lo più in direzione di Francesco del Mastro, allievo di Antonello Gagini: «Un´attribuzione che è guidata da due iconografie simili - conclude Ivana Mancino - entrambe dell´artista, una delle quali si trova a San Mauro Castelverde e l´altra a Termini Imerese. Vedremo dopo i risultati dei saggi e delle prime puliture se verranno registrate altre ipotesi». Il progetto di restauro di opere gaginiane necessiterebbe di un ulteriore sponsorizzazione, perché oltre alla Cona, sono inattesa di recupero quattro statue delle Vergini, che raffigurano S. Ninfa, S. Barbara, S. Oliva, S. Margherita opere di Antonello Gagini eseguite con la collaborazione dei figli Antonino e Giacomo intorno al 1540, oltre ad un gruppo di bassorilievi di Giacomo Gagini, che narrano episodi dei SS. Pietro e Paolo ed una Crocifissione facenti parte dell´altare della "Madonna di tutte le Grazie".

mercoledì 5 novembre 2008

CALENDIMAGGIO

CALENDIMAGGIO

Per la cristianità il mese di maggio è notoriamente dedicato alla Madonna. Dietro la tradizione cristiana è però tuttora presente l'eco di esperienza cultuali più antiche , che si perdono nel passato pagano e si riferiscono ai riti di maggio, presenti presso moltissime popolazioni celtiche.
Di questi rituali, inseriti all'interno delle pratiche del Calendimaggio, vi sono scarse memorie, anche queste molto scolorite, che da sole non sono in grado di restituire la grande diffusione incontrata nel passato dai tradizionali festeggiamenti praticati tra la fine di aprile e l'inizio di maggio.
In genere i "maggi" sono rappresentazioni alquanto articolate, realizzate da gruppi improvvisati o organizzate in seno alle cosiddette badie o confraternite laiche.
I gruppi si muovono all'interno di una comunità, cantando e recitando secondo un canovaccio spesso arcaico, via via reinventato e costituito da filastrocche, poesie, canzoni, serenate e altre forme di ritualità orale, anche accompagnate da aspetti coreutici quali la processione e in particolare la danza.
La caratteristica principale di questa antica usanza è una sorta di questua che porta di casa in casa la voce della natura, sempre premiata da un'offerta donata ai membri dei gruppi di giovani che "cantano maggio".
Strutturalmente i "maggi" possono essere suddivisi in due gruppi:
-i Maggi Lirici, che hanno toni marcatamente profani, costituiti da canzoni, musiche e azioni dirette a porre in rilievo gli aspetti più emblematici della stagione (quindi inni alla natura, all'amore, alla rinascita). Sono noti i Maggi Lirici con sostrato sacro, anche se meno diffusi e oggi ormai quasi totalmente dimenticati, nei quali i soggetti principali sono le anime del purgatorio (anche qui si tratta di rituali in cui prevale il tema della rinascita, in questo caso dell'anima). I Maggi Lirici sono anche chiamati Maggiolate.
-i Maggi Drammatici invece possono essere considerati una evoluzione sceneggiata dei Maggi Lirici, con l'apporto di figure recitanti e voci fuori campo, che donano al rito i toni caratteristici dell'azione teatrale. Nei Maggi Drammatici vanno segnalati alcuni elementi simbolici che, pur non essendo prerogativa di tutte le manifestazioni di questo genere, possono essere rinvenibili in diversi casi: la proglamazione di una Regina del Maggio, il dono di un ramo fiorito ai proprietari delle case davanti alle quali si cantano le odi, la questua, l'innalzamento dell'Albero di Maggio (evolutosi in alcuni casi in Albero della Cuccagna), l'accenzione di un falò e infine l'offerta di uova ai questuanti.
Quest'ultima tradizione si è poi diffusa dando origine al dono dell'uovo che è diventato simbolo del Dono della Rinascita, da cui il nostro Uovo di Pasqua.
Per quanto riguarda il tema dell'albero, ricordiamo che in passato, nella sera del 30 aprile, i giovani si recavano nei boschi e sradicavano un albero che poi piantavano nella piazza del paese come omaggio alle autorità locali. In cima si legavano doni, prevalentemente di tipo alimentare, e la cerimonia si chiudeva con la gara tra i giovani per arrivare in cima all'albero e raccogliere i prodotti legati lassù.
In alcune località le canzoni dei Maggi eano in prevalenza eseguite di giorno dalle donne, Spose di Maggio (solitamente zitelle o vergini), mentre il Canto delle Uova era quasi sempre maschile e notturno. In genere il canto di maggio può essere considerato una sorta di versione gioiosa e pagana delle drammatiche e cattoliche Rogazioni. Di qui probabilmente il tentativo di cristianizzarlo inserendo in tale canto alcune allusioni alla Madonna.
Si ha notizia di azioni contro i Maggi cantati durante le ore notturne e aboliti perché occasione di disturbo e perché la festa notturna evocava esperienze rituali "altre", collegabili al paganesimo e al satanismo. Non è casuale che in alcune fonti dei XVIII secolo vi sia l'indicazione chiara che i Maggi notturnifurono aboliti perché considerati pagani.
Va osservato che dietro queste ricorrenze vi è un retroterra cultuale precristiano molto articolato, che si estende dai Floralia romani al Bertane celtico: tutte le manifestazioni che si svolgevano tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio.
E' quindi proprio in questo sostrato che possono essere rintracciati gli elementi determinanti per la demonizzazione cristiana dei Maggi, in particolare quelli notturni.
Nella tradizione precristiana alcune figure centrali dei rituali erano femminili, per esempio le dee Flora e Maia: "i Romani, che festeggiavano Maia in maggio, ritenevano che il nome di questo mese provenisse dalla dea. La critica moderna tende invece a vedere nel nome Majus una derivazione diretta dalla stessa radice mag/crescere, diventar grande, da cui le parole Magis, Magnus, major" la cui trasformazione nell'interpretazione demonizzante ne ha fatto delle streghe adepte di Satana.
E' sicuramente da considerare come molte donne accusate di stregoneria dicessero di essere andate, durante la notte, in luoghi consacrati al culto seguendo una Bona Dea, oppure una Signora del Gioco, chiare reminiscenze delle dee pagane.
Le Floralia:
Toschi divea che "si trattava di feste estremamente licenziose, Giò nell'ultimo secolo della repubblica vi prendevano parte delle danzatrici-meretrici, le quali non aspettavano che le urlanti richieste della folla accesa di libidine per mostrarsi nude: degenerazione, o meglio illascivimento cittadinesco di un prisco costume che aveva in origine carattere ritualistico e un precuso scopo, quello di favorire, sul principio della magia simpatica, la fecondazione della terra e quindi promuovere il felice sviluppo di tutta la vita vedetale".
Proviamo ad immaginare l'evoluzione dell'atteggiamento comune nei confronti dell'archetipo femminile presente all'interno dei rituali dei Maggi: Flora, Maia e altre dee sono diventate Redine di Maggio nell'ambito del folklore, mentre Bona Dea e Signora del Gioco nell'ambito della stregoneria, evolvendosi infine nella figura della Madonna nell'ambito della tradizione cristiana.
"Per giungere a una soluzione esatta del problema è bene tenere sempre collegata la rappresentazione con l'insieme della festa di cui essa costituisce il punto culminante. Ora, la dedicazione del mese di maggio a Maria, l'istituzione degli altarini della Madonna per soppiantare i troni delle Regine di Maggio, la questua per le anime purganti, in una parola, il capovolgimento del significato delle feste di maggio da profano a sacro, è avvenuto soltanto in questi ultimi due o tre secoli."

dal libro: "Magia WICCA. storia, riti, cerimonie" di Cristopher Wallace

Trance, Guarigione, Mito

AA. VV.
Trance, Guarigione, Mito
Pagine 184. Nardò (LE), Besa.
Otto importanti studiosi italiani, appartenenti all'ambito della ricerca storiografica e antropologica affrontano in altrettanti saggi quelli aspetti del rituale sincretico del tarantismo ritenuti a torto oscuri e finalmente decifrati alla luce di documenti di recente scoperta. A partire dalla grande lezione di Ernesto De Martino, l'inquietante universo dell'animale mitico "tarantola" si svela in tutti i suoi molteplici significati attraverso le vicende della mitologia magnogreca e ancor prima paleomediterranea, del dibattito medioevale sui veleni, della magia naturale e della stregoneria, della medicina iatromeccanicistica alle soglie dell'illuminismo, infine delle sue nuove configurazioni nell'epoca della postmodernità. Ne emerge un quadro sorprendente, di ampio e profondo respiro culturale, teso fra retaggio arcaico e nuovo misticismo contemporaneo, fra esoterismo e istanze della razionalità. Paolo Apolito, antropologo dell'Università di Salerno, si interroga sul significato attuale del rito della tarantola – più come memoria e come segno di identità locale – in un Mezzogiorno in piena trasformazione e contraddizione. In seguito ad uno scavo instancabile, appassionato come la scrittura che lo esprime, l'autore giunge a far comprendere le ragioni per le quali un fenomeno rimasto in latenza per quasi trent'anni torna improvvisamente a far parlare di sé. Gino Leonardo Di Mitri, storico e ricercatore dell'Istituto "Diego Carpitella", riconsiderando l'ignorato capitolo del tramonto della civiltà bizantina in Terra d'Otranto, perviene ad una definizione del tarantismo più complessa e meno angusta di quella che si sarebbe potuta supporre, in un contrappunto fra antiche danze mediterranee e indizi di religiosità sincretica racchiusi in un autentico dramma sacramentale. Bernardino Fantini, storico della medicina e direttore del prestigioso Institut "Louis Jeantet" dell'Università di Ginevra, ripercorre la storia del tarantismo sulle tracce di Giorgio Baglivi, il protagonista della prima vera 'rottura epistemologica' nell'ambito delle indagini sulla sindrome. Sono finalmente passati al vaglio le teorie e i metodi circa l'efficacia della musica contro il morso del ragno, le interpretazioni chimica e meccanica del morbo, i retroterra fisici e fibrillari di una complessa e innovativa prassi clinica impostasi sul finire del XVII secolo. Vittorio Lanternari, decano dell'Università "La Sapienza" di Roma e padre fondatore degli studi contemporanei di etnopsichiatria, stabilisce uno stimolante raffronto fra le ataviche aspettative di salvezza e di guarigione di cui è stato teatro il tarantismo e le nuove forme di devozione mariana di cui è paradigma illuminante il fenomeno di Lourdes. L'evento 'metastorico' della sofferenza ed il conseguente ricorso alla risorsa del 'pellegrinaggio' vengono esaminati in una impeccabile lezione di antropologia sociale e culturale di sapiente taglio comparativo. Gabriele Mina, ricercatore dell'Università di Genova, cerca di leggere in filigrana alcuni aspetti degli interventi di Epifanio Ferdinando, Athanasius Kircher e Giorgio Baglivi per far emergere il profilo retorico di un'epoca quale il '600. Una riflessione che, per quanto circoscritta ai temi della storia del pensiero scientifico, riesce a tracciare un quadro avvincente della mentalità imperante nel 'secolo d'oro' della tarantola. Gianfranco Salvatore, musicologo e antropologo dell'Università di Lecce e direttore dell'Istituto "Diego Carpitella", riesaminando la copiosa letteratura prodotta sul tema del tarantismo all'indomani della celebre Terra del rimorso, mette a confronto gli imprescindibili approdi dell'esperienza demartiniana e le improrogabili istanze di superamento della ricerca tradizionale. Ne scaturisce un vero e proprio documento programmatico della nuova stagione di studi sul fenomeno inauguratasi negli anni '90. Maria Rosaria Tamblé, funzionaria dell'Archivio di Stato di Lecce e componente la Società di Storia Patria per la Puglia, riporta alla luce due importanti vicende processuali dei secoli XVII e XVIII contro tarantati ed esercenti le arti magiche tratte da quella ricca miniera che sono i fondi documentali dei vescovadi salentini. Le 'storie notturne' di Caterina 'la Greca' e di Francesco da Casalnuovo, ripropongono il tema del tarantismo entro un contesto ritenuto finora ad esso estraneo quale quello della possessione e della stregoneria.

per chi è interessato all'argomento consigliamo di seguire la pagina curata dalla Libreria Neapolis

martedì 26 agosto 2008

Cilento, alla scoperta dei musei della civiltà contadina

CAMPANIA - Cilento, alla scoperta dei musei della civiltà contadina
ANGELO GUZZO
18/08/2008 IL MATTINO

Una fuga verso la collina, lontano dal formicaio delle spiagge, rinfrescati dall'aria frizzante e balsamica dei monti del Cilento, alla scoperta dei musei della civiltà contadina.

Un itinerario tra storia, tradizioni e cultura popolare, da prendere in seria considerazione quando la costa è presa d'assalto, gli spazi si fanno angusti e il caldo diventa insopportabile. Il viaggio alternativo in questo estremo lembo meridionale della provincia di Salerno conserva un fascino del tutto particolare, unendo in uno straordinario mix stralci di vita quotidiana di un tempo, testimonianze degli antichi mestieri, atmosfere e suggestioni perdute. Iniziamo da Moio, alle pendici del monte Civitella, nel cuore antico del Cilento. Il Museo, sorto nel 1980, ha sede nei locali, appositamente ristrutturati, dell'ex Convento di San Francesco, nella frazione Pellare. La raccolta del ricco materiale, frutto del certosino, pluridecennale lavoro di ricerca del professor Giuseppe Stifano, documenta le trasformazioni della vita e del lavoro rurale sul territorio. Di particolare interesse la sezione enologica che, con la presenza di attrezzi e utensili, quali torchi in pietra e in legno, botti, cesti e un carro per il trasporto del vino ai porti della costa, testimonia come la viticoltura abbia svolto un ruolo trainante nell'economia locale. Il vino di Moio, noto già ai Romani, veniva molto apprezzato anche alla Corte di Napoli. Enorme interesse riveste il Museo della civiltà contadina di Ortodonico, frazione di Montecorice. Istituito da un'associazione culturale locale, sorge nel centro storico del borgo ed ha sede in una torre del palazzo marchesale degli Amoresano, risalente al XVI secolo. Tra i reperti più interessanti due vecchi frantoi, completamente in legno, per la molitura delle olive e la produzione dell'olio, specialità della zona. Di recente istituzione è il Museo di Rossigno Vecchia - paese abbandonato di incredibile suggestione - il cui scopo, per la singolarità di appartenere ad un "Borgo Museo", è di favorire la conoscenza e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali della "Pompei del Cilento", oltre che di documentarne storia, cultura e civiltà. Sorto nel 1976 come Museo agro-silvo-pastorale della civiltà contadina, il Museo di Morigerati, raccolto borgo interno del Golfo di Policastro, ha assunto oggi la denominazione di Museo Etnografico.

In arrivo disegno di legge per musica folkioristica e corale

In arrivo disegno di legge per musica folkioristica e corale
il manifesto, 22-08-2008


II Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Sandro Bondi, ha incaricato il professor Antonio Corsi «di monitorare per conto dei ministero le iniziative riguardanti la bande musicali, le corali, i gruppi folklorici e i vari gruppi di musica popolare». In un successivo comunicato li ministero ha chiarito che «Si tratta di realtà che rivestono un ruolo importante nella nostra società e contribuiscono in modo determinante alla diffusione della conoscenza e della pratica della musicale tradizionale e degli strumenti a fiato e a percussione». In particolare Corsi infornerà «gli enti locali e i gruppi musicali popolari sull’iter del disegno di legge relativo a ‘Promozione, sostegno e valorizzazione alla musica popolare, bandistica, folkloristica e corale’ che il Ministro Bondi intende presentare in uno dei prossimi Consigli dei Ministri». L’ultima legge-quadro italiana dedicata alla musica risale al 1967 e si occupava principalmente delle istituzioni lirico-sinfoniche. Nelle scorse legislature sono stati presentati invano diversi progetti (Melandri, Folena, Veltroni, ecc.).

martedì 22 luglio 2008

Miti e leggende in laguna

Miti e leggende in laguna

la tribuna di Treviso — 19 novembre 2007 pagina 41 sezione: SPETTACOLO

Ora languida e suadente cortigiana, ora potente macchina da guerra imperialista, ora colta e raffinata oasi di libertà, ora dimessa e impolverata area urbana ripudiata dal modernismo, Venezia è la mitica città che non ha mai finito di crearsi e ricrearsi nel tempo, profondendo innumerevoli immagini di sé. Del resto è una città unica al mondo, una città che galleggia, che si alza e che si abbassa con il crescere e il calare della marea. Da questa unicità ha tratto linfa una miriade di storie e leggende fantastiche, a volte basate su fatti reali reinterpretati nei secoli, a volte frutto di pura immaginazione, che riguardano un po’ tutti gli aspetti della vita lagunare: le origini, i simboli, i maggiori personaggi, le chiese, i palazzi, i ponti, le isole e i litorali.
Tutti questi racconti sono riportati con fedeltà storica e dovizia di particolari nel nuovo libro di Marcello Brusegan, bibliotecario della Marciana e già autore di numerosi altri volumi di storia e tradizione veneziana.
Il libro narra le antiche credenze nate intorno a fatti ed edifici storici e le leggende metropolitane fiorite da episodi di cronaca del passato remoto e di quello più recente. Brusegan riporta con precisione le testimonianze dei documenti e non lesina qualche ironico ma sempre garbato commento sulla città di ieri e quella di oggi.
Sfogliare le pagine del volume di Brusegan significa immergersi nella storia della città, delle sue calli, dei suoi ponti e delle sue isole e incontrare tra le centinaia di curiosità il menù del banchetto per la festa della Sensa offerto dal Doge (fette di pan di Spagna, naranze garbe, pollastre allesse, colombini rosti...), accanto a tappeti naviganti; cortigiane e dogaresse; le streghe delle Fondamenta Nove e i fantasmi dei campielli; il santo che non esiste (Trovaso) e l’angelo degli innamorati (Raffaele); i relitti che affiorano in Laguna e le sampierote.
E il libro di Brusegan cattura i veneziani che vogliono conservare la memoria della loro città così come i visitatori “foresti” che cercano itinerari inconsueti e informazioni non turistiche. A questi ultimi sembra dedicata l’etimologia del toponimo Venezia secondo «un antico e anonimo quanto dotto scrittore veneziano»: dal latino veni etiam, torna ancora.
Marcello Brusegan, «Miti e leggende di Venezia» Newton Compton, pagg 325 con illustrazioni, euro 20

martedì 15 luglio 2008

La Ghertelina leggenda sempre amata

Il Giornale di Vicenza, Martedì 15 Luglio 2008

TEATRO/2. A CANOVE APPLAUSI CONVINTI
La Ghertelina leggenda sempre amata
Ottimo il lavoro allestito da Theama Teatro

Gerardo Rigoni
ROANA
«Guarda che bella luna, guarda che cielo azzurro, nemmeno un fil di vento, che tranquillità». Sulle note della canzone delle “beate donnette” di Pierangelo Tamiozzo, che ha chiuso “La leggenda della Ghertelina”, in scena domenica sera al teatro parrocchiale di Canove di Roana, è partito un fragoroso applauso dal pubblico che gremiva la sala.
Un applauso sentito, a conferma dell'ottimo lavoro svolto dalla compagnia teatrale Theama Teatro di Vicenza nel mettere in scena una delle fiabe cimbre più amate e conosciute, quella che racconta la storia di Ghertelina, fanciulla dalla voce magica che, finché cantava, teneva lontani coloro che si inoltravano nella valle con cattivi pensieri. Un giorno però Jekele, un giovane suonatore di liuto, fece innamorare la fanciulla che, vinta dall'amore, interruppe il suo canto lasciando l'Altopiano alla mercé di invasori dal nord. Da allora l'Altopiano non ha più conosciuto pace e ha dovuto difendersi con le proprie forze; forse, un giorno, il frutto dell'amore tra Ghertelina e Jekele tornerà nella valle e l'Altopiano sarà nuovamente sereno.
La rappresentazione teatrale di Piergiorgio Piccoli e David Conati, con la collaborazione alla regia di Adriano Marcolini, a causa del maltempo è stata allestita nel teatro di Canove anziché nell’anfiteatro naturale del Bisele, ma ha comunque trasmesso al pubblico il significato della fiaba: il rispetto dell'ambiente e dei sentimenti, la necessità di proseguire nonostante le avversità. Manuela Padoan nelle vesti di Ghertelina ha affascinato con la sua grazia e una voce che sembrava provenisse proprio dal mondo magico delle leggende, accompagnata benissimo nelle canzoni da Andrea Ortese, Jekele, e dall'Evelyn interpretato da Samuele Giovagnini. Divertenti Laura Milan nella parte della strega e Mara Pessato in quella del folletto, alle prese con Daniele Berardi nei panni di Xyphor, così come azzeccati gli intermezzi di danza di Giorgio Marcolini nell'interpretare il vento, la magia, il sentimento.
Ottime le scenografie con proiezioni di disegni di Paola Martello, studiosa delle leggende cimbre, così come l'abbinamento delle musiche di Tamiozzo suonate sul liuto da Ilaria Fantin. Un successo che alcuni vorrebbero fosse riproposto magari nella prossima stagione turistica invernale, forse sperando che torni il canto della Ghertelina per difendere nuovamente l'Altopiano dalle persone con cattivi pensieri nel cuore.

Dalla ricerca d’archivio riemerge la storia della chiesa fantasma

BresciaOggi, Martedì 15 Luglio 2008

Dalla ricerca d’archivio riemerge la storia della chiesa fantasma

Non sarà il sacro Graal, ma diversamente dal mitico boccale, è un monumento sulla cui leggenda si è fatta definitivamente chiarezza, restituendo alla comunità di Castelcovati un’identità e una certezza su cui si era a lungo fantasticato.
STIAMO PARLANDO della chiesetta di Santa Maria delle Nuvole che già nel nome conserva il mix di culto e magia capace di ricondurre la memoria al primo Ottocento. Un’epoca nella quale sono nate le ultime storie, gli ultimi racconti di una tradizione orale che si è tramandata sino ad oggi, senza tuttavia lasciare alcun riferimento certo sulla sua collocazione.
Già perché con il suo abbattimento nulla si seppe più di quella chiesa e della sua posizione, se non fosse stato per Sergio Onger, docente di Studi sociali all’Università di Brescia, che a furia di ricerche è riuscito a rintracciare il luogo in cui sorgeva la sacra costruzione, rinvenendo una mappa censuaria del 1839 ma soprattutto, ironia della sorte, la planimetria redatta dall’ingegner Lorenzo Ridolo nel 1940 in occasione della sua demolizione. Oggi si sa dunque che quella costruzione si trovava nella località campestre di via Comezzano, a pochi metri dalla cascina Santa Maria. La chiesa era il «luogo ameno» per eccellenza della comunità che qui, in occasione della festa di Sant’Alberto, si radunava in festeggiamenti che spesso andavano sopra le righe.
«LA CHIESA, il campanile e la sacrestia – ricorda Onger – vennero rasi al suolo nel 1841 dall’impresario Pietro Cattori che aveva il compito di ristrutturare la cascina detta Fienile delle Nuvole, ancora oggi esistente in via Comezzano e riattata proprio grazie ai mattoni ricavati dalla demolizione della chiesa».
Rovistando tra gli archivi, Onger ha ricostruito la storia di una chiesa amata da tutti e da nessuno, visto che gli stessi parroci dell’epoca lo consideravano un luogo di culto con troppi risvolti «mondani». Un giudizio sicuramente condizionato dal fatto che la proprietà della chiesa non era della parrocchia, bensì dell’ordine degli olivetani di Rodengo Saiano, prima di essere ceduta alla Casa di Dio di Brescia. Ma anche negli ultimi anni di vita Santa Maria delle Nuvole fu invisa ai parroci che, dopo il trasferimento della statua di S. Alberto, plaudirono, alla decisione di abbatterla presa dai proprietari. M.MA.

Sfida tra fiabe del bosco

Il Gazzettino, 15 luglio 2008
AVIANO Il Concorso. Iscrizioni entro il 24 agosto
Sfida tra fiabe del bosco
Aviano

(F.G.) Ritorna ad Aviano per gli amanti delle storie di fantasia il Concorso letterario Favole nel bosco, dedicato all'ambiente di Piancavallo e delle Dolomiti Friulane. La proposta è della Biblioteca, che ha previsto come titolo per quest'anno Storie di legno, ovvero storie di alberi scolpiti, parlanti e magici, di specie presenti nella zona. Ampia libertà di inventiva e poetica per i partecipanti, che dovranno ambientare la storia nel territorio delle montagne del Pordenonese, con precisi riferimenti ai luoghi di ambientazione. Giunto alla quinta edizione, il concorso ha l'obiettivo di riavvicinare grandi e piccini alla natura del territorio, attraverso la scrittura. La partecipazione è gratuita ed aperta a tutti: grandi e bambini; una sezione è riservata ai ragazzini tra i 9 e i 14 anni, l'altra è per giovani e adulti, di età superiore ai 14 anni. Prosa, versi o entrambe le forme sono ammesse, e le storie possono anche essere illustrate o narrate nelle parlate del territorio montano pordenonese. I racconti inediti, che potranno ispirarsi a racconti e leggende propri della tradizione locale, dovranno essere consegnati alla Biblioteca civica di Aviano, entro domenica 24 agosto. Per informazioni e chiarimenti ci si può rivolgere a bcaviano@tin.it 0434/652492. Appuntamento con la premiazione, per tutti i partecipanti, domenica 7 settembre in Piancavallo, durante la festa di chiusura della stagione Ciao estate.

domenica 13 luglio 2008

Reggio Calabria, la città dei miti e delle leggende

Gazzetta del Sud, 13 luglio 2008
Tra cui quella della fata Morgana
Reggio Calabria, la città dei miti e delle leggende

Dora Anna Rocca
Reggio, terra di miti e di leggende. Un fenomeno unico al mondo che avvolse di mistero la città è quello che fu creduto dagli antichi opera della fata Morgana, la regina tra le streghe dei poemi cavallereschi. Nelle prime ore del mattino, in determinate condizioni, ad uno spettatore che si trova sulla costa reggina e guarda la riva opposta della Sicilia, potrebbe capitare di osservare per poco tempo, come se fossero molto ravvicinate, immagini in movimento della sponda opposta, pur se si trovano a notevole distanza. Quando le immagini appaiono semplici e dritte il fenomeno è detto Fata Morgana semplice; quando si ha una visione di immagini multiple o in concorrenza con oggetti reali o confusi con essi in piani diversi, si parla di Fata Morgana multipla. Scrisse Antonio Varano nelle sue Visioni:«In questo pel chiaror cristallo fido tante immagini vidi io, che all'alma parve che l'occhio fosse in presentarle infido». Ad osservare il fenomeno fu anche Padre Angelucci nell'agosto del 1643 che in "Ars magica luci set umbrae", X, una lettera citata da padre Kirkerii, descrive con incanto ciò che vide:«Il mare che bagna la Sicilia, si gonfiò e diventò per diecimiglia circa di lunghezza come una spina di montagna nera; e questo della Calabria spianò, e comparve un momento un cristallo chiarissimo e trasparente che pareva uno specchio, [.] In questo specchio comparve subito di color chiaroscuro una fila di più di diecimila pilastri di eguale larghezza ed altezza, tutti equidistanti [.] Questa è quella fata Morgana che 26 anni fa ho stimato inverosimile, ed ora ho visto vera e più bella di quella che mi si dipinse». Anche Ippolito Pindemonte così scrisse nel racconto a Temira:«E sul mare e nell'aria ordin fuggente di colonne con archi e dense torri e castella e pelagi a cento a cento, l'uno appo all'altro, e l'uno all'altro imposto: poi la scena mutando.». Racconta una leggenda probabilmente d'età normanna che durante un'incursione di Barbari il loro re, guardò dalla costa ionica la sponda opposta e vide un'isola incantevole con spiagge coperte di aranci e di ulivi, con un gran monte fumante – l'Etna – e una terra ubertosa, pensò di raggiungerla, d'un tratto vide una fanciulla che gli indicava la strada per entrare in Sicilia ma egli perì miseramente nelle acque dello Stretto. Questa fanciulla era Fata Morgana. Il fenomeno, unico al mondo, potrebbe confondersi con il miraggio che si verifica nei deserti o in pieno oceano, in realtà anche se si tratta di un fenomeno ottico è dovuto a cause concomitanti: ai vapori cristallini che funzionando da lenti, a guisa di diaframma si dispongono fra le due rive, alla speciale configurazione topografica di Reggio e dello stretto, alle maree e al soffio dei venti. La concorrenza di tanti fattori determina un fenomeno unico al mondo. Oggi sul lungomare di Reggio Calabria è posta una statua ispirata alla leggenda della fata Morgana, costruita con materiale che cambia colore con la luce del sole.

Processo alla strega e leggende Theama indossa l’abito cimbro

Il Giornale di Vicenza, Domenica 13 Luglio 2008
FESTIVAL. SIGNIFICATIVA PARTECIPAZIONE DELLA COMPAGINE TEATRALE ALL’ORIGINALE “HOGA ZAIT” IN ALTOPIANO
Processo alla strega e leggende Theama indossa l’abito cimbro
Doppio appuntamento oggi con Piccoli & C.

ROANA
Notevole impegno per la vicentina Theama Teatro nell'ambito di "Hoga Zait", il festival cimbro che fino al 20 luglio terrà la sua terza edizione tra Roana e altre località dell'Altopiano di Asiago.
Doppio appuntamento oggi a Canove di Roana. Alle 17, in piazza San Marco, "Processo alla strega", lettura scenica realizzata attraverso la rielaborazione di testi originali e degli atti processuali dell'Inquisizione contro la stregoneria tra il '400 e il '500. Sulla scena saranno impegnati gli attori di Theama Piergiorgio Piccoli, Anna Zago, Ester Mannato e Aristide Genovese. Questa lettura è un breve assaggio dello spettacolo "Ad Ludum Vocata", che andrà in scena integralmente a Gallio martedì 5 agosto alle 21 e sarà accompagnato dalle musiche eseguite dal vivo dai Fondaco dei Suoni. "Processo alla strega" trasporta il pubblico in un mondo parallelo ricco di suggestione e di mistero, a metà strada tra la fantasia e la realtà di tradizioni e saperi antichi: saranno così svelati gli incantesimi per scatenare le tempeste nel cielo e la passione nei cuori, per guarire i mali e accrescere i raccolti.
Sempre oggi, alle 21, prima rappresentazione de "La Ghertelina", rielaborazione, curata da Piergiorgio Piccoli (che firma la regia con Adriano Marcolini) e da David Conati, di una leggenda popolare dell'Altopiano che racconta di una fanciulla dai magici poteri e dal bellissimo canto, regina dei fiori e custode dei buoni sentimenti, figlia del sole e della luna, portatrice di bellezza e letizia ma costretta a nascondersi agli occhi degli uomini. Un giovane suonatore di liuto, però, la farà innamorare: vinta dall'amore, la giovane interromperà il suo canto, rischiando di portare alla distruzione il suo coloratissimo regno. Sul palcoscenico Manuela Padovan, Samuele Giovagnini, Mara Pessato, Daniele Berardi, Laura Milan, Andrea Ortese e Giorgio Marcolini. Musica composta ed eseguita dal vivo da Pierangelo Tamiozzo. L'appuntamento è alla Schaff Kùgela, in località Bisele, in un incantevole anfiteatro naturale.
Nei giorni scorsi, intanto, al Bostel di Rotzo si è tenuta la "prima" de "L'Occhio di Ymer", messinscena che ha impegnato gli allievi della scuola di teatro promossa dal Comune di Roana, organizzata dal gruppo I Lacharen di Roana e tenuta dagli insegnanti di Theama. L'allestimento nasce da un racconto di ispirazione cimbra scritto da Paola Martello, la cui rielaborazione scenica è stata curata da Piergiorgio Piccoli, Paolo Corsi, David Conati e Antonella Vellar. La vicenda trasporta il pubblico nel magico regno della Regina Idra, sconvolto dal furto, da parte del malvagio elfo Nac, del prezioso talismano "Occhio di Ymer", la cui perdita comporta lo spezzarsi del ciclo delle stagioni e, di conseguenza, la distruzione del regno. Originale il risultato dello spettacolo.
Il direttore artistico dell'associazione vicentina, Piergiorgio Piccoli, ricopre un importante incarico organizzativo anche per questa nuova edizione del festival, oltre a vestire i divertenti panni del "Peldrik", lo scanzonato presentatore dell'evento, con tanto di mantello nero e cappello di feltro come da tradizione.

sabato 14 giugno 2008

Da Afrodite al noce di Benevento: Il Noce

MARINO NIOLA, da repubblica.it, giugno 2006
Da Afrodite al noce di Benevento: Il Noce

Non sdraiatevi all’ombra di un albero di noce, potrebbe essere pericoloso. Così almeno assicura Plinio che, nella sua Storia Naturale, attribuisce a questa bellissima pianta una energia soprannaturale. Divina, magica, prodigiosa.

L’immaginario indoeuropeo ha da sempre riconosciuto, e spesso divinizzato, i poteri straordinari di questo frutto e dell’albero da cui nasce.

A cominciare dall’antica Grecia, che fonda nel mito la credenza nelle virtù magiche delle noci. Che risalirebbero nientemeno che ad Artemide. La dea lunare, signora notturna dei boschi e delle linfe vegetali sarebbe stata, infatti, trasformata da Dioniso in un noce carico di frutti.

A Roma la noce diventa attributo di Diana, equivalente latina di Artemide. Ed è proprio dall’associazione con la dea romana che la reputazione del frutto si colora di quell’aura magico-stregonesca che non l’abbandonerà più.

Soprattutto da quando il cristianesimo trasforma gli antichi dei pagani in dèmoni. Da quel momento Diana diventa la regina delle streghe che, proprio in suo nome vengono soprannominate janare, corruzione popolare di Dianare.

Così il noce diventa il simbolo della stregoneria femminile. Secondo una credenza diffusa in tutta l’Europa medievale e moderna, le seguaci di Diana in certe notti dell’anno si riunivano sotto il noce di Benevento per celebrare il loro sabba infernale. Quello che oggi si chiamerebbe una convention mondiale della trasgressione e del desiderio : un trionfo dei sensi sfrenati, un rave party in salsa di noci.

Si riteneva che a capitanare la schiera delle femmine assatanate fosse Erodiade, la crudele concubina di Erode, quella che aveva voluto la testa di San Giovanni. E, neanche a farlo apposta, il sabba più speciale aveva luogo proprio la notte del santo decollato, nel momento più speciale dell’anno : al solstizio d’estate, quando la terra trasuda energia e le linfe vitali sprigionano una forza prodigiosa.

È la magica notte di mezza estate in cui, come diceva Shakespeare, al mondo « accadono cose strane ». Questo momento dell’anno, legato alla fertilità e alla forza generatrice della natura, non poteva che avere un segno femminile. E infatti la maggior parte dei riti della notte di San Giovanni avevano come protagoniste le donne, streghe o no : dalla preparazione di filtri d’amore alla previsione del futuro alla raccolta di erbe officinali e soprattutto delle noci impregnate della miracolosa rugiada della notte del Battista.

Si chiamano proprio noci di San Giovanni quelle che le donne colgono ancora verdi e cariche di succhi vitali per preparare infusi dai poteri quasi medicinali, come il nocino. E che una volta venivano lanciate agli sposi quale augurio di fecondità, prima di essere sostituite dal riso, forse meno magico ma certo meno contundente.

Quelle virtù tanto prodigiose una volta si spiegavano con la sacralità di Artemide, con la potenza di Diana, con la magia di San Giovanni. Oggi la dietetica moderna attribuisce, più laicamente, i benefici delle noci agli effetti vasodilatatori e antiarteriosclerotici del taumaturgico Omega-3. Formula magica della nostra stregoneria

MARINO NIOLA, da repubblica.it, giugno 2006

lunedì 2 giugno 2008

Saggezza e follia del narrare Teoria e pratica del contastorie

Jack Zipes
Saggezza e follia del narrare Teoria e pratica del contastorie
Valore Scuola, pp. 128 euro 12,00
Perché narrare storie? Sembra che gli esseri umani amino molto narrare, soprattutto fatti inventati, ma sembra che abbiano anche bisogno di ascoltare storie narrate da altri. Attraverso le storie l’umanità si è trasmessa esperienze millenarie, a volte utili anche alla propria sopravvivenza.
Sfruttando questo bisogno naturale l’industria culturale sta producendo un vero e proprio inquinamento narrativo attraverso diversi strumenti, dai videogiochi ai film agli spot pubblicitari.
È possibile riconoscere se una storia è autentica? Forse, risponde l’autore. Di certo una storia autentica trasmette emozioni, conoscenze, esperienze. Così l’ascoltatore e il lettore imparano a cogliere i piaceri e i pericoli della vita.
In un viaggio all’interno del narrare Zipes, in questo libro, propone la sua esperienza di contastorie con i bambini americani.
La saggezza della storia e la follia del contastorie possono produrre effetti straordinari e affascinanti.

Jack Zipes, uno studioso dell’Università del Minnesota, ha pubblicato, tra l’altro, una Encyclopedia of Children’s Literatur. In Italia è conosciuto soprattutto per il libro Chi ha paura dei Fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della sovversione (Mondadori, 2006)

venerdì 23 maggio 2008

Riprendiamo il discorso sull'abete ...

Il Gazzettino, 23 maggio 2008
Riprendiamo il discorso sull'abete ...
Riprendiamo il discorso sull'abete rosso, di cui abbiamo parlato nella puntata del lontano 1° agosto 2005 della rubrica Allora la brevità dello spazio a disposizione (anche se ci ha consentito comunque di presentare una "panoramica" generale sulla pianta) non ci ha tuttavia permesso di approfondire alcune tematiche fondamentali. Cerchiamo perciò di farlo ora, partendo da miti, leggende storia, legati alla pianta. Scrivevamo allora che l'abete rosso "sembra non avere una personalità mitica propria". E in effetti la gran parte dei miti pare riguardi indistintamente sia l'abete rosso che l'abete bianco. Anzi, a voler essere pignoli, rileggendo la ricca letteratura relativa alle due piante, possiamo affermare che un gran numero di studiosi con il termine "abete" intende indicare l'abete bianco. Per l'abete rosso usa invece il termine esplicito di "abete rosso" appunto o di peccio. Siamo andati allora a rileggere i miti più noti, partendo ovviamente da quelli dell'antica Grecia. Fra essi ci siamo soffermati in particolare su quello più celebre e conosciuto, ovvero quello della ninfa Elatè o Cenide, figlia di Corono (cioè "il corvo"). Innanzi tutto il termine "elatè". In greco, oltre alla divinità femminile Elatè appunto, esso indica anche l'abete o l'abete rosso. Ecco perché abbiamo deciso di trascriverlo (in sintesi ovviamente) riferito proprio a questa pianta. Elatè, protettrice delle donne partorienti e dei neonati, venerata come dea della luna nuova dai Lapiti (popolazione selvaggia della Tessaglia), veniva chiamata anche Kaineides, da "kainizo", ovvero "rinnovare, portare cose nuove". La mitologia ne ha serbato traccia sotto forma di una curiosa storia che Ovidio pone in bocca a Nestore, che, vecchio di duecento anni all'epoca della guerra di Troia, ne sarebbe stato testimone (il che la fa risalire dunque ai tempi eroici).

Un giorno la ninfa Kaineìdes (Cenide) fu posseduta da Poseidone che, soddisfatto, le chiese cosa desiderasse come dono d'amore. "Trasformami in un guerriero invincibile, sono stanca di essere donna", fu la sua risposta. Diventò così Kaineùs (Ceneo), che guidò i Lapiti più volte alla vittoria, fino ad essere proclamato loro re. Ma il potere lo inorgoglì a tal punto che egli piantò la sua lancia (l'abete) nel centro della piazza del mercato e ingiunse al popolo di adorarla e di non avere altro dio all'infuori di essa. Zeus, irritato da tanta presunzione, incitò i Centauri (nemici dei Lapiti) ad assassinarlo. Durante le nozze di Piritoo, Kaineùs assalito si difese, uccidendone facilmente cinque o sei senza subire un graffio, poiché le armi degli assalitori scivolavano sulla sua pelle invulnerabile. Dopo un attimo di sconcerto i Centauri superstiti, ispirati da Zeus, comprendendo che Kaineùs poteva morire solo mediante gli alberi, cambiarono tattica e lo percossero sul capo con tronchi di abete fino a stenderlo a terra, per poi ricoprirlo con una catasta di altri tronchi e soffocarlo. Fu allora che un uccello grigio si levò dalla catasta. Mopso l'indovino, presente all'evento, disse di aver riconosciuto in quell'uccello l'anima di Kaineùs. Al termine delle esequie il corpo aveva riacquistato sembianze femminili.

Il mito adombra probabilmente un rito in onore della Grande Madre che doveva consistere nell'innalzamento di un abete nella piazza del mercato e in una cerimonia rituale in cui uomini nudi, armati di magli, percuotevano sul capo un'effigie della Madre Terra per liberare lo spirito dell'anno nuovo.

Dopo questo mito, veniamo a una leggenda riferita sicuramente, senza bisogno di interpretazioni, all'abete rosso. Siamo in Valtournenche, in Val d'Aosta, in tempi ovviamente più vicini a noi.

Un tempo gli abeti - narra la leggenda - non erano dei sempreverdi e quando giungeva l'autunno perdevano le foglie come tutti gli altri alberi.

In Valtournenche viveva un grande abete i cui rami ospitavano ogni anno i nidi degli uccelli che vi trovavano protezione fino all'arrivo dell'autunno.

Un anno uno di loro si ferì ad un'ala e non potè seguire lo stormo che, come sempre, all'arrivo dei primi freddi, migrava verso paesi più caldi.

Il povero uccellino andava incontro ad un triste destino perché al cadere delle foglie sarebbe morto di freddo. Ma l'abete era robusto e voleva salvare il suo amico a tutti i costi. Il vento cercava in tutte le maniere di portargli via le foglie, ma il grande albero riuscì a resistere fino all'arrivo dell'inverno.

Stupitosi di vedere un albero ancora verde in mezzo ad una distesa bianca, l'inverno chiese spiegazioni all'uccellino che, grazie agli sforzi dell'abete, era riuscito a sopravvivere.

Colpito dalla generosità del grande albero, per ringraziarlo della sua bontà d'animo, gli promise che il vento non avrebbe mai più staccato il suo fogliame.

Questa leggenda ci spinge a una constatazione.

Candido e silenzioso, l'inverno si posa come un manto su gli ombrosi boschi di montagna. Le conifere, mosse dall'aria gelida,ondeggiano all'apice e soffici fiocchi di neve discendono delicati, come piccoli sogni sospinti dall'alto respiro ad incantare la terra.

La natura dorme... la vita si assopisce... gli abeti, invece, "vegliano"!

Nel cuore dell'inverno (mentre moltissimi alberi si spogliano e sembra stiano morendo) l'abete conserva il suo verde intenso, i suoi aghi e la sua chioma folta e resistente. Questa sua caratteristica, simile a quella degli altri sempreverdi, fu interpretata dagli antichi come simbolo di immortalità, di vita pulsante che perdura immutata al di là dei cicli d'esistenza sulla terra; al di là del sonno e del risveglio che si susseguono incessanti.

L'abete è simbolicamente legato al solstizio invernale, poiché esso richiama la rigenerazione profonda, lo sbocciare della vita luminosa nel centro dell'oscurità, e quindi la nascita del Fanciullo divino, del Sole lucente, il cui cammino di discesa nelle profondità della terra si conclude nella notte più lunga dell'anno e quello di emersione ha inizio, in concomitanza con l'allungarsi della durata delle giornate.

E siamo così arrivati alle credenze dei popoli germani e dei Celti.

(1 - continua)

A cura dell'Associazione Forestali d'Italia

e della Direzione centrale per le risorse agricole, forestali, naturali e montagna

della regione Friuli Venezia Giulia

domenica 11 maggio 2008

PALERMO: Duecento tesori verdi da salvare ecco tutti gli alberi monumentali

PALERMO: Duecento tesori verdi da salvare ecco tutti gli alberi monumentali
LAURA NOBILE
Repubblica Palermo 29-OTT-2006

Presentato da Legambiente il censimento del patrimonio inserito nell'albo regionale

A SETTEMBRE dell'anno scorso erano una sessantina, adesso gli "alberi monumentali" segnalati da Legambiente Sicilia sono diventati duecento. Esemplari vetusti, veri e propri "patriarchi verdi" custodi di storie e leggende da tramandare, o esemplari che ormai rappresentano un simbolo, di un luogo o di un'identità, come nel caso dell'"albero Falcone" di via Notarbartolo.
Con questa finalità, in collaborazione col parco delle Madonie, è nato tre anni fa il progetto "Monumenti della natura", dedicato a un patrimonio tutto siciliano da conoscere e valorizzare, alla stessa stregua dei suoi beni storico — artistici o architettonici.
Il primo obiettivo raggiunto, un anno fa, fu l'istituzione da parte dell'assessorato regionale ai Beni culturali, dell'Albo delle piante monumentali. Ma la campagna lanciata da Legambiente per raccogliere segnalazioni è andata avanti, ampliando la lista con altri 140 alberi monumentali.
Ieri mattina, durante la prima tappa palermitana di "Salvalarte Sicilia 2006", il responsabile per i beni culturali dell'associazione Gianfranco Zanna ha presentato la Carta degli alberi monumentali. «In questa fase, la carta è uno strumento di divulgazione — ha detto Zanna — e servirà a fornire tutte le informazioni alle diverse Soprintendenze, per le valutazioni necessaire all'inserimento dei nuovo alberi nell'albo». Tra le new entry della Carta ci sono i "platani di Goethe", sotto i quali a Villa Giulia lo scrittore si soffermò. Ha dimensioni eccezionali, il leccio di contrada torre Montaspro a Isnello, la cui età stimata è tra gli 800 e i 900 anni, e la cui circonferenza al suolo è di undici metri e venti. Ha "solo" 400 anni, invece, ed è in buone condizioni vegetative la quercia roverella incastonata nell'area del castello della Pietra, a Castelvetrano e ha la stessa età la roverella di contrada Muti a Chiaramonte Gulfi, legata a un'antica leggenda.
Ieri mattina, alla presenza del presidente dell'Ars Gianfranco Miccichè, Zanna ha anche lanciato la proposta, subito accolta, di una legge ad hoc per dotare dì risorse finanziarie il progetto di tutela degli alberi monumentali, visto che alcuni alberi si trovano in aree di parchi o riserve, ma molti sono nei centri abitati, in ville privati, o isolati in totale abbandono. La legge dovrebbe prevedere una tabellazione degli alberi, monitoraggi sullo stato di salute, quando necessario trattamenti di bonifica e di manutenzione, e la scheda con la storia della piante e le eventuali leggende collegate.

sabato 10 maggio 2008

I pupi in vendita. «Patrimonio da salvare»

I pupi in vendita. «Patrimonio da salvare»
Marco Romano
Giornale di Sicilia - Palermo 10/12/2006

I pupi di Anna Cuticchio? Quel patrimonio col prestigioso timbro Unesco - 150 marionette con contorno di cartel Ioni, scenografie, palchi, pianola meccanica e copioni intrisi di storia, che la fondatrice dell' indimenticato teatro Bradamante e oggi suora missionaria in Tanzania vuole vendere per sfamare i suoi bambini di Njololo, non lascia indifferenti Regione, Provincia e Comune. Tutti concordi sul fatto che va salva guardato, non va smembrato fra acquirenti privati o - peggio - spedito in qual che collezione oltre confine. E fin qui va bene. Il problema nasce però quando c'è da mettere le mani nelle casse e tirare fuori la somma necessaria per acquistare l'intero lotto: lì la dichiarazione d'interesse lascia spazio al diplomatico politichese che si traduce in un sostanziale «non abbiamo un euro». E di euro in realtà ne servirebbero tanti, anche se forse non tantissimi: Anna Cuticchio/suor Marina non lo dice formalmente, ma stima il valore di pupi e accessori intorno al milione e 300mila euro circa. Cifra di partenza, certo, per qualunque trattativa con l'ente pubblico più interessato, chè a uno di essi la Cuticchio vorrebbe consegnare le sue creature, le più preziose delle quali hanno già scavalcato il secolo di vita. Insomma, parliamone ma neanche tanto: «Il Comune al momento - spiega il sindaco Diego Cammarata - non ha risorse disponibili per l'eventuale acquisizione. Siamo ben consapevoli - però che si tratta di un patrimonio culturale di rilievo che non può andare disperso. L'assessore alla Cultura, Tommaso Romano, ha già inviato una lettera al ministro Rutelli per chiedergli strumenti e risorse per un eventuale intervento. Il Comune naturalmente è disponibile a confrontarsi con Provincia e Regione per verificare l'esistenza di percorsi condivisi in grado di condurre ad un risultato positivo». Sulla stessa lunghezza d'onda il presidente della Provincia, Francesco Musotto: «Giusto non smembrare quel grande patrimonio di cultura e tradizione -dice l'europarlamentare forzista - ma oltre al problema economico per noi esiste anche quello logistico. Sarebbe più adatta un'istituzione museale, magari lo stesso museo delle marionette. In tal senso, un intervento diretto della Regione potrebbe essere più opportuno». E la Regione? Stesso binario: «Un patrimonio di 150 pupi siciliani e di tutto quanto serve alla messa in scena dell'opera - premette il vicepresidente e assessore ai Beni culturali, Lino Leanza - è un patrimonio che non può essere disperso, perché fa parte della nostra identità. Il teatro dei pupi è un bene immateriale posto sotto la tutela dell'Unesco, un riconoscimento ulteriore a un mondo che, pur portando avanti un desiderio di crescita e innovazione, mantiene viva la tradizione, e un impegno a mantenerlo compatto». E dunque? «La richiesta di Anna Cuticchio non deve cadere inascoltata: credo che la Regione e le altre istituzioni - dice Leanza - debbano intervenire in questa vicenda, rilevando e trovando insieme una collocazione adeguata alla collezione della pupara siciliana che, tra l'altro, vuole destinare il denaro ricavato a una nobile causa come quella di aiutare i bambini africani». Dichiarazioni d'intenti. Basteranno?

Aidonesi alla riscoperta delle radici. E per Morgantina ci si veste da greci

Aidonesi alla riscoperta delle radici. E per Morgantina ci si veste da greci
Zagara Palermo
Giornale di Sicilia, Enna, 19/12/2006

La manifestazione per la Venere. Impegno dei politici, ma anche gente comune che ha a cuore la valorizzazione del territorio. Striscioni di protesta per i furti d'arte

AIDONE. Ha avuto un esito molto positivo l'evento tenutosi domenica Aidone. L'incontro, che doveva svolgersi nel silo archeologico di Morgantina, a causa dalla pioggia e della nebbia, ha costretto tutti al riparo, la sede del comune di Aidone è sembrata dunque lo scenario più adatto all'evento. Erano presenti molte autorità politiche, tra cui anche l'Assessore Regionale ai Beni Culturali, Lenza, che si è impegnato personalmente alla riuscita di questo evento, ma soprattutto erano presenti centinaia di cittadini aidonesi, che si sono prodigati al fine di dimostrare che ci tengono a promuovere e valorizzare il loro territorio. All'ingresso del Comune, l'Archeoclub di Aidone ha distribuito volantini informativi. Sulla scalinata che porta alla sala consiliare, dove si è svolta la conferenza, un gruppo di cittadini ha indossato gli abiti greci, vi erano alcuni senatori e due donne greche, mentre le guardie con elmo, scudo e corazza in cuoio «vigilavano» sulle autorità politiche all'interno dell'aula consiliare. Gli abiti indossati sono quelli realizzati dall'Archeoclub Aidone per la manifestazione "Tra Mito e Storia: Morgantina rivive". Molti gli striscioni di protesta, realizzati dai giovani aidonesi, alcuni sicuramente molto forti come «il settimo comandamento dice: non rubare». Era ovviamente riferito ai numerosi furti di opere d'arte. Vi era esposta una riproduzione a grandezza reale della Ve-nere, realizzata per l'occasione dall'Associazione Pietre Vive. Numerosi quindi gli abitanti della cittadina che hanno voluto far sentire la loro voce su un argomento a cui tengono molto. Grande è la forza e la passione con cui trattano questi argomenti, sono convinti che la statua gli appartiene e non hanno intenzione di mollare la presa in alcun modo. «La Venere ci è stata portata via illegalmente. - ha dichiarato uno di loro - A noi cittadini non interessano le pratiche burocratiche, sappiamo solo che quella statua, come i 14 pezzi d'argento, gli aeroliti e molto altro ancora, ci appartengono ed è qui che dovranno risiedere. Non ci stiamo battendo per chissà che cosa, la statua è nostra, vogliamo solo che ritorni a casa. Un altro ha detto: «Non so cosa intendano loro per prove, ma io direi a questa gente di venire a trovarci, visitare il sito archeologico di Morgantina e il Museo di Aidone, solo allora potrebbero capire da dove viene veramente la Venere, e perché ci battiamo tanto per riaverla». Da evidenziare l'iniziativa del Sign. Baeli, che ha esposto sulla sua auto un'immagine tridimensionale della Venere, ad altezza reale, quindi 2,20 m, è partito dalla sua città, Messina, per toccare, durante il suo viaggio verso Aidone, molte piazze siciliane, tra cui Santa Teresa Riva, Taormina, Acireale, Catania, Paternò.

Unesco, è un tesoro il folklore d'Italia

Unesco, è un tesoro il folklore d'Italia
Maria Novella De Luca
la Repubblica 30/12/2006

ROMA — Raccontano il mondo sacro e il mondo profano, i riti, le feste, la musica e le canzoni. Raccontano i misteri della vita e della natura, le guerre, gli amori, le leggende, le storie di Dio e quelle degli uomini, il cibo, il raccolto, la nascita e la morte. Sono le tradizioni popolari, le rappresentazioni rituali, i dialetti ormai oscuri, le lingue dimenticare, quell'eredità “intangibile” e preziosa che Ernesto De Martino definiva “Mondo Magico” e che finalmente in ltalia sarà tutelato come patrimonio dell'umanità. Con la ratifica di due convenzioni Unesco, una sulla Diversità Culturale l'altra sui Beni Intangibili, alcuni tra gli esempi più alti del folklore italiano come il Canto a Tenores sardo o l'Opera dei Pupi Siciliani, il Palio di Siena o la festa dei Ceri di Gubbio, entreranno a far parte dell'elenco mondiale dei beni da proteggere. Con la particolarità che non si tratta di paesaggi e monumenti, ma di tesori che si tramandano con la voce, la memoria, il canto, la musica, «Il Senato — spiega Danielle Mazzonis, sottosegretario ai Beni Culturali — ha appena approvato all'unanimità la convezione sulla Diversità Culturale, un documento che impegnerà lo Stato a tutelare e quindi a finanziare le espressioni artistiche nazionali, dal cinema alla letteratura al teatro. Nelle prime settimane di gennaio, invece, inizierà la discussione sulla convenzione Unesco sui Beni Intangibili, ossia la grande tradizione dell'etnoantropologica italiana. Ratificata la convenzione si dovrà stilare la lista degli eventi da considerare patrimonio dell'umanità. Ma già oggi alcuni esempi di tradizione popolare sono inseriti in un lista mondiale dell'Unesco che ogni anno identifica pezzi di memoria collettiva da conservare e salvare dall'oblio». Tra questi, il famoso Canto a Tenores, l'espressione musicale tra le più arcaiche della Sardegna, in cui quattro cantori disposti a cerchio, (così come a cerchio erano costruiti i Nuraghe) compiono delle vere e proprie acrobazie musicali con il semplice uso della voce. Accanto al Tenores c'è ll Teatro dei Pupi siciliani, con quelle marionette uniche e decoratissime che ancora oggi rievocano l'Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata. Ma è probabile, sottolinea Mazzonis, che eventi come «il Palio di Siena o i Ceri di Gubbio, le rappresentazioni della Pasqua in Campania o la festa di Santa Rosalia entrino di diritto nella lista del patrimonio immateriale italiano». E parla di intervento fondamentale per salvare “l'archeologia vivente” Marino Niola, docente di Antropologia dei Simboli all'università Suor Orsola Benincasa di Napoli. «Pur essendo uno dei paesi più ricchi al mondo sul fronte delle tradizioni, noi arriviamo quasi ultimi nella tutela dei beni immateriali, se pensiamo che già da anni la Corea possiede il catalogo dei beni viventi, che classifica come “bene culturale” una famosa sciamana,.. In ogni caso la classificazione dell'Unesco avrà una ricaduta molto positiva nel restituire al folklore italiano la sua vera natura di “archeologia vivente”, non soltanto turistica e non soltanto da cartolina». Niola spiega però che ci sono molte zone d'Italia dove il “patrimonio immateriale” è assai più tutelato di quello materiale. «Penso ad alcune processioni del Sud, come i Flagellanti di Guardia Sanframondi o il pellegrinaggio al santuario della Madonna dell'Arco a Sant'Anastasia, dove non c'è famiglia, residente, ma ancor di più se emigrata, che non si tassi per mantenere riva la tradizione. Bendi più di quanto farebbero per salvare dal degrado un'area archeologica o un monumento».

In Italia
LE CONVENZIONI
L'Italia ha approvato ai Senato la convenzione Unesco sulle Diversità Culturali e approverà nei primi mesi del 2007 quella sui Beni lntangibili e Immateriali
LE TRADIZIONI
Le due convenzioni tutelano il patrimonio etnoantropologico italiano e mondiaie. Nella lista mondiale già figurano il Canto a Tenores e il teatro dei Pupi siciliani.
I CANDIDATI
Una volta approvata la convenzione gli uffici dell'Unesco stileranno la lista dei beni immateriali, feste, tradizioni, musiche da dichiarare patrimonio dell'umanità

Nel mondo
I PAESI
Sono circa 30 i Paesi che hanno ratificato la convenzioni sui Beni Immateriali, e molti quelli che già definiscono “beni culturail” le tradizioni popolari
LE REGOLE
Nel 2003 a Parigi l'Unesco ha tracciato le regole guida sulla tutela del patrimonio immateriale dell'Umanità e sulle Diversità Culturali
I RITI
Tra le tante tradizioni da proteggere e da salvare la Samba brasiliana, le rappresentazioni del Ramayana in India, il teatro Kabuki in Giappone

GLI ESEMPI
LA CORSA DELLE CONTRADE
La famosa e antica corsa dei cavalli e la disfida delle contrade è una delle feste storiche più importanti del mondo, e attrae ogni anno a Siena migliaia di turisti
LE VOCI DELLA SARDEGNA
Il Canto a Tenores sardo è una delle forme musicali più antiche della Sardegna. E' già stato inserito dall'Unesco nella lista dei Beni Intangibili
LA DANZA E LA TRANCE
La Taranta è una famosissima danza e musica pugliese oggi riscoperta e apprezzata in tuffo il mondo. Un ballo che poteva portare alla trance
TAMBURI E VESPRI
La festa dei Ceri di Gubbio si svolge a Ferragosto. I Ceri sono grandi macchine sulle quali sono issate le statue dei santi portate a spalla dai ceraioli del paese
SALVATI DALLA PESTE
La festa di Santa Rosalia si svolge a metà luglio a Palermo. Famosissima in tuffo il mondo, oggetto di enorme devozione, celebra la santa che salvò la città dalla peste
NEL GIORNO DELL’ASSUNTA
Ogni anno in agosto a Guardia Sanframondi, Benevento, si tiene la processione dei “Battenti”, uomini incappucciati che si percuotono con catenelle di ferro

domenica 4 maggio 2008

Tra lingue d´asfalto e siccità così resiste l´ultima transumanza

Tra lingue d´asfalto e siccità così resiste l´ultima transumanza
JENNER MELETTI
LUNEDÌ, 28 MAGGIO 2007, La Repubblica

Tre giorni di viaggio per portare 170 mucche a pascolare al fresco. Cercando i percorsi degli antichi "tratturi"

Dalla Puglia al Molise: "Migriamo, come le rondini"

PONTE civitate (foggia) - Sono agitate, le vacche, all´ombra della chiesa della Celeste Regina Maria Santissima del ponte. Anche gli uomini sono preoccupati. In piedi, come i loro cavalli, mangiano lasagne e pampanella, la carne di maiale cotta al forno con manciate di peperoncino. La caporala Castellana, la vacca anziana che guiderà la mandria, sa già che deve partire, perché le hanno messo al collo il campanaccio. Corre sotto gli alberi, guarda i campi, torna nel branco. Sembra cercare, nella sua memoria, la strada da seguire. Dietro di lei le altre anziane, con campanacci appena più piccoli. Poi le mucche e i vitelli che saranno la truppa di questo esercito di 170 animali che, fra pochi minuti, comincerà la transumanza. E´ l´unica rimasta in queste terre dove un tempo migliaia e migliaia di pecore e vacche partivano per andare al caldo prima dell´inverno e tornare in montagna quando il sole bruciava gli altopiani pugliesi. «Se metti i campanacci il giorno prima, le vacche spaccano il recinto e partono da sole».
Strana terra, questa, dove - come dice zi´ Nicola Colantuono, 71 anni, il più anziano dell´ultima famiglia transumante - «le mucche sono come le rondini, debbono migrare». Strana terra perché anche gli uomini e le donne che organizzano questo viaggio di tre giorni spaccandosi la schiena sui cavalli, potrebbero usare i camion e trasferire le bestie in tre ore. «Forse anche noi - dicono Carmelina, Felice, Antonio, Nunzio, Franco e zi´ Giuseppe, tutti Colantuono - come le nostre vacche abbiamo la tranzumanza nel Dna. Migrare è una cosa naturale. D´inverno noi e le nostre bestie stiamo bene in Puglia, e in estate viviamo al fresco delle montagne di Acquevive di Frosolone, in Molise. Le nostre vacche non hanno stalla: vivono all´aperto». Sono belle. Razza "podolica", portata qui dai Longobardi. Il viaggio non le spaventa. "Sanno" che dopo tre giorni troveranno gli altri pascoli, con l´erba e i fiori da mangiare.
Un fischio, tante grida, i cavalli spaventati dalle mucche che ancora non hanno infilato la strada giusta. Poi la caporala si mette in testa e le altre seguono il suono del suo campanaccio.
Non si faceva da cinque anni, la transumanza. Proibizioni e divieti delle autorità sanitarie, per evitare la diffusione della malattia ovina chiamata "lingua blu". Ma quest´anno i Colantuono hanno vinto la burocrazia e riportano le mucche sui tratturi aperti già dai Sanniti e tutelati dai Romani con una legge del 290 avanti Cristo. Salgono le colline, le mucche bianche. Scendono a bere al torrente Tona, poca acqua e molto fango. I tratturi erano le autostrade delle pecore e, dall´inizio del `900, delle vacche. Sulla carta esistono ancora (3.000 chilometri fra tratturi e tratturelli in Abruzzo, Molise, Puglia, Campania e Basilicata) e sarebbero tutelati da un decreto ministeriale del 1976 come "beni di notevole interesse per l´archeologia, la storia politica, militare, economica, sociale e culturale". Ma basta seguire le mucche dei Colantuono per incontrare ostacoli e sbarramenti. I tratturi, qui, sono arrivati prima delle case. I paesi sono nati attorno a queste autostrade degli animali, dove c´erano le chiese e i campi di sosta per bestie e pastori. Guardi la mappa e seguendo il tratturo ti trovi ad esempio nella strada principale di Santa Croce di Magliano. Passano qui, le vacche della mandria, davanti alla statua di padre Pio, poi si fermano in un piazzale accanto al cimitero. L´antico campo sosta è stato trasformato in parco comunale.
C´è una gerarchia precisa, nella transumanza. Prima si curano le vacche, poi i cavalli e infine gli umani. Carmelina Colantuono, per la prima cena, ha preparato anche la micisca, carne di pecora seccata al sole con finocchietto, rosmarino, aglio e pepe. Si fa "rinvenire" scaldandola accanto al fuoco. E´ il momento dei ricordi. Nonno Nicola portava una mandria di 500 vacche, e le conosceva una per una. Anche le mucche di oggi hanno un nome: Damigella, Pellegrina, Fronnanuova, Bellasposa. «La nostra famiglia ha iniziato la transumanza già nei primi del ‘900. Aveva due o tre mucche, e raccoglieva quelle degli altri contadini. Del resto, il primo transumante da Acquevive alla Puglia fu un pastore che aveva una sola mucca. Era il suo tesoro, la voleva trattare bene. Aveva anche un cane: era così piccolo che lo teneva nella bisaccia». Nella notte scopri che esiste una cultura che rispetta gli animali e vuole che siano felici. «Le nostre mucche, sempre libere di correre nei pascoli, ci danno solo 10 litri di latte al giorno, non i 40 o 50 di quelle chiuse nelle stalle del Nord. E, come dice zi´ Nicola, il latte non si vende. Serve ai vitelli, per crescere. Solo quello che avanza viene trasformato in caciocavallo. Saremmo ricchi, se piantassimo pomodori e granoturno nei nostri pascoli. Ma tradiremmo il nostro passato. Finirebbe anche la transumanza, che è un incontro con i paesi e con le persone. Il latte munto durante il viaggio viene regalato a chi viene a guardare le nostre vacche».
All´alba rimbombano sull´asfalto, nel corso principale di Santa Croce, gli zoccoli delle mucche che tornano al tratturo. Hanno sete, perchè l´ultima acqua l´hanno trovata nel torrente Tona. I tratturi sono quasi tutti coltivati ma gli animali hanno diritto di passaggio. E´ il secondo giorno di viaggio e le bestie, per la prima volta a memoria d´uomo, incontrano il dramma della siccità. Scese da una montagna, corrono verso il fiume Cigno e lo trovano asciutto Un´altra salita, un´altra discesa verso una sorgente che però è senz´acqua. «Questo inverno non è arrivata la neve e la falda si è abbassata». Le mucche possono morire se lasciate a lungo senza bere: quando trovano l´acqua, ne bevono troppa e crollano a terra. I Colantuono chiedono aiuto. «Siamo quelli della transumanza, abbiamo un´emergenza». I vigili del fuoco sarebbero pronti a intervenire, ma non hanno acqua potabile. La Protezione civile deve essere "allertata" dal Comune e il sindaco chiede una domanda scritta. Sono le 10 del mattino, le vacche sono esauste. Per fortuna un contadino mette a disposizione la sua acqua. La Protezione civile sarebbe arrivata alle 15.
Ultima notte di sosta prima a Castropignano. I tratturi portano verso il verde delle montagne. Ad Acquevive è già in forno la pasta per i cavalieri. Le mucche troveranno tutto ciò che serve nei pascoli. «Quando torno nel mio letto - dice Carmelina - per notti e notti sento ancora i campanacci della transumanza. Mi sembra una musica».

venerdì 2 maggio 2008

Due castelli immersi nelle leggende

Il Mattino, 01/05/2008
LA STORIA
Due castelli immersi nelle leggende
Sotto Castel dell’Ovo Virgilio depose un uovo per preservare la città da pestilenze e sventure

Due castelli, un lungo e intramontabile intreccio fra storia e mito. Castel Nuovo (Maschio Angioino) e Castel dell’Ovo, sono due dei principali manieri napoletani, e attorno ad essi sono fiorite antiche leggende. Il Castel Nuovo, meglio noto come Maschio Angioino, è uno dei simboli più rappresentativi di Napoli ed è tra i castelli più famosi d’Italia. Con la sua possente sagoma domina la scenografica Piazza Municipio, creando una cornice di indiscutibile fascino. La sua costruzione si deve a Carlo d'Angiò, capostipite della dinastia francese a Napoli, che, entrato in città dopo aver sgominato gli ultimi Svevi (prima Manfredi e qualche anno dopo il nipote Corradino) non avendo trovato una dimora adeguata a Castel Capuano (fatto edificare dai Normanni), decise di costruirsi una reggia fortificata sul mare. Morto Carlo d’Angiò la costruzione, già avviata, fu completata dal figlio Carlo II, detto lo Zoppo. Quell’originario castello fu però poi ampliato e modificato da Alfonso il Magnanimo, quando gli aragonesi, più di un secolo dopo, unificarono le corone di Napoli e della Sicilia. All’interno delle stanze del castello, quando era ancora sotto il dominio dei Durazzo d’Angiò, si celebrarono gli amori e gli onori della regina Giovanna. Anche Castel dell’Ovo vive tra storia e leggenda. Sull’antico isolotto di Megaride, che la leggenda indica come luogo di approdo del corpo della sirena Parthenope (che si era suicidata per non essere riuscita ad ammaliare Ulisse che passava con la sua imbarcazione davanti a l’isolotto Li Galli), sorge appunto il castello, uno dei manieri più antichi e suggestivi della città. Il castello lega il suo nome al mito sorto in epoca medioevale di un uovo magico capace di preservare la città e i suoi abitanti da sciagure e pericoli: Virgilio, il celebre cantore delle gesta di Enea, l’avrebbe nascosto in un luogo segreto del castello, protetto in una caraffa inserita in una gabbia. Grande poeta latino, Publio Virgilio Marone (70-19 avanti Cristo) in età medievale acquisì un alone leggendario: alla sua figura furono associati poteri magici ed esoterici. Virgilio mago e benefattore di Napoli, proprio perchè avrebbe collocato in un luogo segreto del castello l’uovo, da cui prese il nome. Quell’uovo ovviamente non si mai trovato, ma proprio per questo la leggenda continua.
l.z.

Alla scoperta dei monti Sibillini

Corriere Adriatico, 1 maggio 2008
Un volume prezioso perché segnala sentieri, località e avvenimenti persi nel mito leggendario
Un bel libro di Massimo Spagnoli, speleologo ed accompagnatore del Cai
Alla scoperta dei monti Sibillini

FERMO - Tra le tante e suggestive mète per una escursione sulle nostre splendide montagne, perchè non avventurarsi tra i “Sentieri e luoghi dimenticati dei monti Sibillini”? E’ questo il titolo del bel libro uscito in questi giorni, di Massimo Spagnoli accompagnatore di escursionismo del Cai, speleologo e coordinatore del Gruppo Cavità Artificiali di speleologia archeologica. Quasi 140 pagine in cui vengono minuziosamente descritti ben venti sentieri dell’Appennino centrale che Massimo Spagnoli ha cercato con successo di riscoprire e percorrere. “Sono andato alla scoperta – spiega Spagnoli – delle più antiche tracce dell’uomo. Su sentieri non più percorsi, con la passione per i monti Sibillini. Anche per chi li ha già attraversati in lungo e in largo.”

E il significato di questa opera è proprio nel fascino dell’esplorazione e della riscoperta di antiche vie su questi monti fatali perché nel nome dei Sibillini è racchiuso anche il mistero di antiche leggende. “Un volume prezioso – sottolinea Vincenzo Antonelli, studioso e cultore della montagna - perché segnala sentieri, località, avvenimenti persi nel mito leggendario, in una particolare e minuziosa ricerca storica. La lettura di questo volumetto è già di per sé particolarmente piacevole, perché stimola la fantasia e la voglia di ripercorrere sentieri dimenticati, di ritrovare attraverso un più stretto e consapevole contatto con la natura e con l’antico e moderno vivere dell’uomo.”

La trattazione di ciascun sentiero è accompagnata da suggestive fotografie, cartografie e precise illustrazioni che permettono di localizzare e visualizzare immediatamente il percorso. Si attraversa così il sentiero “delle piogge” tra le boscaglie a levante della Punta Ragnolo oltre la chiesa di San Liberato, o il sentiero di San Leonardo nelle imponenti gole dell’infernaccio. C’è il sentiero degli agrifogli, quello verderame, o ancora quello incantato del tempio della Sibilla, della Vaza dell’Orso, dello scoglio del miracolo, del sentiero Ramantico.

Un’opera utile, piacevole e originale, di interessante lettura che si discosta dai canoni delle consuete guide più o meno specialistiche.

Un’opera che vuole anche educare al rispetto e all’amore per la natura. Nell’introduzione l’autore ha voluto infatti la frase “Prenditi cura del tuo pianeta prima che i figli dei tuoi figli non possano godere delle meraviglie che ci circondano”. E in coda al libro Spagnoli ha voluto inserire alcune “variazioni sul tema”, dedicate alle energie rinnovabili, al geotermico e all`eolico, grande opportunità per la sopravvivenza del nostro pianeta

Il libro è stato pubblicato con il contributo del Club Alpino Italiano, sezione di Amandola con il patrocinio della sezione del Fermano di Italia Nostra , dall`Archeoclub di Fermo e da Eurosystem.

mercoledì 23 aprile 2008

Quando s'andava in processione da San Dordi contro peste e grandine

Il Gazzettino, 23 aprile 2008
LA RICORRENZA
Quando s'andava in processione da San Dordi contro peste e grandine
Nel Bellunese San Dordi (Giorgio) é titolare di 4 parrocchiali e di altre chiese minori. Leggenda vuole che S. Giorgio uccidesse con la lancia un terribile drago, simbolo del male. Così è effigiato ad esempio nella chiesa di S. Giovanni Battista di Libano di Sedico dove lo scorso anno è stato riscoperto un affresco attribuito all'artista del '500 Giovanni da Mel. S. Giorgio fu caro ai Longobardi che gli intitolarono diversi castelli in Valbelluna; la sua devozione giunse al culmine quando crociati feltrini portarono delle sue reliquie nel santuario di S. Vittore.

E' datata addirittura 882 la notizia della prima chiesa dedicata d S. Giorgio a Vezzano, presso Belluno. In comune di Sedico è l'isolata e alpestre chiesetta di Libàno a vantare tradizioni come la processione valligiana che, fino a 60 anni fa saliva lassù, a 1.300 m. di quota, per ottenere l'intercessione del santo contro grandine e siccità, nemiche mortali del raccolto. In cima si portavano anche i bimbi che non mangiavano formaggio, chiedendo al santo di liberarli da un problema che li privava d'un cibo diffuso e a buon mercato.

Caratteristica, a Sorriva, é la tradizionale "menestra de San Dordi". La peste del 1631, quella dei Promessi Sposi, anche lì causò tante vittime. Fidando in Dio, i paesani fecero voto di santificare le feste, digiunare nelle vigilie e fare vita veramente cristiana. Il voto, troppo oneroso, poi mutò, santificando il 23 aprile e offrendo alla chiesa un paliotto di cuoio raffigurante il Santo. A ciò si aggiunsero la processione votiva e la preparazione della minestra per i poveri fatta coi fagioli, curati e triturati, cotta in grandi paioli di rame. La festa si perpetua da allora la domenica successiva al 23 aprile e comprende la processione con i cappati che portano croci, torce e stendardo, la messa, la benedizione e la distribuzione della minestra preparata ogni anno da tre famiglie.

Giovanni Larese

Cadore, terra di storia, spesso sepolta.

Il Gazzettino, 23 aprile 2008

Cadore, terra di storia, spesso sepolta. Capace talora di riemergere offrendo conferme o solo suggerendo nuovi percorsi d'indagine. Vi si addentrano da un po' di tempo in qua gli attivi gruppi archeologici cadorini. Si parte sovente sulla scorta di leggende o immagini vive dalla tradizione popolare. Tra questi sta il mistero dell'antica Agonia. Se ne era interessato Cesare Vecellio, cugino e discepolo del grande pittore, nel suo "Degli Habiti antichi et moderni" (nella foto), edito a Venezia nel 1590. Dell'esistenza della mitica città non sembrò nutrire il minimo dubbio anche se ai suoi tempi doveva ammettere che non ne rimanesse traccia alcuna, eccezion fatta per «i fondamenti d'un castello con un bagno d'acqua sulfurea, essendo divenuto il resto per la maggior parte un bosco».

Che Agonia fosse esistita lo sosteneva del resto messer Odorico Soldano, cancellerie della Comunità e contemporaneo del Vecellio, sulla scorta di documenti che affermava di possedere. Senza contare le medaglie d'argento e di bronzo affiorate dalla terra nel corso dei lavori dei campi. Con l'aggiunta del «piccolo cavallo di bronzo coperto d'una pelle di Leone», che Cesare Vecellio diceva di aver visto nella casa dell'illustre famiglia Mainardi di Lorenzago e di aver tenuto in mano con gran soddisfazione «per vedere la bella maniera dei nostri antichi in questi lavori di tal Cavallo, al quale mancava un piede». Fosse stato anche così, Antonio Ronzon nel suo "Dal Pelmo al Peralba" del 1896 concludeva che «delle scritture ricordate dal Vecellio, delle medaglie e del cavallo di bronzo nessuno sa dir più niente». Più oltre Ronzon osservava che «del castello rimane forse il ricordo nel nome "Castellato" che anche oggi - scriveva - si dà ad un sito non molto distante dal punto dove l'Ansiei si versa nel Piave». E a pensarci pare verosimile che in un luogo come Gogna, stategicamente importante, potesse sorgere un fortilizio, magari comunemente chiamato "castello".

Tra i sostenitori dell'esistenza di un castello di Gogna ci fu anche, nel Settecento, don Giovanni Antonio Barnabò, autore dell'"Historia della Provincia di Cadore". Riferiva «come alla ripa del fiume Anasso, detto comunemente Piave era situato un nobile e principal Castello, che chiamavasi Euganio, benchè di questo non vi resti, se non il solo nome, anche corrotto dalla barbara loquella degli antichi abitatori, che vien hora chiamato Agogna». Di Agonia parla anche il Ciani nella sua "Storia del popolo cadorino". Narra che attorno al 1200 a.C. un contingente di Euganei, sotto l'incalzare di Antenore alla guida di schiere di Teucri e Paflagoni, scampati all'incendio di Troia e approdati alle coste adriatiche, risalirono le gole del Piave fermandosi «dove sono fronteggiate dal Tudajo e dal Piedo». E qui eressero più rocche, la più importante delle quali fu detta Euganea. L'"oppido Euganea", in seguito "Agonia", «sarebbe sorto in un piano alquanto inclinato più verso Mezzodì che Occidente». Pure lui doveva tuttavia arrendersi all'evidenza: ai suoi giorni di quanto descritto non si rinveniva traccia alcuna. A sua volta Venanzio Donà nella sua "Storia Antica del Cadore", risalente a metà Ottocento, scriveva che «presso Auronzo sulle rive del Piave e dell'Anseio, i debili avanzi d'un castello, rimembranza invero la più vetusta di quante si conoscono in queste parti, fanno ricordare l'opinione, che quivi avessero abitato un dì quei popoli rammentati da Polibio chiamati "Agoni"».

Il mistero, in assenza di oggettivi riscontri, permane. E se fra tante congetture una verità storica esiste, il segreto resta ben custodito dalla terra.

Bruno De Donà

martedì 22 aprile 2008

Miti, Leggende e Storia. Dopo aver ...

Il Gazzettino, 28 marzo 2008
Miti, Leggende e Storia. Dopo aver parlato della presenza (e dell'importanza) del fico nelle vicende leggendarie dell'origine di Roma e nel Vecchio e Nuovo Testamento, non possiamo non accennare al suo significato nella mitologia egizia. Va tuttavia precisato che anche in questo caso ci riferiamo al sicomoro (ficus sycomorus), pianta presente in particolare nell'Africa Orientale e, soprattutto, in Egitto. A differenza del fico nostrano, si tratta di un grosso albero con tronchi eretti, dai cui rami scendono radici avventizie tabulari che servono di sostegno. Il suo legno, durissimo, veniva usato dagli antichi Egizi soprattutto per la fabbricazione dei sarcofagi.

Ebbene, secondo gli antichi Egizi, con l'arrivo della primavera l'Uovo cosmico (plasmato da Ptah e da lui deposto sulle rive del Nilo) si apriva e ne usciva Ra/Osiride, il Sole. Il fiume viveva in simbiosi col dio del sole. Recita infatti il "Libro dei Morti" (celebrando il perpetuo rigenerarsi della vita, la resurrezione di tutte le cose caduche): "Cresce, io cresco; vive, io vivo". Finalmente cessava il pianto di Iside (sempre alla ricerca del suo amato Osiride) e, per festeggiare la fine del suo dolore, si mettevano in scena gli episodi del mito di Osiride, culminanti nella resurrezione del dio, che avveniva quando dalle zolle alla base del sicomoro sacro iniziavano a spuntare i germogli di grano e orzo. Il fico sicomoro era insomma considerato un albero cosmico assimilato alla fenice. Era reputato quindi simbolo di immortalità, di vittoria sulla morte, di rinascita dalla distruzione. Era, in altre parole, l'Albero della Vita. Il suo succo, inoltre, era prezioso perché si riteneva donasse poteri occulti e il suo legno (come abbiamo già visto) era usato per la fabbricazione dei sarcofagi: seppellire un morto in una cassa di sicomoro significava reintrodurre la persona nel grembo della dea madre dell'albero, facilitando così il viaggio nell'aldilà. Nel "Libro dei Morti", infine, il sicomoro è l'albero che sta fuori dalla porta del Cielo, da cui ogni giorno sorge il dio sole Ra.

Esso inoltre era consacrato alla dea Hathor, chiamata anche la "dea del sicomoro". La dea Hathor appare sotto forme diverse. Dea madre, feconda e nutrice, Hathor abita gli alberi ed è la "signora del sicomoro del sud", a Menfi; ma è anche la "signora dell'occidente", ossia la signora del regno dei morti.

Un ultimo accenno infine al fico sicomoro nella numerologia. Il sicomoro è legato al numero 9, il numero tre volte sacro (3x3=9), il numero dell'Amore Universale. Rappresenta l'immagine completa dei 3 mondi: materiale, psichico e animico ed è simbolo di verità totale e completa (il 9 moltiplicato per qualsiasi altro numero dà un prodotto le cui cifre sommate tra loro danno ancora 9).

Legno e suo uso.E' di colore (parliamo evidentemente dell'albero "nostrano") bianco-giallognolo, senza netta distinzione degli anelli annuali, è tenero, idoneo per piccoli lavori; è di modestissimo valore anche come combustibile.

Proprietà curative.Dato che quasi tutte le parti della pianta hanno (in modo più o meno marcato) proprietà medicinali, descriveremo (in modo ovviamente schematico) le caratteristiche terapeutiche di ognuna.

Gemme fresche:l'attività è da attribuirsi agli enzimi digestivi contenuti; regolarizza la motilita' e la secrezione gastroduodenale, soprattutto in soggetti con reazioni psicosomatiche a livello gastrointestinale.

Foglie:raccolte da maggio ad agosto e fatte essiccare lentamente, hanno proprietà in particolare antinfiammatorie ed espettoranti.

Frutti immaturi, parti verdi e giovani rametti:il lattice che sgorga dai tagli viene applicato per uso esterno per eliminare calli e verruche, soprattutto per la sua azione caustica; è irritante per la pelle.

Frutti freschi:assunti in quantità hanno un effetto lassativo.

Frutti essiccati:ricchi di vitamine A e B, proteine e zuccheri, hanno proprietà emollienti, espettoranti e lassative.

Fichi cotti:si possono impiegare per applicazioni esterne in caso di foruncoli, scottature o altre irritazioni della pelle.

Decotto di fichi secchi:è indicato contro infiammazioni delle vie respiratorie e urinarie, gastriti e coliti; può essere impiegato per sciacqui e gargarismi, utili nelle irritazioni delle gengive e nel mal di gola.

Curiosità.Il cosiddetto fico strangolatore. E' una pianta terribile, che non è presente alle nostre latitudini, ma si trova per lo più nelle foreste tropicali. Già il nome, di per sé, non promette niente di buono. Si sviluppa come una pianta aerea e, mentre cresce, si avvolge al tronco di un altro albero; si prolunga fino a penetrare nel terreno e prendere lentamente il posto dell'albero ospite. L'esito è normalmente quello della morte dell'albero ospite, che sopraggiunge per soffocamento e oscuramento della chioma. A prima vista, le foglie del fico strangolatore mascherano il "delitto" e anche le radici aeree sono così saldate e aderenti da sembrare il vero tronco anziché le appendici del parassita. Un suo esemplare lo troviamo, ad esempio, nel museo zoologico e giardino botanico (Zoologisches und Botanisches Museum) di Amburgo, che (tra l'altro) possiede una collezione di reperti zoologici di così alto valore scientifico da essere considerato uno dei musei più importanti nel suo genere in Germania. Nella sezione botanica si svela il mondo vegetale nelle sue infinite varietà: piante utili, spezie, piante tessili, caucciù, piante oleifere e da zucchero, piante tintorie, cereali e funghi autoctoni. Tra le attrazioni, il segmento di un potente 'fico strangolatore' del Camerun, una pianta, appunto, che cresce come un parassita attorno ad un'altra fino a causarne la morte.

(4- fine)

A cura dell'Associazione Forestali d'Italia

e della Direzione centrale per le risorse agricole, forestali , naturali e montagna

della regione Friuli Venezia Giulia

Origini di Belluno fra storia e mito

Il Gazzettino, 22 aprile 2008
Cinque incontri a Cesiomaggiore su storia e leggende della Valle del Piave. Apre Franchi rievocando Flavio Ostilio
Origini di Belluno fra storia e mito
"Tra storia e mito. Cinque incontri su storia e leggende della Valle del Piave" è il titolo d'una iniziativa culturale varata per cinque mercoledì consecutivi dal comune di Cesiomaggiore (in foto) e dalla biblioteca civica, nei cui locali (in via Gei 7) viene ospitata. Tutti gli incontri si tengono alle 20.30.

Si inizia domani con Francesco Piero Franchi, storico locale ed italianista, il quale si occuperà del tema "Le orme degli dei: tracce di mitologia locale", soprattutto sulla scorta della seicentesca storia di Belluno di Giorgio Piloni, il cui primo capitolo è tutto dedicato alle origini mitiche della città, che avrebbe avuto nel cavaliere Flavio Ostilio, uccisore d'un pericolosissimo cinghiale, il fondatore di Belluno.

Il secondo appuntamento avrà per protagonista il 30 aprile Marco Perale, esperto di storia medievale locale che racconterà di Castel d'art, il fortilizio conteso tra bellunese e trevigiani nell'alto medio evo che diede origine a uno dei primi componimenti in volgare, citato come tale nelle principali storie di letteratura italiana.

Negli altri tre incontri si lascerà il mito in favore della storia. Sarà un altro studioso ed amministratore locale, il sindaco di Lentiai Flavio Tremea, a offrire una sintesi dei quasi mille anni di storia che riguardano la contea di Cesana ed il territorio di Lentiai: la serata è in programma il 7 maggio.

Un relatore prestigioso come Gigi Corazzol, già docente di storia dell'agricoltura a Ca' Foscari animerà il penultimo appuntamento tutto incentrato sulla figura di Francesca Canton alla cui vicenda giudiziaria cinquecentesca egli dedicò vent'anni fa un sapido libricino.

Nel segno della storia sarà anche la tappa conclusiva della rassegna che vedrà Paolo Giacomel e Mario Gris raccontare del primo Ottocento nel Feltrino, al tempo del regno Lombardo Veneto. Un'iniziativa articolata, e impegnativa, che intende dare un contributo all'approfondimento storico del bellunese.

sabato 19 aprile 2008

Sua maestà il maiale, il re della tavola

L'Arena, mercoledì 29 marzo 2006 inserti pag. 53
Gli studenti dell’alberghiero Berti di Soave hanno concluso un progetto
didattico sull’animale
Sua maestà il maiale, il re della tavola
Alimento principe della cultura contadina, vive una riscoperta culturale Soave. Soppressa e prosciutto crudo con grissini e pan biscotto, salame ai ferri con polenta, cotechino e verze su crostone di pane, risotto mantecato con tastasale, bigoli con verdure e salsiccia, coscia di maiale in crosta, patate al forno, spinaci al burro, sbrisolona, i vini della Cantina di Soave ed il sopraffino Recioto di Soave firmato Coffele: un saggio di fine anno presi per la gola.
Così gli studenti delle terze classi di cucina e sala della sede associata dell’alberghiero Angelo Berti hanno voluto concludere il progetto didattico che per la prima parte dell'anno scolastico li ha messi al cospetto di sua maestà il maiale. Proprio dall’animale che è simbolo della tradizione contadina ha preso le mosse il progetto interdisciplinare «Il maiale, patrimonio dell’Umanità», coordinato da Alessandro Ferro che ha coinvolto l’insegnante di sala-bar Fausto Fanini, la docente di lettere e storia Claudia Posani, quella di alimentazione Maria Luisa Zanfanti e l’insegnante di religione Virginio Tino Turco.
Dalla letteratura alla tradizione, dal simbolismo alla religione passando per la storia, i valori nutrizionali e la cucina, il maiale è stato letteralmente sviscerato. Il maiale è diventato nell’approfondimento didattico la chiave di lettura della civiltà contadina.
Dopo la teoria, via con la pratica: i ragazzi ai fornelli; gli Alpini di Prova Giulio Biancon e Luciano Benati a confezionare in diretta le soppresse donate, poi come souvenir agli invitati al banchetto; Marco Masconale a giocare di affettatrice sulle carni color granato del prosciutto crudo; i coristi della Piccola Baita di San Bonifacio ad intonare le cantate della tradizione.
In mezzo i «testi sacri» dedicati al maiale e riproposti da Enzo Coltro, Lucia Ruina, Renato Magnabosco e Bruno Masotti, mentre la storia locale è stata raccontata da Ernesto Santi e Massimo Priori. Il tutto nel corso di una serata aperta alle autorità del paese, ai rappresentanti della Provincia e della Regione.
«Nel Medioevo i maiali erano abbastanza simili ai cinghiali, venivano allevati in spazi aperti dove si potevano muovere liberamente, ed erano quindi magri e snelli, con zampe lunghe e sottili. Si presentavano con la testa più grande e lunga, il grifo appuntito e non a tappo, le orecchie corte ed erette, le setole ritte sulla schiena.
Erano bestie di colore scuro, rosso o nerastro», ha spiegato ai ragazzi lo storico Ernesto Santi, «e si trattava di bestie più piccole e leggere di almeno tre volte rispetto a quelle attuali. Nell’epoca moderna e con l’avvento della Repubblica veneta il maiale troverà ampio spazio nell'azienda agricola e nell'economia della villa e del contado».
È in quest’epoca che il maiale diventa «un modo concreto di rispondere alle esigenze alimentari e s’inserisce sinergicamente nel sistema rurale, entrando prima a far parte di quella cultura e diventando poi un vero protagonista della cucina veronese».
Un maiale baluardo dell’identità veneta e veronese? Assolutamente sì, almeno dal punto di vista dello storico, che mette l’animale «alla base del sistema alimentare della famiglia contadina».
A nobilitarne l’immagine e a tesserne le lodi ci si è messa, del resto, anche la letteratura, a cominciare dai millenari Testi dei Sarcofagi ed i Libri dei Morti di tradizione egizia. Venne poi Omero che nell’Odissea prima diede alla maga Circe il compito di trasformare i soldati di Ulisse in porci, salvo poi prevedere che il rientro dell'eroe ad Itaca venisse celebrato con due porcellini appena cotti serviti da Eunico. Maia, la dea greca madre di Mercurio, finì addirittura col dare il nome a quell’animale che tradizionalmente le veniva offerto in sacrificio.
«Pirandello e George Orwell fanno del maiale il simbolo dell'uomo stesso», ha spiegato l’insegnante di lettere, «proponendolo come specchio di un’umanità coinvolta nel gioco folle della guerra o ciecamente protesa solo verso la cupidigia, l’egoismo, la voglia di opprimere i più deboli».
Ma prima di arrivare ai contemporanei, e tra loro c’è anche Boccaccio, c’è la Cina di diecimila anni fa, visto che pare fosse stato il popolo dagli occhi a mandorla il primo a cimentarsi con l’allevamento del maiale. Non a caso proprio in Cina la carne di maiale è uno degli elementi principe della tradizione gastronomica, senza contare che «l’ideogramma della lingua cinese usato per descrivere la famiglia e la casa è composto di due caratteri: il primo rappresenta il tetto, mentre nel secondo, posto sotto il tetto, è rappresentato il carattere del maiale, l’animale familiare per eccellenza che, addomesticato a beneficio dell’uomo, può girare liberamente per casa», ha spiegato l’insegnante di religione.
Continuando il giro del mondo e delle culture attorno al maiale si comprende così come il tabù legato al consumo della sua carne, proprio in Cina, costituisca il maggiore ostacolo alla diffusione dell’islamismo che, nel Corano, dichiara impura e immonda la carne del maiale. «Le ragioni del divieto», ha aggiunto Turco, «sono approssimativamente le stesse che valgono nell’ebraismo. Il maiale è considerato un animale che mangia tutto, non condivide, non ragiona e non sa distinguere», senza contare l'ambiente lurido in cui vive.
Questa visione è riscontrabile anche nel Nuovo testamento fino al momento in cui anche il maiale torna ad essere un elemento della creazione, un dono di Dio e quindi positivo. Il cristianesimo trova anche in questo aspetto uno dei valori propri di distinzione da altri culti, ed è Sant’Antonio del deserto ad esserne in un certo senso l'emblema. È a tavola, insomma, che si conosce la cultura di un popolo ed è proprio alla luce delle odierne contaminazioni cultural-gastronomiche che il progetto, il prossimo 6 aprile, vivrà un secondo momento con una giornata di seminario nella chiesa di Santa Maria dei Domenicani, dedicata al cibo come memoria storico-religiosa nell'ebraismo e nel cristianesimo. La giornata, promossa in collaborazione con la Comunità ebraica di Verona e l’Ufficio diocesano per l’ecumenismo e il dialogo, proporrà agli studenti delle classi seconde la tavola come luogo di conoscenza e di incontro tra ebraismo e cristianesimo.
Di rito pagano si parla però anche a proposito della truculenta cerimonia di trasformazione dell’animale più amato della casa nei piatti più gustosi per la famiglia. Un rito che cominciava nel staloto riempiendo fino al colmo il classico bandoto di polenta, patate, mele, zucche, farinazzo e avanzi fatti bollire. Poi veniva l’ora del massin, delle grida con cui il povero maiale denunciava il tradimento e dopo un po’ quelle di gioia della famiglia che tra testa, guaciale, lardo, coppa, carrè, nodini, lombi, puntine, pancetta, spalla, coscia, zampetto, codino, interiora e cotenna celebravano un nuovo benessere.
«Davanti al primo maiale della storia», si legge nel volumetto edito da T-studio che racconta tutto il progetto degli alunni soavesi del Berti, «l’umanità scoprì improvvisamente la gioia di vivere. Improvvisamente l’uomo poteva avere una fonte alimentare illimitata ed un sacco di tempo libero da utilizzare per attività ludiche prima sconosciute: insaccare i salami, stagionarli, mangiarli».
Paola Dalli Cani