giovedì 27 dicembre 2007

Solstizio d'Inverno, Sol Invictus e Natale: storia e tradizione

VIAROMA100 - Solstizio d'Inverno, Sol Invictus e Natale: storia e tradizione
http://www.viaroma100.net/notizia.php?id=12992&id_sez=3

Gli Europei dovrebbero riappropriarsi della propria cultura e delle proprie tradizioni, che hanno radici ben distinte dal cristianesimo, che ha dominato dopo essersi appropriato di gran parte della cultura greco-romana.

Roma – Il Cristianesimo si è appropriato indebitamente di feste e tradizioni forse perché ha poco di suo, se non le fantasie bibliche ed evangeliche…
Pur partendo da una considerazione volutamente polemica, per inquadrare un inganno storico e culturale che si perpetua nel tempo, è bene fare un excursus sul perché fra il 21 dicembre ed il 25 i popoli festeggino da millenni.

IL SOLSTIZIO
Il Solstizio d'Inverno cade tra il 21 e il 22 dicembre, questa data coincide con il giorno più corto dell'anno e con la notte più lunga.
Il Sole è al nadir, il punto più basso che tocca sulla linea dell'orizzonte rispetto al parallelo locale. Da questo giorno il suo potere comincerà a crescere, a rinascere e per questo i popoli dell'antichità celebravano il ritorno del figlio della promessa.

25 DICEMBRE: SOL INVICTUS
Il Natale è la versione cristiana della rinascita del sole, fissato secondo la tradizione al 25 dicembre dal papa Giulio I (337 -352) per il duplice scopo di celebrare la nascita del Cristo come "Sole di giustizia" e creare una celebrazione alternativa alla più popolare festa pagana del Sol Invictus, che, dopo giorni in cui la luce stenta prevalere sul buio, prevale e fa rinascere la natura.

I SATURNALI
I popoli antichi, da sempre festeggiavano il Solstizio, come i Saturnali della Roma antica, Alban Arthan (la Luce di Artù) nella tradizione druidica, o Yule in quella Germanica, ed altre ancora nelle tradizioni dei popoli dell'emisfero boreale. I Saturnali affondano le radici negli arcaici riti di rinnovamento legati al solstizio d'inverno, quando il Vecchio Sole moriva per rinascere Sole Fanciullo e Saturno era il dio che presiedeva l'Avvento del Natale del Sole Invitto, intendendo il Sole non in senso naturalistico, bensì essenza ed epifania del dio Creatore e Vivificatore.

Sarebbe oltremodo riduttivo e svilente considerare i Saturnali semplicemente delle festività più o meno allegre e licenziose, così come una certa tradizione cristiana ha contribuito a far credere. I Saturnali, in effetti, esprimono un profondo pensiero religioso la cui essenza risale alla Notte dei Tempi, a quella Notte di cui auspicavano il ritorno, illuminata dalla Luce di un Fanciullo Divino. Per poter penetrare nell'effettiva natura spirituale dei Saturnali occorre risalire la corrente del Tempo sino alle leggendarie origini di Roma, quando i suoi miti s'intrecciano con quelli di un'altra epica città, cioè Troia.

A Roma si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, come stabilito dall'Imperatore Domiziano. Alban Arthuan, rappresenta nella tradizione druidica un momento in cui possiamo aprirci alle forze dell'ispirazione e del concepimento.

Tutto attorno a noi è oscurità. La nostra sola guida è Arturo, l'Orsa Maggiore, la Stella Polare. Nel silenzio della notte nasce l'ispirazione. Tanto la festività che la funzione sono collocate al Nord, il regno della morte e del mezzo inverno. Il cuore della cerimonia è la conclusione rituale del lutto per la morte della luce, in qualunque forma divina o astratta venga percepita. L'anno che si è avvicinato alla fine con l'arrivo dell'inverno, portando con se il caos e l'incertezza dell'oscurità, ora viene lasciato alle spalle. Il miracolo della nascita ha fermato lo s correre verso l'oscurità: il flusso si è invertito.

YULE
La germanica Yule o Farlas, è insieme festa di morte, trasformazione e rinascita. Il Re Oscuro, il Vecchio Sole, muore e si trasforma nel Sole Bambino che rinasce dall'utero della Dea: all'alba la Grande Madre Terra dá alla luce il Sole Dio.

La pianta sacra del Solstizio d'Inverno è il vischio, pianta simbolo della vita in quanto le sue bacche bianche e traslucide somigliano allo sperma maschile. Il vischio, pianta sacra ai druidi, era considerata una pianta discesa dal cielo, figlia del fulmine, e quindi emanazione divina.

Per chi vuole approfondire: http://it.wikipedia.org/wiki/Sol_Invictus
dove si legge:
Aureliano consacrò il tempio del Sol Invictus il 25 dicembre 274, in una festa chiamata dies natalis Solis Invicti, "Giorno di nascita del Sole Invitto", facendo del dio-sole la principale divinità del suo impero ed indossando egli stesso una corona a raggi.

La festa del dies natalis Solis Invicti divenne via via sempre più importante in quanto si innestava, concludendola, sulla festa romana più antica, i Saturnali.

lunedì 17 dicembre 2007

L'albero di Natale Tra storia e simbolismo

L'albero di Natale Tra storia e simbolismo
http://www.grandain.com/informazione/dettaglio.asp?id=14594

di Michela Brandino

Misteri in... - Sono origini molto antiche, quelle che collocano il
famoso abete nelle feste del Solstizio d'inverno, ovvero il Natale.
I popoli germanici, lo usavano nei loro riti pagani, per festeggiare
il passaggio dall'autunno all'inverno. In seguito era usanza bruciarlo
nella stufa, in un rito di magia simpatica (secondo cui il simile
attira il simile), in modo che con il fuoco si propiziasse il ritorno
del sole.

Fu scelto l'abete perché è un albero sempre verde, che porta speranza
nell'animo degli uomini visto che non muore mai, neppure nel periodo
più freddo e difficile dell'anno.
Era un simbolo fallico, di fertilità ed abbondanza associato alle
divinità maschili di forza e vitalità. Ecco che addobbarlo, prendeva
quindi i connotati di un piccolo rito casalingo che portava fortuna ed
abbondanza alla famiglia.
Il Solstizio d'inverno, è il momento in cui la divinità maschile
muore, per poi rinascere in primavera. Questo ciclo di morte-nascita,
lo si ritrova in moltissime culture, oltre quella cristiana. E'
presente in Egitto, con la morte di Osiride e nel mito di Adone che si
evirò proprio sotto ad un pino.

Addobbare l'albero di Natale con le luci, accendendolo di mille
riflessi, ricorda il rituale del grande falò dell'abete, che spesso si
prolungava fino all'attuale festa della Befana. In alcune popolazioni
europee, con il fuoco dell'abete, si bruciava simbolicamente le
negatività del passato, e le streghe leggevano nel fuoco i presagi per
il futuro.
La tradizione dell'albero prese piede in Italia nel 1800, quando la
regina Margherita, moglie di Umberto I, ne fece allestire uno in un
salone del Quirinale, dove la famiglia reale abitava. La novità
piacque moltissimo e l'usanza si diffuse tra le famiglie italiane in
breve tempo.

Molte leggende cristiane sono poi nate nel tempo attorno all'albero di
Natale, come quella americana che racconta di un bambino che si era
perso in un bosco alla vigilia di Natale si addormentò sotto un abete.
Per proteggerlo dal freddo, l'abete si piegò fino a racchiudere il
bambino tra i suoi rami. La mattina i compaesani trovarono il bambino
che dormiva tranquillo sotto l'abete, tutto ricoperto da cristalli che
luccicavano alla luce del sole. In ricordo di quell'episodio,
cominciarono a decorare l'albero di Natale.

Quest'anno, non acquistate alberi vivi, i tempi sono cambiati e non è proprio il caso di far soffrire una pianta per egoismo e piacere personale!

Miti, Leggende e Storia. Il vischio

IL GAZZETTINO -
Miti, Leggende e Storia. Il vischio
http://gazzettino.quinordest.it:80/VisualizzaArticolo.php3?Luogo=Udine&Codice=36\
10683&Pagina=AMBIENTE%20%26%20NATURA

a cura dell'Associazione Forestali d'Italia

Miti, Leggende e Storia.Il vischio è sempre stato una pianta sacra.
Una specie di miracolo della natura che d'inverno spicca nei boschi
quando alberi e arbusti mostrano solo rami spogli. Già Plinio il
Vecchio descrive i rituali delle popolazioni gallico-celtiche che
accompagnavano la raccolta del vischio. Nella mitologia greca poi esso
viene associato ad Atena.

Per i Greci inoltre il vischio é la "chiave" usata ogni anno da
Persefone per raggiungere il marito all'inferno nei mesi invernali; ed
è con un rametto di vischio in mano che (secondo Virgilio) Enea
convince Caronte a fargli attraversare lo Stige e scende agli inferi
per incontrare il padre Anchise. E soprattutto con esso può superare
tutte le difficoltà e tornare sano e salvo nel mondo dei vivi.
Tuttavia a proposito dell'origine del vischio c'è una interessante
fiaba del Trentino. Di essa ci sono varie versioni che differiscono
nella forma, non certo nella sostanza (che è sempre la stessa).
Partiamo dunque da questa fiaba. C'era una volta, in un paese tra i
monti, un vecchio mercante. L'uomo viveva solo, non si era mai sposato
e non aveva più nessun amico. Per tutta la vita era stato avido e
avaro, aveva sempre anteposto il guadagno all'amicizia e ai rapporti
umani. L'andamento dei suoi affari era l'unica cosa che gli importava.
Di notte dormiva pochissimo, spesso si alzava e andava a contare il
denaro che teneva in casa, nascosto in una cassapanca.
Per avere sempre più soldi, a volte si comportava in modo disonesto e
approfittava della ingenuità di alcune persone. Ma tanto a lui non
importava, perché non andava mai oltre le apparenze. Non voleva
conoscere quelli con i quali faceva affari. Non gli interessavano le
loro storie e i loro problemi. E per questo motivo nessuno gli voleva
bene. Una notte di dicembre, ormai vicino a Natale, il vecchio
mercante non riusciva a dormire e dopo aver fatto i conti dei
guadagni, decise di uscire a fare una passeggiata. Cominciò a sentire
delle voci e delle risate, urla gioiose di bambini e canti. Pensò che
di notte era strano sentire tanto chiasso in paese. Si incuriosì
perché non aveva ancora incontrato nessuno, nonostante voci e rumori
sembrassero molto vicini. A un certo punto cominciò a sentire qualcuno
che pronunciava il suo nome, chiedeva aiuto e lo chiamava fratello.
L'uomo non aveva fratelli o sorelle e si stupì.

Per tutta la notte, ascoltò le voci che raccontavano storie tristi e
allegre, vicende familiari e d'amore. Venne a sapere che alcuni vicini
erano molto poveri e che sfamavano a fatica i figli; che altre persone
soffrivano la solitudine oppure che non avevano mai dimenticato un
amore di gioventù. Pentito per non aver mai capito che cosa si
nascondesse dietro alle persone che vedeva tutti i giorni, l'uomo
cominciò a piangere. Pianse così tanto che le sue lacrime si sparsero
sul cespuglio al quale si era appoggiato. E le lacrime non sparirono
al mattino, ma continuarono a splendere come perle.

Era nato il vischio.

Ma torniamo ai Gallo-Celti. Non solo per brevità (il soffermarci sulla
sua presenza nella tradizione greca e latina ci porterebbe, infatti,
assai lontano). Ma anche perché le consuetudini sull'uso del vischio
come elemento apportatore di buona sorte derivano in buona parte dalle
antiche tradizioni celtiche, costumi di una popolazione che
considerava questa pianta come magica (perché, pur senza radici,
riusciva a vivere su un'altra specie) e sacra. Lo poteva raccogliere
infatti solo il sommo sacerdote, con l'aiuto di un falcetto d'oro.

Gli altri sacerdoti, coperti da candide vesti, lo deponevano (dopo
averlo recuperato al volo su una pezza di lino immacolato) in una
catinella (pure d'oro) riempita d'acqua e lo mostravano al popolo per
la venerazione di rito. E per guarire (per i Celti il vischio era
"colui che guarisce tutto; il simbolo della vita che trionfa sul
torpore invernale) distribuivano l'acqua che lo aveva bagnato ai
malati o a chi, comunque, dalle malattie voleva essere preservato. I
Celti consideravano il vischio una pianta donata dalle divinità e
ritenevano che questo arboscello fosse nato dove era caduta la
folgore, simbolo della discesa della divinità sulla terra. Plinio il
Vecchio riferisce che il vischio venerato dai Celti era quello che
cresceva sulla quercia, considerato l'albero del dio dei cieli e della
folgore perché su di esso cadevano spesso i fulmini. Si credeva che la
pianticella cadesse dal cielo insieme ai lampi. Questa congettura -
scrive il Frazer nel suo "Ramo d'oro" - è confermata dal nome di
"scopa del fulmine" che viene dato al vischio nel cantone svizzero di
Argau. "Perché questo epiteto - continua il Frazer - implica
chiaramente la stessa connessione tra il parassita e il fulmine; anzi
la scopa del fulmine è un nome comune in Germania per ogni escrescenza
cespugliosa o a guisa di nido che cresca su un ramo perché gli
ignoranti credono realmente che questi organismi parassitici siano un
prodotto del fulmine". Tagliando dunque il vischio con i mistici riti
ci si procura tutte le proprietà magiche del fulmine.

Le leggende che considerano il vischio strettamente connesso al cielo e alla guarigione di tutti i mali si ritrovano anche in altre civiltà del mondo come ad esempio presso gli Ainu giapponesi o presso i Valo, una popolazione africana.

Inoltre queste usanze, chiamate anche druidiche (i sacerdoti dei Celti
erano infatti i Druidi), continuarono (specie in Francia) anche dopo
la cristianizzazione. La natura del vischio, la sua nascita dal cielo
e il suo legame con i solstizi non potevano infatti non ispirare ai
cristiani il simbolo del Cristo, luce del mondo, nato in modo
misterioso. "Come il vischio è ospite di un albero, così il Cristo -
scrive Alfredo Catabiani nel suo "Florario" - è ospite dell'umanità,
un albero che non lo generò nello stesso modo con cui genera gli
uomini".

Prima di questa elaborazione simbolica, tuttavia, la Chiesa non aveva
voluto ammettere il vischio fra i suoi "ornamenti", perché legato alla
tradizione pagana. A questa prima fase della sua storia risale forse
la formazione di quella leggenda medioevale che narra come
originariamente il vischio fosse considerato una pianta normale. Anzi.
Probabilmente per mantenere una certa distanza dalle antiche
tradizioni pagane (ritenute foriere di malvagità e peccato), il
vischio fu considerato dai cristiani una pianta maledetta. Quando
infatti Gesù venne condannato a morte per crocifissione, tutti gli
alberi si frammentarono minutamente per non divenire legno per la
Croce. Solo il vischio (unico albero in tutta la Palestina) rimase
intero e per questo fu utilizzato per costruirla. Allora la pianta
ebbe la maledizione di non essere più un albero ma un misero arbusto senza radici, una specie non più in grado di vivere autonomamente ma con la necessità di sostenersi ad una pianta nobile per poter sopravvivere, una di quelle piante che "eroicamente"aveva preferito farsi in mille pezzi pur di non divenire legno per la Croce.

venerdì 14 dicembre 2007

Kurdistan La patria perduta tra i monti del Kandil

Kurdistan La patria perduta tra i monti del Kandil

La Repubblica del 29 novembre 2007, pag. 32

di Vanna Vannuccini

Il profilo delle montagne ancora prive di neve, che si stagliano contro il cielo in colori grigi beige e gialli, è interrotto da tor­ri cilindriche munite di oblò e feritoie e filo spinato, che fanno subito pensare che il Kur­distan è stato pacificato con la forza. Gli scontri tra Repubblica islamica e movimenti indipen­dentisti curdi-iraniani comin­ciarono in questa provincia dell'Iran nord occidentale su­bito dopo la rivoluzione, e di­vennero una guerra vera e pro­pria, con migliaia di morti, du­rante il conflitto tra Iraq e Iran. «I ribelli venivano la notte e por­tavano via le scorte di cibo; i mi­liziani arrivavano di giorno e ci punivano come collaboratori», ricorda un vecchio pastore nel villaggio di Kulesareh, sulla strada che da Sanandaj porta al confine iracheno. I primi erano i peshmerga, i secondi i pasdaran khomeinisti. I nomi dei bambini in questi villaggi evo­cano ancora quei tempi: alcuni si chiamano Restegar (Libera­to), altre Shurosh (Rivolta).



«Ho ancora negli occhi l'im­magine del corpo di mio fratel­lo trascinato dai pasdaran per le strade di Sanandaj « racconta Fariba, una bella donna che porta con orgoglio il chador verde consentito solo alle di­scendenti del Profeta. Il fratello era un membro del Komaleh, uno di due movimenti indipen­dentisti (l'altro era il Partito De­mocratico Pdki). Fariba era allora una giovane sposa, il matrimonio era stato celebrato pro­prio il giorno in cui lo Scià Pahlevi aveva lasciato l'Iran, ricor­da. La coincidenza era sembrata di buon auspicio, perché le repressioni contro i curdi al tempo dello scià erano state durissime, e i curdi aveva­no sperato nella rivoluzione. Ma anche dopo l'arrivo di Khomeini le cose non migliorarono, gli ayatollah al potere soffo­carono subito ogni speranza di autonomia. La lingua, la musi­ca, la letteratura, perfino gli abi­ti tradizionali curdi furono vie­tati; il territorio curdo fu diviso in quattro province — Kurdi­stan, Kermanshah, Azerbaijan occidentale e Ilan; e i militanti curdi perseguiti fin nell'esilio. A Vienna, nel 1989, cadde in una trappola il capo del Pdki Ghassemlu, ucciso mentre stava trattando con i nuovi dirigenti iraniani (Khomeini era morto da poco), la rinuncia alla lotta armata — ma non quella all'au­tonomia. Il suo successore Sharafkandi fece pochi anni dopo la stessa fine in un ristorante nel centro di Berlino, Mykonos, do­ve entrò un commando e fece fuori tutti a raffiche di mitra.



Anche l'Iran come la Turchia ha una «questione curda». I cur­di sono più di sei milioni, quasi un decimo della popolazione, e da sempre insofferenti del po­tere centrale. Se la vita nelle città si era relativamente pacifi­cata, i villaggi e le montagne so­no sempre rimasti scarsamente controllabili e la presenza di militari un obiettivo per i ribel­li. Il presidente Khatami aveva cercato di avviare il suo «dialo­go delle civiltà» anche con le minoranze etniche — curdi e arabi a ovest, baluci e turkmeni a est, e qualche miglioramento c'era stato. Il Ministero per la Cultura islamica aveva consen­tito la pubblicazione di libri in curdo, l'università di Sanandaj aveva ospitato una conferenza in curdo sulla letteratura di questa etnia, e negli esami di accesso all'università si era smesso di imporre a questa minoranza, sunnita, di rispondere secondo le regole di fede sciite. Ma negli ultimi mesi gli scontri tra ribelli e milizie della Repubblica islamica sono ripresi con violenza. Raid di commando curdi, soldati iraniani uccisi, elicotteri di pasdaran abbattu­ti, rappresaglie sui villaggi sono cronaca quotidiana. I ribelli curdi sostengono che da agosto a oggi cono morti almeno 150 pasdaran, ma in generale — diversamente da quanto accade per i combattimenti tra Pkk ed esercito turco — nessuna delle due parti ha interesse a rendere noti gli scontri.



Teheran accusa gli Stati Uni­ti di finanziare i ribelli, che im­provvisamente sono muniti di armi sempre più moderne e sembrano ottimamente adde­strati. Nella primavera del 2006 Condoleezza Rice annunciò che 75 milioni di dollari sarebbero andati a finanziare «l'opposizione» iraniana, e questa volta, diversamente che nel ca­so dell'Iraq, Washington non giocava più la carta dei «demo­cratici in esilio» bensì quella delle «identità etniche e religiose».



La catena del Kandil, dove ha le sue basi il Pkk, il partito di Ocalan, è al centro di quello Sta­to ideale — tra Iraq, Turchia, Iran e Siria—che i curdi sogna­no di creare, meglio oggi che domani. Dalle cime del Kandil il Pkk ha creato delle filiali in tutti i paesi circostanti. Il partito cur­do — iraniano si chiama Pjak, Partito per una Vita Libera nel Kurdistan. Ufficialmente Pkk e Pjak non hanno nulla a che ve­dere: così almeno ha assicurato il capo del Pjak, Rahmad Haj Ahmadi, durante una visita in agosto a Washington dove ha chiesto e ottenuto finanzia­menti. Il Pkk, che combatte contro un alleato occidentale, la Turchia, è considerato negli Stati Uniti un gruppo terrorista, ma il Pjak non ha questa eti­chetta, perché combatte con­tro uno «Stato canaglia», l'Iran. Tuttavia è chiaro che i due rag­gruppamenti condividono lo­gistica, obbiettivi e lealtà a Oca­lan.



Dopo che sono aumentati i raid del Pjak, i pasdaran hanno triplicato la loro presenza nella regione, e non riuscendo quasi mai a trovare i responsabili de­gli attentati, che compiono dei blitz e ritornano subito dopo nelle basi in Iraq, al di là del con­fine, intensificano la repressio­ne sugli abitanti. Gli spiragli che si erano aperti con Khatami so­no stati tutti richiusi. Chiusi i giornali bilingui, arrestati i giornalisti con accuse di spio­naggio e attentato alla sicurez­za dello Stato, due di loro, Adnan Hassanpour e Hiva Bouto-mar, che lavoravano per la rivi­sta bilingue Assoo (Orizzonti), sono stati condannati a morte.



Cresce anche la povertà degli abitanti, in una regione che è sempre stata tra le più povere dell'Iran perché da sempre negletta dalle autorità centrali. Perfino le coltivazioni sono sta­te spesso messe a fuoco dai pa­sdaran nel tentativo di avvista­re i ribelli.



Il Kurdistan ha un'unica in­dustria agroalimentare, per la conserva di pomodori, nem­meno una fabbrica di marmel­lata o di yogurt sebbene vi cre­scano le fragole più buone del­l'Iran e il latte sia straordinario. Uno su tre giovani è disoccupa­to, l'accesso a posti pubblici è diventato impossibile per un curdo. Per sopravvivere resta solo il contrabbando: benzina, alcool, droga, armi, tutto passa attraverso queste montagne, e i peshmerga naturalmente lo fa­voriscono, in cambio di altrettanti favori e lealtà politica. Co­sì, per le autorità centrali, ogni curdo è un sospetto. Processi iniqui, discriminazioni, sono pane quotidiano.



La gente ha paura, non osa parlare, pasdaran e polizia se­greta sono onnipresenti.



Una stanzetta piena di carte nella città vecchia è la sede di una piccola agenzia di stampa. Una decina di giovani, in mag­gioranza ragazze, raccolgono le notizie che arrivano da tutte le città del Kurdistan e denuncia­no arresti, chiusure di fabbri­che, discriminazioni. Fino a qualche mese fa l'agenzia man­dava le sue notizie all'Una, un'agenzia nazionale a Tehe­ran, ma orai'lina è stata chiusa e solo il giornaleEtemadripren­de ogni tanto i dispacci dell'a­genzia: uno sciopero in una fabbrica tessile, una protesta di studenti, un processo contro cinque colleghi che avevano protestato per l'arresto di un sindacalista, Mahmud Saleghi (tutti condannati a tre mesi di carcere e quaranta frustate). Il direttore della piccola agenzia ci riceve per non venir meno al­la tradizionale ospitalità curda ma è preoccupato che la nostra visita possa costituire un prete­sto per chiudere l'agenzia. «La situazione è diventata irrespi­rabile. Se la repressione conti­nua, ci sarà una sollevazione» dice un redattore del settima­nale Karaftoo. Settimanale per modo di dire, in quattro anni sono usciti 60 numeri. A volte il giornale già pronto è stato vie­tato, a volte è lo stesso direttore che all'ultimo momento decide di rinviare la pubblicazione per riflettere ancora sui rischi. Ka­raftoo ha una tiratura di 5000 copie, che quando compare in edicola vengono vendute nel giro di due giorni. «Il curdo è un curdo in qualsiasi parte del mondo si trovi» è scritto a gran­di lettere sulla porta della redazione.

lunedì 10 dicembre 2007

i riti del folklore tra "magare e fatture"

AMANTEA.Net - Ferlaino racconta i riti del folklore tra "magare e
fatture". Un libro commissionato dall'Accademia degli arrischiati
finanziato dalla regione Calabria
http://www.amantea.net/index.php?option=com_content&task=view&id=1903&Itemid=111
di Lucia Baroni Marino - "La Provincia Cosentina" del 08/12/07

Il profilo di vecchie magare, fatture, filtri magici e antidoti;
l'affascinu e la sfascinatrice; 'u gabbu, le bestemmie e le
maledizioni imbastiscono solo uno degli interessanti capitoli di
un'originale pubblicazione, edita recentemente da Rubbettino,
"Folklore in Calabria tra memoria ed oblio".

Autore, Franco Ferlaino, cultore di etnologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Unical che ha realizzato il testo su commissione dei soci dell'Accademia degli Arrischiati di Amantea, con sede al Palazzo delle Clarisse, grazie ai finanziamenti stanziati dalla Regione Calabria. Di pagina in pagina lo scrittore ripercorre, in lungo e in largo, l'assetto antropologico del territorio amanteano mettendo in rilievo cicli della vita, tradizioni, riti apotropaici, festività religiose, abitudini alimentari, giochi popolari. E' sorprendente l'insieme delle informazioni su ataviche pratiche e rituali affossati dai ritmi moderni. Per fare un esempio al collo dei neonati si appendeva 'u scanticiellu, una minuscola borsa con sale, incenso, un soldo bucato e la medaglia di un santo, contro gli spiriti maligni. La dichiarazione d'amore poteva essere una semplice serenata cantata sotto la finestra dell'amata; mentre le serenate a dispetto, dopo la rottura di un fidanzamento, erano dei veri e propri panale contro la ragazza per rimediare all'umiliazione subita dal maschio.

Si apprende, inoltre, che fino alla seconda guerra mondiale, lo sposo conservava il diritto di rimandare ai suoceri la moglie se fosse stata deflorata anzitempo. Si leggono, altresì, i significati più profondi di gesti e parole. A proposito della strina di Natale, l'autore dice ch'è un'azione che riscalda l'anima e le relazioni con gli amici.
Scrive Ferlaino: "Pare che la tradizione si possa richiamare alla dea Strenia, preposta ai doni di Capodanno, consistenti in piatti di frutta, dolci e miele che venivano offerti sia a lei sia a parenti ed amici. Del resto gli strinari vanno in giromolto tardi quando il convivio è giunto alla frutta e al consumo di dolci ricoperti di miele (turdriddi, scaliddre, pignolata)". Lo scrittore non si ferma qui.
Enuclea nella sua ricerca altre memorie, indicando contaminazioni culturali provenienti da epoche, sepolte dalle incrostazioni della storia, nonché il mondo magico e immaginario dei comuni che rientrano nella costiera tirrenica, centrale all'intera Calabria.

domenica 25 novembre 2007

Due o tre cose sulla fiaba popolare

dal sito: ilquotidiano.it
Due o tre cose sulla fiaba popolare
San Benedetto Del Tronto
Le fiabe popolari si pongono come fondamento della sua personalità, così come le radici che penetrano il suolo sono vita e sostegno dell'albero.

di Antonio De Signoribus*

I personaggi della fiaba popolare sono figure senza corpo, senza un vero ambiente che li circondi; manca in loro ogni rapporto con il mondo passato e futuro, insomma con il tempo. Certamente ci sono persone giovani o anziane, ma non ci sono uomini che invecchiano e nemmeno gli esseri ultraterreni subiscono questo processo.

Questa insensibilità della fiaba al trascorrere del tempo ci è noto soprattutto dalla fiaba di "Rosaspina" dei Grimm, in cui la protagonista, e con lei tutto il seguito, si sveglia dopo cento anni ancora così giovane e bella come un tempo. I fratelli Grimm, poi, non hanno saputo resistere alla tentazione di rendere questo fenomeno ancor più evidente ricorrendo ad alcuni dettagli: "...E a quel bacio Rosaspina aprì gli occhi, si svegliò e lo guardò tutto ridente. Allora scesero insieme; e il re, la regina e tutta la corte si svegliarono e si guardarono l'un l'altro stupefatti.

E i cavalli in cortile si alzarono e si scrollarono; i cani da caccia saltarono scodinzolando; i colombi sul tetto trassero la testina di sotto l'ala, si guardarono intorno e volarono nei campi; le mosche ripresero a strisciar sulle pareti; il fuoco in cucina si ravvivò, divampò, continuò a cuocere il pranzo; l'arrosto ricominciò a sfrigolare; e il cuoco diede allo sguattero uno schiaffo che gli strappò un urlo, e la serva finì di spennare il pollo...".

Insomma, nella fiaba, all'eroe salvatore non passa nel modo più assoluto per la testa di notare qualcosa di sorpassato nelle vesti, nell'architettura, o nel modo di parlare. E la vita riprende dopo cento anni come se niente fosse perché la fiaba rinuncia ad una struttura in profondità sia spaziale che temporale. Anche il bambino, insensibile al trascorrere del tempo, come nella fiaba, la percorre, in lungo e in largo, facendo lavorare la sua fantasia.

"La fiaba, infatti-scrive il grande psicanalista Bruno Bettelheim- ha un tipo di svolgimento che si conforma al modo in cui un bambino pensa e percepisce il mondo; per questo la fiaba è così convincente per lui. Egli può trarre molto più conforto da una fiaba che non da una manovra consolatoria basata su un ragionamento e su punti di vista adulti...".

Essere adulti, significa, infatti "essere adulterati da spiegazioni razionali e disprezzare gli aspetti infantili che si trovano nelle fiabe-dice James Hillman-. L'adulto e il bambino sono ormai posti l'un contro l'altro: l'infanzia significa meraviglia, fantasia, creatività e spontaneità, mentre la condizione adulta significa la perdita di queste facoltà".

Secondo Hillman, dunque, il primo compito che ci attende è quello di lavorare per rendere di nuovo completo l'adulto (l'insegnante, i genitori, i nonni) allo scopo di ridare all'immaginazione quella posizione di primaria importanza nella coscienza di ognuno di noi, indipendentemente dall'età. Come ha spiegato, poi, Piaget, il pensiero del bambino è animistico fino all'età della pubertà. Per via di questo pensiero non solo l'animale sente e pensa come noi, ma perfino i sassi sono vivi; perciò essere trasformato in sasso significa semplicemente che l'essere deve restare muto e immobile per un certo tempo.

Insomma, le fiabe popolari si pongono come fondamento della sua personalità, così come le radici che penetrano il suolo sono vita e sostegno dell'albero. Esse, infatti, gli forniscono la chiave per accedere al mondo della realtà oggettiva, senza entrare in confusione a tutto scapito del suo equilibrio affettivo-emotivo e delle sue future possibilità di socializzazione logica.

Soltanto nelle fiabe, attraverso la catarsi che esse operano nell'animo del bambino si risolvono i problemi interiori universali dell'infanzia e si portano a livello conscio le pressioni profonde che sono in conflitto con l'Io. In altre parole, per dirla ancora con Bettelheim, proprio questo è il messaggio che le fiabe comunicano al bambino in forme molteplici: "che una lotta contro le avversità della vita è inevitabile, è una parte intrinseca dell'esistenza umana, che soltanto chi non si ritrae intimorito ma affronta risolutamente avversità inaspettate e spesso immeritate può superare tutti gli ostacoli e alla fine uscire vittorioso".

*scrittore e antropologo

24/11/2007

sabato 17 novembre 2007

Il culto ctonio di Demetra e Persefone

Gazzetta del Sud 2.11.05
Numerose le testimonianze nei vari siti archeologici siciliani delle credenze connesse al ciclo vegetativo
Il culto ctonio di Demetra e Persefone
A Morgantina uno dei santuari più importanti delle divinità sotterraneeGirolamo SofiaLa Sicilia custodisce nel suo grembo il mistero di Demetra e Kore rievocando, nel racconto del mito greco, il salto nella stagione autunnale. Nel mondo antico esistevano delle cerimonie di iniziazione, i misteri , riservate a gruppi di eletti. Tra i più celebri in Grecia c'erano i misteri di Eleusi, città non lontana da Atene, dedicati alla dea del grano Demetra e a sua figlia Persefone, chiamata in greco “Kore” (fanciulla). Il mito raccontava il rapimento della ragazza ad opera di Ade, re degli Inferi, che l'aveva voluta per sposa, e il dolore della madre Demetra che, per questo motivo, aveva smesso di elargire i suoi doni, cioè i cereali (unico prodotto indispensabile nell'antichità per la sussistenza). La conseguente carestia minacciava gli dei stessi, rimasti privi di sacrifici da parte degli uomini. Così gli immortali avevano posto fine all'angoscioso errare di Demetra consentendo un ritorno limitato e periodico sulla terra della fanciulla, ormai indissolubilmente legata al mondo sotterraneo. L'incontro fugace di kore con la madre ha significato per secoli il ritorno della buona stagione, la rigenerazione della natura e la fecondità e l'abbondanza dei raccolti. L'aspetto rituale di questa vicenda divina era al centro di una grande festa autunnale, chiamata appunto i misteri . Gli ateniesi la celebravano con una processione, che andava fino ad Eleusi, con un rito notturno, al santuario delle iniziazioni dove si rivelavano, ai partecipanti al rito, le “cose sacre”. Questi misteri si diffusero anche nell'occidente romanizzato, in osmosi cultuali e rituali. Basti pensare al mondo romano con i misteri relativi al culto di Cibele ed Attis, provenienti dall'Asia Minore; quelli egiziani d'Iside ed Osiride, infine quelli intitolati a Mitra, dio d'origine persiana. I percorsi archeologici siciliani offrono un'ampia presenza di questi culti ctonici o “demetriaci” legati al mito e a credenze connesse al ciclo vegetativo, dando la possibilità di tracciare indelebilmente, con evidenze archeologiche territoriali, il passaggio di questa credenza cultuale sull'isola. Numerose presenze associate alla sopravvivenza di questo culto e ai rituali ad esso connessi, sono percepibili in particolare nei monumenti archeologici esistenti in alcuni centri della Sicilia centro-meridionale. L'area sacra della Rupe atenea di Agrigento ospita uno dei più antichi santuari ctonici della Sicilia. Esso è delimitato da un muro di divisione “temenos” che isolava il complesso sacro dal resto delle altre strutture; dentro si sono conservati due altari circolari per le offerte incruente alle divinità. Ben più articolato l'altro grande santuario, sempre ad Agrigento, votato alle due dee. Una serie di strutture costituiscono l'intero complesso cultuale: tempietti, altari di cui uno circolare, come tipologia già ricordato in precedenza, riservato alle offerte incruente. Nel centro archeologico di Morgantina, in provincia di Enna, si conserva un altro importante santuario legato alle divinità sotterranee. Il complesso archeologico, nei pressi del teatro di metà IV secolo a.C., nasconde ancora quell'antico misticismo scaturito dalla vicina presenza del lago di Pergusa, luogo dove è nato il mito del rapimento della fanciulla da parte di Ade. A testimonianza di ciò dal santuario di Morgantina provengono numerose e rilevanti attestazioni del culto di Demetra e Kore come evidenzia l'ampia serie di coroplastica “ex voto” che ripropone le due divinità atteggiate in varie forme e pose. Quanto gli abitanti di Morgantina fossero devoti alla dea della terra e del grano e alla giovane Persefone, regina degli inferi e insieme dea essa stessa della fertilità, si intravede dalle numerose testimonianze archeologiche: busti fittili raffiguranti la madre Demetra con polos sul capo; statuette fittili stanti atteggiate come offerenti o talvolta recanti tra le braccia degli attributi della divinità, offerte votive o animali da sacrificare. Una presenza che si riscontra in un lungo lasso temporale (periodo classico-ellenistico) fino alle deduzioni delle prime colonie romane in Sicilia e Magna Grecia (III secolo a.C.). Non è un caso che l'altro importante santuario ctonio si trovi a poca distanza dal lago di Pergusa, e precisamente dell'attuale sito archeologico di Montagna di Marzo, un sito che in questi anni ha conosciuto una costante presenza di attività di scavo clandestino. L'archeologia siciliana vanta pertanto non solo la nascita del mito demetriaco, ma anche una formidabile presenza dell'aspetto rituale e cultuale delle divinità sui luoghi dove la mitologia ellenica ha scritto una delle pagine più mistiche della sua cosmogonia.

giovedì 15 novembre 2007

Luoghi e modi della propagazione delle tesidel monaco tedesco: osteria, predicatori, libri proibiti

IL GAZZETTINO
Luoghi e modi della propagazione delle tesidel monaco tedesco: osteria, predicatori, libri proibiti
15/04/2003
Nell'Agordino quando si parla di canòp il pensiero va subito alleminiere in modo generico, ovvero alla presenza di manodoperatedesca, de Alemania si legge nei documenti, che fu impiegataper lungo tempo nei siti minerari e fusori di Valle Imperina,Forno di Canale, Cencenighe, Taibon e Caprile. Su di loro si èormai scritto molto, ma rimaneva ancora un lato da scoprire enon propriamente legato alla loro attività professionale.Bisogna ricordare che nel sec. XVI i canòp venivano da Tirolo,Baviera, Sassonia, Svizzera e Boemia. Erano di solito uomininon sposati, di età giovane e frequentemente si sposavano condonne del luogo. Della loro integrazione si dubitava molto e larelazione della visita pastorale del vescovo Giovanni BattistaValier del 1583 ricordava che non "si può sapere se leggono libriproibiti". Eravamo in piena Controriforma ed i canòp erano vistinelle nostre vallate come coloro i quali insinuavano l'eresialuterana e andavano contrastati con la forza della dottrina e delrigore morale, elementi dei quali molti sacerdoti locali eranosempre meno dotati. Un vero pericolo per la chiesa locale, unincubo per gli ambienti curiali.Dell'argomento s'è occupato il canalino Loris Serafini conun'interessante tesi di laurea alla facoltà di lettere dell'Universitàdi Trento discussa con la prof.ssa Silvana Seidel Menchi. Il titolodella tesi è eloquente: "L'eresia in miniera. I minatori tedeschidell'Agordino e la diffusione della riforma protestante in Italia dal1545 al 1591". L'autore, dopo aver inquadrato la situazionereligiosa ed ecclesiastica nell'Agordino all'inizio del sec. XVI ed ilpanorama produttivo delle miniere, ha analizzato la presenza deicanòp e la loro influenza nel dialetto ladino-veneto, le cui traccesono ancor oggi evidenti in cognomi e taluni toponimi: Zaz Friz,Bulf, Chenet, Mottes, Ghebber, Zais, Tazzer, Andrich, Dell'Osbel,Gaz, Chierzi, Spat, Mattarel.Il corpo centrale della dissertazione di Serafini è costituitodall'ampio capitolo dedicato al problema dell'eresia protestanteed al rapporto con l'autorità costituita. L'autore si sofferma suiluoghi e sui modi della propagazione delle tesi considerateeretiche: l'osteria, i predicatori, i libri proibiti, i bellunesi ed ifeltrini propagatori delle idee luterane. Qui entrano in ballol'Inquisizione e le azioni poste in essere dalla chiesa locale percombattere la "peste lutherana", respingere il "contagio" epurificare le menti per il ritorno "nel grembo della santa madreChiesa". Il vescovo Campegio riordinò il tribunaledell'Inquisizione, chiamando il teologo fra Antonio Dal Covolo,poi il vescovo Giulio Contarini si avvalse del frate conventualeBonaventura Maresio. Nelle due pievi agordine, tra il 1545 ed il1591, furono celebrati dieci processi per eresia a mo' dideterrente.Finirono davanti ai giudici Paolo Savio di Agordo, il medicoAgostino Vanzo di Schio, qualche oste del luogo, tutti perinosservanza dell'astinenza. Colpe ben più gravi commiseGiovanni Paolo Andrich di Falcade che aveva osato parlarecontro "la messa et li officii divini". Nel 1591 il pievano di Canaledenunciò Bartolomeo Murer, muraro abitante al Forno, reo diaver detto che "quello che entra per la bocca non fa danno al'anima, ma quello che uscisce fuori". Loris Serafini riferisce poimolti particolari su altri processi, la cui conclusione si è persanelle more di documenti in parte reticenti o andati persi.L'appendice documentaria, comunque, rivela modi e forme diprocedere nelle indagini che fanno capire la dimensione delfenomeno.Un'ultima annotazione. Furono puniti ribelli e streghe: GiovanniFrancesco e Giovanni da Crostolino per aver macinato nel dì difesta, il farmacista Antonio Tognol per aver esercitato alladomenica, Maddalena di Bartolomeo della Balla da Sottoguda eDomenica Boninsegna da Selva di Cadore, messe alla berlinaper pratiche da sabba. Come Orsola da Cuore e Maria Luciani"Miota" da Petigogno, ma era già il 1607, ultimo strascico diun'"epidemia" anticattolica che scosse a fondo la chiesabellunese ed agordina in particolare.Dino Bridda

Alla scoperta della pittura dedicata alleprofetesse

GAZZETTA DI MODENA
Alla scoperta della pittura dedicata alleprofetesse
aprile 2003
di Giovanna Frigieri"Sibille: un tema esoterico per il Rinascimento padano" è stato iltitolo dell'incontro che si è svolto l'altra sera nella salaconferenze in via Rocca. All'incontro, promosso con lacollaborazione dell'assessorato alla cultura, ha partecipato unbuon pubblico.Antonio Musiari, professore di storia dell'arte a Torino, in questaserata ha messo in evidenza il Fregio delle Profezie, un affresco(1522-1523) che si trova nella chiesa di S. Giovanni Evangelistaa Parma ed è stato creato da Correggio. L'opera ha 13 campate,profeti e sibille. In ogni fascia c'è un profeta seduto a sinistra euna sibilla a destra. In mezzo ai due personaggi ci sono dellescene con un sacrificio ebraico.«Queste profetesse - ha detto Antonio Musiari -, pur nonessendo realmente esistite, hanno un'ispirazione divina. Hannoorigine nella zona della Frigia e continuano a persistere oltre ilmondo classico. Qui sono libere da ogni condizionamento diculto e portano cattivi presagi come calamità e guerre. NelMedioevo si nota che le Sibille nei testi sono accettate, mentregli dei pagani non vengono presi in considerazione. Le indovinevengono accostate alle streghe e addirittura a Santa Rita daCassia. Nel Quattrocento c'è una grande riscoperta di questeprofetesse. Alla fine di questo secolo su questo temac'è ancheun aumento di rappresentazioni iconografiche».Durante la conferenza sono state mostrate delle opere pittoricherelative alle indovine.Nel Fregio delle profezie di Correggio (1522-1523) le Sibillesono rappresentante attraverso l'eccitazione, mentre in quella diAnton Rapahel Mengs (1761) continua ad esserci l'euforiaanche se il pittore è lontano dal Correggio. Un'altra pittura è laSibilla Cumea, che è rappresentata nel 1766 da Teresa OrsiniCuttica di Cassine e si trova a Parma nella Galleria Nazionale.

La scoperta a Madonna del Monte

IL MESSAGGERO
La scoperta a Madonna del Monte
01/04/2003
Ceri consumati, resti di candele, ciottoli levigati disposti asemicerchio, ossa umane dissepolte e, soprattutto, nastri...Nastri rosa e bianchi, nastri colorati, di quelli cheaccompagnano i doni o i matrimoni, appesi sui rami delsambuco, pianta magica legata alle iniziazioni di primavera dellestreghe, al pari del noce e del fico. Sono tracce rituali,esoteriche, ritrovate nei giorni scorsi nell'ex chiesa di Madonnadel Monte, lungo la strada che unisce il lavatoio di SantaVeneranda al cimitero di Villa Fastiggi. Una località di anticasuggestione, dove i racconti sulla chiesa sconsacratasconfinano nella leggenda Vera è la storia della chiesa ormai inrovina, sorta nel 1509 e destinata a lazzaretto con il suo cimiterodi campagna, che oggi ha lasciato in eredità teschi e scheletri apezzi che affiorano dai confinanti campi arati. Leggende di paurasono le storie che assorbono la strana aura della zona e cheevocano fantasmi, voci e rumori notturni. In passato l'anticoluogo di culto è stato anche teatro di riti "neri" e ritrovo di adepti a sette arcane, oggi, al di là di"prove di coraggio" adolescenziali, il suo fascino esoterico emisterico resiste ancora, se qualcuno ha avuto la pazienza inquesti giorni di ripulire dai rovi e dalle erbacce quel che restadell'ingresso del rudere per ricavarvi un facile accesso e unposto di raduno per appuntamenti segreti dove i resti del recentebivacco fanno propendere per un rito magico ed evocativoavvenuto nei giorni scorsi, legato all'equinozio di primavera.

A Magione in scena "Segalavecchia"

IL MESSAGGERO
A Magione in scena "Segalavecchia"
29/03/2003
Dopo quasi venti anni di silenzio, quando anche quest'ultimatradizione dell'Umbria popolare sembrava definitivamentecancellata, il Teatro di Magione ripropone il "Segalavecchia",un'antichissima rappresentazione teatrale, con significati ritualie satirici, strettamente legata ad un mondo contadino che nonesiste più.Lo spettacolo, un tempo itinerante per la piazze dei paesi eaddirittura le aie di contadini, rimasto da secoli invariato nellastruttura nei personaggi e nei testi che si tramandano di padrein figlio, verrà rappresentato al Teatro Mengoni di Magione, dauno degli ultimi gruppi di attori ancora attivi: la «Compagnia delSegalavecchia di Magione».Lo spettacolo sarà presentato dall'antropologo Paolo Baronti,dell'Università di Perugia, e dalla dottoressa Paola Pagana checosì spiega il Segavecchia: «È un rituale tipico del mondoagricolo, che affonda le radici nel periodo pre-cristiano. Si trattadi rito propiziatorio, atto a favorire il rinnovamento dellavegetazione e del genere umano tramite la morte di ciò che èvecchio, per preparare la propria rinascita».«Protagonista è la "vecchia" che incarna i vari malanni dellastagione trascorsa - aggiunge Pagana - e la sua 'messa amorte' rappresenta il passaggio alla nuova stagione. Presentein varie parti d'Italia, il Segavecchia, che ora non conosce più ifasti di un tempo, era particolarmente sentito nella Toscanameridionale ed in Umbria».

Un «paniere» che contenga tutte le feste religiose di Scicli

LA SICILIA
Un «paniere» che contenga tutte le feste religiose di Scicli
27/03/2003
Scicli. Creare un paniere che metta insieme le feste religiose diScicli per farle diventare il punto di forza di una proposta turistica.E' il senso di un progetto che l'amministrazione comunale diScicli sta portando avanti per mettere in rete e coordinare gliinterventi di pubblicizzazione delle tradizioni locali. In particolarele tre feste di primavera, la cavalcata di San Giuseppe, la Festadel Cristo Risorto, e la Madonna delle Milizie rappresentano tremomenti importanti per la promozione della città ben oltre iconfini della provincia. Quest'anno la cavalcata di San Giuseppeè stata caratterizzata da un fuori programma dovutoall'inclusione della città tra i beni Unesco: la carovana di cavallibardati con fiori di violaciocca ha sfilato per la prima volta nellabarocca via Francesco Mormina Penna.Il senso del progetto messo a punto dall'assessorato allosviluppo economico è quello di puntare alla riscoperta delletradizioni, come matrice di identità culturale e possibile volano diinteresse turistico. Sia la Pasqua che la Madonna a cavallo,l'unica Madonna guerriera della cristianità, rappresentano imomenti in cui la presenza di turisti a Scicli è più forte, proprioper la singolarità di queste tradizioni religiose, che a volteaffondano in parte le proprie radici in feste pagane. Scicli città difeste e tradizioni singolari, uniche nel loro genere: potrebbeessere questo uno degli obiettivi da perseguire creando uncalendario di appuntamenti culturali che precedono e seguono imomenti clou rappresentati dalla festa vera e propria. Unriscontro in questo senso si è avuto nei giorni scorsi, quandol'intersecazione delle giornate di primavera organizzate dalFondo Ambiente Italiano, una iniziativa decisamente elitaria, conla cavalcata di San Giuseppe ha prodotto come risultato unrecord di presenze.G. S.

Antiche usanze legate alla ricerca della prosperità

GIORNALE DI BRESCIA
Antiche usanze legate alla ricerca della prosperità
da "il giornale di brescia", 27/03/2003
BASSA -
Quest'anno succederà a Verolavecchia, Orzinuovi,all'oratorio di Verolanuova e Pompiano , a San Paolo, in unamiriade di piccoli e grandi paesi sparsi sui confini cremonese emantovano, dove la tradizione è più viva, come Volongo, Cigia deBotti, Ostiano, per citarne solo alcuni. «Si brucia la vecchia ...»gridano ai margini del corteo di ragazzi che con pentole ebastoni procurano un baccano infernale. Ciò serve a rianimare ilclima mesto della Quaresima. Sopra un grande carroun'altrettanto enorme fantoccio dalle forme umane: la vecchia,curva, malconcia, col naso adunco smisurato, e in molteoccasioni con una culla di legno fra le braccia, viene fatta sfilareper il paese, di porta in porta, quasi fosse una divinità malvagia.La donna va a morire in un campo asfegher (incolto), pocolontano. La sua fine sarà orribile, verrà bruciata viva dopo unprocesso sommario ove saranno elencate e lette in vernacolo lesue malefatte e le cattiverie da lei operate. La sceneggiatura el'allestimento coreografico farebbero pensare che il fatto abbiaavuto origine e abbia attinto le sue componenti dal Medioevoquando, in Europa, si consumavano dei veri e propri sacrificiumani e innumerevoli innocenti venivano bruciate come streghesulle piazze, invece il rito del rogo della strega o vecchia, haorigini molto più remote e si ricollega alla tribale riverenza cheintere civiltà agricole ebbero nei confronti di madre terra, inparticolare vuole celebrare la vittoria della bella stagione sulcattivo e sterile inverno. La presenza della culla è il simbolodella fertilità, attributo che certamente la vecchia ha perso, maciò non conta, quello che ha importanza è l'essenza dellacerimonia stessa che senza dubbio è intesa ad esaltare eprocurare fertilità ai campi. L'ordine, durante lo svolgimento delrito, è mantenuto da un'altro sconcertante personaggio:l'Arlecchino. Non la simpatica figura ilare, ma per l'occasione inversione originale, strettamente legata ai Culti agrari. Lamaschera non si presenta con l'allegro quanto originalecostume, ma è una figura più paurosa che comica, malvestita, lafaccia sporca di nero carbone prelevato direttamentedall'inferno. Sulla testa un cappellaccio e fra il cappello un pocoinpagliato una serpe sinuosa, simbolo fallico che ricorda qualisono state le sue vere origini. Anticamente questo demoneaveva dimensioni enormi e, armato di clava (che diventerà ilmazzopio), guidava il tristemente famoso Esercito furioso, sortadi orribile schiera di morti dall'entità oscura che passavanocome un turbine di paese in paese seminando il terrore.L'ultimo atto della cerimonia vide l'epilogo del dramma chel'umanità ha fortemente voluto e creato. La vecchia diventa allorail capro espiatorio e viene caricata delle responsabilità di tuttoquanto di male è avvenuto nel mondo, o nella piccola comunitàdove si consuma il rito, la vegliarda incarna anche l'annovecchio e ormai inutile, ma soprattutto la stagione fredda chevolge al termine e che finalmente dovrà lasciare il passo allaprimavera. Il falò della vecchia è in definitiva un atto purificatore enon c'è dubbio che esso sia il risultato della fusione tra elementidi origine disparata e arcaica. Gian Mario Andrico

Certe notti, nei parchi della città

IL RESTO DE CARLINO
Certe notti, nei parchi della città
26/03/2003
Certe notti, nei parchi della città, si celebrano riti pagani.Invocazioni a Diana. Si chiudono cerchi magici e si accendonofuochi sacri. Certe notti come il 21 marzo. Con il mondosconvolto dalla guerra. Le piazze piene di ragazzi. Le facoltàoccupate. Ecco, la sera del 21 marzo — anzi la notte — la cittàera troppo distratta dall'attacco per accorgersi che nei suoigiardini si consumavano riti propiziatori all'equinozio diprimavera. Data simbolica nella storia dei popoli, finestra apertasul mondo pagano.Contatto col misteroVa così. Comunque uno la pensi, bisogna fare i conti con gruppidi ventenni — ma più spesso sono vicini ai trenta — ches'imboscano e recitando formule cercano il loro contatto con ilmistero. Lo sanno bene al Gris, il gruppo ricerche sette dellaCuria. E' così il 21 marzo. E' così per Calendimaggio — «quandosi aprono porte tra le varie dimensioni» — e per San Giovanni, il25 giugno. Per chi ci crede, è la notte delle streghe. 'Daemonia'è uno di questi sacerdoti. Ha 26 anni, è battezzato con un nomeche più cattolico di così non si può. E' pittore disoccupato, studiada infermiere, fa il musicista per passione. Il sabato pomeriggioinfila calzoni di pelle, sfodera borchie e catenine per provare conun gruppo metallaro in una cantina di via Zanardi. 'Catenepesanti', si sono battezzati. Hanno anche scritto una canzonesulla morte del piccolo Samuele, il piccino massacrato a Cogne.Nessun verdetto. S'immagina solo la dannazione perl'assassino. Il 'sacerdote' vuole essere chiamato con il nomed'arte, Daemonia appunto, «perché mia mamma potrebbearrabbiarsi...». Dunque venerdì sera è andato a Villa Ghigi, super i colli di San Mamolo, con alcuni amici, mai gli stessi. Sonouna 'consorteria esoterica', niente di ufficiale. Cani sciolti. «Masono i gruppi più numerosi, questi — avverte —. Sfuggonoanche alle 'mappe' della Chiesa». Lui, cantante in duecomplessi metallari — con il 'Daemonia Mundi', formazionecalabrese, si è esibito da poco anche in città — ha raccolto isodali attorno a sé, nel parco; ha pronunciato una formula percacciare gli spiriti maligni — si chiama bando —, ha lettol'invocazione di rito e alla fine tutti quanti hanno pensato conintensità qualcosa. Da bambini si sarebbe detto: esprimi undesiderio. Ma per Daemonia il rito è una cosa seria. «Tanti lofanno solo per moda — è critico —, ad esempio i ragazzetti.Come quelli che erano vicini a noi, l'altra sera. Avevano ancheacceso un fuoco...». Per lui questa è «una ricerca spirituale. Uninteresse che coltivo da quando ero piccolo. E' da allora che micapitano cose strane... Sono cattolico, vado in chiesa. Non citrovo contraddizioni. Per essere satanisti bisogna prima esserecristiani». Poi subito corregge: «Ci sono due tipi di satanisti.Non mi considero certo tra quelli che adorano il diavolo comefosse un dio. Sto con la corrente gnostica, con ilneopaganesimo. Raggiungere la perfezione spirituale,insomma l'illuminazione, seguendo un particolare iter magico.Questo è il mio scopo. Con i preti ci parlo. Ho anche un amicoesorcista. Mi ripetono tutti la stessa cosa: lascia perdere. Nonho mai partecipato a una messa nera. Sono contrario alledroghe. Con la pratica dell'esoterismo, forse, si acquisisceanche un potere sugli altri. Ma io non l'ho mai sfruttato. A meinteressa il bene».Una copia di MansonLa copertina di un cd lo mostra combinato come un attore diDario Argento o piuttosto una copia di Manson. Tiene un — finto— cuore sanguinante in mano, sulla fronte simboli esoterici.Uno dei suoi idoli, confessa, è Aleister Crowley, il santoneinglese morto nel '47. Il mago tenebroso che influenzò anche glihippies. Un Anticristo, si definiva lui. Si stabilì a Cefalù, fondòuna villa-abbazia. Misticismo ma anche sesso e cocaina. Ungiorno Mussolini gli mandò i carabinieri. E il mago fu costretto atornare a casa. Con i suoi pamphlets contro il duce.
di Rita Bartolomei

I fuochi accesi hanno il potere di risvegliare la natura e annunciare l'arrivo della Primavera

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO -
Nell'agro di Viggianello, a Rotonda e sul Pollino si organizzano succulente sagre all'aperto
dal sito "gdmland.it" 19/03/2003
I fuochi accesi hanno il potere di risvegliare la natura e annunciare l'arrivo della Primavera
NEMOLI
Plenilunio e falò propiziatori hanno salutato la notteappena passata la festa di S. Giuseppe l'avvento dellaprimavera e non solo, anche in Basilicata. Comune a quasi tuttala dorsale appenninica lucana - e riscontrabile in molte zonedella penisola - l'usanza, una volta, era riferibile pure alla primadomenica di Quaresima in tutta Europa. Altra data calendariale ecapodanno contadino, oggi tributata al Padre putativo di Gesù epatrono dei falegnami, il 19 marzo non è quindi soltanto laconsumistica «festa del papà», quanto una manifestazionepopolare, che nella sua semplicità arcaica attinge a cerimonialiarcaci e pagani in onore del «dio sole». I falò, oggi ancoraaccesi hanno motivo di esistere per diversa ragioni, non ultimaquella di risvegliare la natura secondo i cicli stagionali e dellarigenerazione cosmica. Al pari delle cataste ardenti in onore diSant'Antuono, specie sulla collina materana, le pire di S.Giuseppe hanno carattere lustratorio e apotropaico. Servonocioè ad allontanare gli spiriti maligni e le avversità stagionali. Lapratica, oggi assoggettata dalla religione cristiana, rispecchiatutti gli elementi che caratterizzavano i fuochi primordiali - comesi legge nelle intuizioni di James Frazer ne «Il ramo d'oro». Sicapisce così la similitidine che si riscontra nei «Focarazzi 'i SanG'sepp» di castelluccio Inferiore con le più celebri «fogarazze»romagnole del poeta-sceneggiatore Tonino Guerra, esaltate inquel capolavoro di Federico Fellini che è «Amarcord». Vicino atali focolari si dialoga, si mangia e si beve, si balla e piùscatenate sono le danze maggiori e migliori saranno i raccolti.Ma c'è di più il salto sulle fiamme come il passaggio sul fuocoquasi spento di persone e animali serve a purificare da malannied è beneaugurante per la prole. L'abitudine, poi, di conseravrnecome amuleti dei resti o braci per portarli nelle case o didisperderne le ceneri nei campi e persino nei pollai, serve a«benedire e proteggere» le mura e aumentare la quantità diuova.Si spiega così l'intento ludico di rubare - ma si tratta di un furtoautorizzato - di «frascine» in quel di Castelluccio. Rami diginestre, olivo, sarmenti di vite provienenti dalla potatura portanoin alto le lingue di fuoco. Tra le fiamme, nei vicoli e negli slarghi,anche sedie, mobili e suppellettili, a significare il vecchio che sene va. Un po' come accade con la bruciatura della«Segavecchia» , paragonabile alla befana e forse di più allestreghe dell'inquisizione o, più semplicemente, il fantocciodell'anno che passa (anche impersonificato dal Carnevale).Così per un magico incanto minuscoli camini all'aperto,impreziositi da succulente sagre all'aperto, si apparecchiano intutto il Pollino: nell'agro di Viggianello o a Rotonda, dove a PianoIncoronata e Fratta, nella festa del Convito, si mangiano leoraziane «laganeddre» con ceci. Altri mucchi di legna e fraschebrillano intorno alla cappella di S. Giuseppe, presso la Tavernadel Postiere a Lauria, e poi in quel di Castelsaraceno. Tra i vicolidi Latronico, Carbone per la degustazione di dolci e manicarettidi tutte le massaie come accade intorno ai «fucaruni» diMoliterno e Sarconi. E se a S. Martino d'Agri ci sono maccheronial «ferretto» a Spinoso si preparano «patane arrustute» sotto lacenere. Prodotti tipici pure a Ruvo del Monte e Rionero (confagioli e salsiccia). E la serie continua con i falò (focare, fanove,focariedd, fucanoie - o fuochi nuovi) a Paterno, Marsico Nuovo eVetere, Brienza, Tito, Picerno, Ruoti, Filiano, Atella, Venosa,Ripacandida, Barile, Calciano ecc.Mille fuochi per scacciare le tentazioni e le «pestilenze» del terzomillennio. Mille fuochi di pace intorno ai quali fare festa,incontrarsi, dalogare, partecipare e condividere il calore, glialimenti e l'allegria, come i sapori e i saperi, recuperando lamemoria e i suoni di una volta come quelli degli ormai rariorganetti e zampogne, colonna sonora di un mondo che forse non c'è più...
Salvatore Lovoi

La notte dei falò e della pace

IL RESTO DEL CARLINO
La notte dei falò e della pace
da "il resto del carlino " 2003/03/18
La notte dei falò e della pace
La focarina di San Giuseppe , nata come un rito paganopropiziatorio di origine celtica nei riguardi dell'allungamentodelle giornate di sole e di luce (dei quali l'uomo haassolutamente bisogno sia in senso fisico, sia religioso), perringraziare e chiedere auspici favorevoli alla successiva annataagricola, assume quest'anno connotati particolari, legati ai ventidi guerra sempre più imminenti, in Irak.La focarina è stata a lungo simbolo propiziatorio per allontanarelo spettro della guerra oltre che rinverdire una tradizione molto invoga da noi, prima dell'avvento dell'era del consumismo edell'industrializzazione.Quando nelle nostre zone era prevalente l'attività agricola, nelleaie dei casolari di campagna si aspettava la vigilia di SanGiuseppe per bruciare i resti delle potature e di altre lavorazioniagricole come in una sorta di rito di purificazione (il fuoco,appunto, e il valore del bruciare sia per allontanare edesorcizzare l'inverno, il maligno sia per annunciare la primavera)che, nel corso dei secoli, si è sostituito al rito pagano.Allora come oggi, si approfittava del momento di aggregazionepaesana per festeggiarne la comunità e favorire lasocializzazione di tutti i suoi componenti. In epoca romana ilprimo mese dell'anno era marzo, quando sole appare ancoraspento, e per questo si accendevano fuochi per «dargli forza ecalore» per risplendere.Nel 1379 Carlo Malatesta bandì i fuochi perché ritenuti di originepagana ma la chiesa si oppose a queste decisioni collocandola data della focarina al 18 marzo, vigilia di San Giuseppe, ericonsegnandola al calendario espressamente come ritocristiano.Per tornare ai giorni nostri e al rischio di una guerra, i dolciricordi della feste di paese sono riportati anche da CesarePavese ne «La luna e i falò», in un passo denso di suggestionee struggimento che acquisisce in queste ore il sapore di untragico presagio; ambientato nell'immediato dopoguerra i fuochisono profanati da altri falò, che non sono più quelli allegri dellefeste di un tempo, ma segno di disperazione, dolore, guerra erisentimenti non ancora sopiti.Stasera a Martorano, in via Battelli, le sezioni del quartiereRavennate di Ds, Margherita e Pri organizzeranno una focarinaper la pace alle 20.A Savignano sul Rubicone, invece, i giovani della parrocchiaSanta Lucia danno appuntamento a tutti alle 20.30 davanti allostadio comunale per il tradizionale falò. I giovani sono invitati aportare una torta da dividere con i presenti.di Edoardo Turci

Formule per bruciare l'inverno edifendere i raccolti

CORRIERE ROMAGNA
Formule per bruciare l'inverno edifendere i raccolti
dal "Corriere romagna.it" martedì 18 marzo 2003
E' la tradizione ad alimentare i fuochi di San Giuseppe. Unatradizione mai sopita, antica come buona parte delle culture. Ilculto di San Giuseppe è antichissimo, anche se nell'occidentesi diffuse solo nel 9° secolo, per diventare poi liturgico nel 1400.La vecchia tradizione risulta comunque assai più antica: l'origineè da far risalire alle feste compitali che onoravano, con i fuochi,la nonna dei Lari, la dea Larunda e la dea Mania, l'immaginedella quale era esposta sulle facciate delle case. Altre ricercheconfermano che l'accensione dei fuochi in marzo era anche unatradizione dell'antica Roma: i pastori cercavano con questi falòdi propiziarsi anche i favori della dea Palilia, protettrice deiraccolti e delle messi. Alcuni ritengono addirittura che i falòabbiano addirittura tradizioni celtiche. In epoca moderna icontadini bruciavano le potature poichè, in questo modo sibruciava ed esorcizzava l'inverno (e il maligno). Spesso ilfantoccio di una strega veniva posizionato sulla catasta di legna.Infine, sempre legata a marzo e alla luce, c'è un'altra curiosausanza che è stata attiva in Romagna fino a tutto il 1800: quelladi mostrare il deretano al dio Sole. Ma non si trattava di unsegno di spregio: era un modo per preservarsi dalle scottaturedella pelle (facili nel periodi di lavoro nei campi) ma soprattuttoper difendere i raccolti. Allo spuntar del sole, i romagnoli siscoprivano il deretano e lo mostravano al sole nascente (c'erachi saliva anche sul tetto di casa per farlo). La formula darecitare era: "Merz, cùsom quest e nò m'cusr ét" (Marzo,abbronzami questo e non cuocermi altro).Filippo Cappelli