martedì 22 gennaio 2008

La parola incantata

dal libro di:
Daniela Bisagno, La parola incantata, Torino, Edisco, 2002; 2006, pp, 223-224:

"L'IMMAGINARIO EBRAICO-ORIENTALE: ANGELI E DEMONI

"Anche nell'immaginario religioso degli antichi ebrei, il mezzodì era il momento consacrato alle apparizioni soprannaturali, a quelle angeliche (è a mezzogiorno che i tre angeli di Dio si manifestano al patriarca Abramo, per annunciargli la nascita del figlio Isacco), come a quelle demoniache. È questa infatti l'ora pericolosa in cui irrompe, con tutta la sua forza malefica, il temibile demone 'devastatore' (yashud), provocando epidemie, febbre malarica e mietendo morte intorno a sé. Personificazione del contagio e della malaria, che si diffondevano nelle ore più calde della giornata, il demone meridiano era una figura frequente nell'immaginario dei popoli orientali.

"IL KETEB E IL DEMONE CORNUTO

"Un'altra figura mostruosa che, nelle credenze popolari ebraiche, usava manifestarsi nell'ora di mezzogiorno, era il demone keteb, un mostro ricoperto di capelli e dotato di un occhio solo posto vicino al cuore. Il keteb, che infieriva soprattutto nei mesi estivi e nelle ore più calde della giornata (dalle dieci antimeridiane alle tre meridiane),aveva l'abitudine di rotolare in avanti come una palla e di provocare la morte istantanea di tutti coloro che avevano la sventura di incontrarlo. Per questo, si raccomandava ai maestri di scuola di lasciar uscire i bambini non dopo le dieci, al fine di risparmiare ai piccoli l'incontro pericoloso con il demone 'rotolante'. Le leggende ebraiche narrano anche di un altro demone, monocolo come il keteb, un mostro cornuto che si faceva vivo a mezzogiorno, soprattutto nei mesi estivi e aveva l'abitudine di girare continuamente in cerchio.

"I DEMONI DEL MEZZOGIORNO NELLA RADIZXIONE CRISTIANA: L'IPPOCENTAURO

"Anche le leggende cristiane attestano l'esistenza dei demoni meridiani, figure mostruose che presentavano molte affinità con quelle concepite dall'immaginario pagano ed erano in buona parte un'eredità delle credenze greche antiche. Nei racconti sulla vita di sant'Antonio, ad esempio, si parla dell'ippocentuaro, un essere per metà uomo e per metà cavallo, che aveva la consuetudine di apparire a mezzogiorno, sotto i raggi ardenti del sole e di terrorizzare il santo. Gli studiosi sostengono che questo mostro fosse una figura strettamente legata alle Sirene, le quali, nell'immaginario arabo, erano creature mostruose abitanti del deserto, raffigurate con corpo in parte umano e in parte equino.

"LA FIGURA DI DIANA-ARTEMIDE NELLE LEGGENDE MEDIEVALI

"D'altronde, l'ippocentauro non è l'unico essere demoniaco creato dall'immaginario cristiano su suggestione di una figura mitologica greca. Le leggende cristiane medievali, ad esempio, testimoniano l'esistenza di un altro demone, altrettanto temibile,che si manifestava nell'ora di mezzogiorno e che veniva chiamato col nome di Diana-Artemide, la dea-cacciatrice, sorella del dio Apollo. Questa figura mitologica, che già nell'antichità pagana presentava molti aspetti malefici (si credeva ad esempio che il suo sguardo, oltre a essere pericoloso per gli uomini, avesse anche il potere di rendere sterili gli alberi o di farne cadere a terra i frutti), veniva rappresentata dai cristiani come una specie di furia. Vestita da cacciatrice, con l'arco e le frecce appesi alle spalle, essa percorreva a mezzogiorno le selve, seguita da una muta di cani o accompagnata da un ampio stuolo di demoni: chi per caso si fosse imbattuto in lei, veniva immediatamente assalito dalla collera, da desideri illeciti e impuri, quando non si ammalava di sonnambulismo.

"LE STORIE DEL PRETE IMPICCATO E DEI DIAVOLI LANCIATORI DI PIETRE.

"Gli effetti che la visione di Diana-Artemide causava negli uomini sono molto diversi da quelli provocati dagli altri demoni meridiani, di cui parlano le leggende medievali e a cui gli autori cristiani attribuivano l'insorgere di impulsi diabolici nelle persone. Lo storico francese Gregorio di Tours (538-594), per esempio, racconta il caso di un prete mendicante, il quale, in pieno mezzogiorno, era stato assalito da un'entità demoniaca e si era impiccato con una fune in casa sua. Mezzogiorno è anche l'ora in cui si vedono i fantasmi e in cui il diavolo in persona appare nei panni di una monaca, talvolta insieme alle streghe sue compagne. Non meno nefasto il demone notturno (un'altra entità malefica che si manifestava intorno alla mezzanotte), il demone meridiano si poteva combattere ricorrendo a esorcismi, a scongiuri, incantesimi, di cui ci è pervenuto qualche esempio attraverso antichi manoscritti.

"I MONACI E L'ACCIDIA

"Fra le varie conseguenze attribuite dagli antichi all'influsso del demone meridiano, una delle più gravi era senza dubbio l'accidia, che aggrediva soprattutto i monaci rinchiusi nei conventi. Il religioso colpito da questa malattia veniva assalito dal disgusto per le sue occupazioni quotidiane, comprese le letture dei libri sacri, da una grande stanchezza e spesso da una fame lancinante. Le sue facoltà razionali erano completamente annebbiate, per cui gli riusciva difficile applicarsi allo studio, come a qualsiasi altra attività che richiedesse un benché minimo impegno. In questo stato di depressione temporanea ,il monaco diventava preda di brutti pensieri, in molti casi anche di desideri carnali e illeciti, che venivano severamente condannati dalla Chiesa. Questo spiega il motivo per cui l'accidia, che veniva chiamata anche 'demone meridiano', fosse considerata dai teologi l'effetto di un'opera diabolica e compresa nel novero dei sette peccati capitali."




pp. 236-237:

"Come i greci, anche i romani antichi possedevano un vasto repertorio di superstizioni, di cui una parte era stata importata dal mondo greco-orientale, un'altra era stata ereditata dagli etruschi, e un'altra, infine, era un prodotto locale, frutto dell'immaginazione spontanea di questo popolo. Le Lamie, per esempio, figure terrificanti particolarmente golose di bambini, di cui andavano a caccia, erano il corrispettivo della Mormò greca, raffigurata come una donna spaventosa con una gamba d'asino. I Lemuri, le ombre dei morti, erano invece un prestito della religione etrusca, maestra e guida di quella romana. Sii trattava di fantasmi, che vagavano nel mondo dei vivi, perché incapaci di vincere la loro attrazione per la vita terrena; oppure di anime di persone morte il cui corpo non era stato sepolto e onorato, come prevedevano i riti, e che continuavano a vagare sulla terra, per esortare i superstiti a seppellirne il cadavere, ponendo così fine alla loro pena.

"LUPI MANNARI, VAMPIRI, STREGHE E MOSTRI MARINI.

"La credenza negli spettri era diffusissima in Roma: c'erano case spiritate, che erano state in passato scenario di qualche delitto e che diventavano perciò la meta preferita dei fantasmi dei poveri assassinati, i quali avevano l'abitudine di frequentarle nottetempo, accompagnando le loro manifestazioni con fragore di ferro e di catene, Altre figure paurose, che compaiono accanto agli spettri nella classifica dei mostri romani, sono i lupi mannari, chiamati in latino versipelles. I lupi mannari erano uomini che, nottetempo, si trasformavano in lupi e, in queste sembianze, assalivano gli ovili, per far scorpacciate di pecore, prima di riprendere, con l'apparire del giorno, il loro aspetto umano. L'oscurità ,da sempre scenario prediletto dai fantasmi e dai demoni, offriva anche lo sfondo ideale per i voli notturni di certe vecchie streghe che, come testimonia anche lo scrittore Apuleio nelle sue Metamorfosi, conoscevano l'arte di trasformarsi in uccelli e svolazzavano, malefiche, nella notte, terrorizzando i passanti. Non meno temibili erano gli strani mostri dei mari settentrionali, mezzo uomini e mezzo belve, e l'uomo marino, molto temuto dai naviganti, il quale di notte saliva sulle navi e, con la sua mole gigantesca, le faceva inclinare. Naturalmente, dalla mitologia superstiziosa degli antichi romani , non potevano mancare i vampiri e le streghe, che sono presenze fisse nell'immaginario favoloso di tutti i popoli. La loro 'specialità' consisteva nel penetrare furtivamente nelle case dove si trovava qualche cadavere, che essi trafugavano, per poi deturparlo in vario modo, ad esempio…mangiandogli il naso!

"SUPERSTIZIONI, PRATICHE MAGICHE E…MALOCCHIO

"I romani antichi conoscevano anche una gran quantità di pratiche magiche e di rituali, che avevano lo scopo di prevenire eventuali disgrazie, di rendere propizie certe potenze oscure o di limitarne gli influssi dannosi. Una pratica molto diffusa era quella di scrivere sulle porte delle case una parola di origine etrusca, Arseverse, 'allontana il fuoco', al fine di scongiurare il pericolo degli incendi. Vi erano formule di incantesimo contro la grandine, contro malattie di ogni specie, persino contro le scottature, sulla cui efficacia abbiamo anche la testimonianza autorevole dello scienziato latino Plinio il Vecchio. Inciampare, uscendo, sulla soglia di casa, era considerato, ad esempio, di cattivo auspicio: il malcapitato avrebbe fatto meglio a ritornarsene in casa e a restarvi chiuso tutto il giorno, per evitare guai e incidenti incresciosi. Nominare un incendio durante un banchetto era considerata una grave imprudenza, a cui si poteva rimediare però buttando acqua sulla tavola. Anche fare brutti sogni alla vigilia di un appuntamento importante era considerato di cattivo augurio, per cui si suggeriva al sognatore di rinviare l'appuntamento a un'altra data, onde evitare brutte sorprese. Da buoni superstiziosi, i romani temevano anche il malocchio e cercavano di allontanarlo servendosi di amuleti di varia forma. Molto temuti erano anche i lampi, contro cui i romani usavano proteggersi con un sistema abbastanza strano, utilizzato, come ci informa Plinio il Vecchio, anche da altri popoli, e cioè…fischiettando.

"SUPERSTIZIONE E RELIGIONE

"L'atteggiamento superstizioso dei greci e dei romani testimonia di una visione della vita e di uno stile religioso molto diversi dai nostri. La superstizione, condannata in tutte le sue forme dal cristianesimo, per gli antichi rientrava perfettamente nel quadro dei normali rapporti fra uomo e divinità. Essi erano convinti che la divinità, nella sua profonda bontà e onniscienza, intendesse avvertire l'uomo di eventuali pericoli e si avvalesse di segni o presagi,allo scopo di avvisarlo che c'erano guai in vista. Inciampare, udire il canto malaugurante del gufo o della cornacchia, fare un cattivo sogno, erano, per la mentalità religiosa dei romani, dei veri e propri presagi, cioè dei segni con cui la divinità ci metteva in guardia contro un pericolo imminente. Solo gli uomini irreligiosi, che escludevano ogni intervento delle divinità nella vita umana, negavano a questi segni ogni valore di presagio e irridevano le superstizioni, considerandole un segno di ignoranza."

venerdì 18 gennaio 2008

Cile, la rivolta dei detenuti mapuche

Cile, la rivolta dei detenuti mapuche

di Geraldina Colotti

Il Manifesto del 13/01/2008

Il caso di uno studente ucciso dalla polizia fa riesplodere la protesta della minoranza indigena

Torna in scena la questione Mapuche in Cile. Alla morte del giovane studente Matias Katrileo Quezada, 22 anni, sepolto domenica scorsa, ucciso dai proiettili di un carabinero, potrebbe aggiungersi quella di Patricia Troncoso, da 90 giorni in sciopero della fame e ricoverata all'Hospital Angol di Temuco in condizioni disperate. Altri quattro mapuche, detenuti nel carcere di Angol a Temuco, hanno invece sospeso lo sciopero della fame con cui chiedevano la revisione del processo e il riconoscimento dei loro diritti.
Ieri il risultato delle perizie ordinate dal giudice istruttore che ha messo sotto inchiesta il sottufficiale dei carabinieri cileni Walter Ramirez Espinoza, ha confermato che a uccidere lo studente è stato il proiettile di un'arma di ordinanza. Le associazioni per i diritti umani hanno chiesto garanzie perché il procedimento non venga affidato a un tribunale militare, come già accaduto in un caso analogo recente. Due deputati socialisti (il partito della presidente Michelle Bachelet) hanno presentato interrogazioni parlamentari su tutta la vicenda, e anche l'ex giudice Juan Guzman - noto per avere perseguito i crimini di Pinochet e ora in pensione come avvocato - ha presentato al Consiglio per i diritti umani di Ginevra la lettera di un capo mapuche. Lettere di protesta sono state inoltre presentate alle ambasciate del Cile nel mondo e anche a Roma: «Speriamo che la morte del giovane Matías Katrileo sia l'ultima - ha dichiarato il premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel in un appello al governo cileno - e che una volta per tutte venga abolita la Legge antiterrorista e ratificata la direttiva Onu 169 sui diritti dei popoli indigeni».
L'abolizione della Legge antiterrorismo, insieme alla liberazione dei prigionieri politici e all'autodeterminazione, è una delle tre rivendicazioni avanzate da anni dai mapuche. Per quanto riguarda la 169, invece, il loro accordo non c'è, perché - sostengono - sta per essere ratiticata dal senato in una forma «mutilata». E rigettano la palla nel campo del governo. Michelle Bachelet - impegnata in un significativo rimpasto di governo - l'altroieri ha nominato una commissione di ministri: «per studiare e valutare le attuali politiche nei confronti dei mapuche e della questione indigena in generale». A presiedere il gruppo, il sociologo Jaime Andrade, che ebbe un analogo incarico nel governo precedente. Una via già percorsa e già fallita, per i mapuche, soprattutto finché rimane in piedi la legge antiterrorismo varata da Pinochet. Dai tempi del golpe militare - che oppresse il paese dal 1973 al '90, stroncando anche la riforma agraria iniziata da Salvador Allende -, i mapuche vengono perseguiti con particolare accanimento in base a questa legge. Basta che ricevano una condanna a dieci anni e un giorno, per essere esclusi dalle cosiddette misure alternative alla detenzione.
Dieci anni e un giorno sconta Patricia Troncoso per l'incendio del Fondo Poluco-Pidenco della Forestal Mininco. Se fosse stata giudicata secondo la legge ordinaria, sarebbe già fuori dal carcere. Ora, invece, è una detenuta con pochissime speranze di sopravvivere, ma finché ha avuto forze, ha scritto che morire non la spaventa se serve al suo popolo.
Quello mapuche è il popolo che, in America, si è opposto con più continuità alle dominazioni coloniali nel corso della storia: prima all'espansione degli incas e poi a quella degli spagnoli. Sopravvissuto anche all'immane massacro dell'esercito spagnolo che, nella seconda metà dell'Ottocento, tentò di spazzarlo via, e alle prigioni di Pinochet, e ora intenzionato a preservare il proprio millenario ordinamento sociale e ambientale dall'imposizione delle monoculture, dalle devastazioni ambientali. Non hanno documenti scritti, ma quelle terre sono le loro.
Oggi i mapuche sono un milione circa, sparsi tra le regioni centromeridionali del paese e la capitale Santiago. Nel corso del 2007, almeno 166 di loro sono stati accusati di diversi reati connessi al conflitto che interessa la «IX Region»: disordini, occupazioni, incendi. Secondo le imputazioni, si aggirano armati a sparare agli elicotteri delle multinazionali. I loro avvocati denunciano invece processi farsa, testimoni pagati e mascherati, e armi lasciate apposta nelle università per accusare poi i mapuche che vanno a restituirle. I mapuche, dicono, bruciano solo le devastanti radici di eucalipto che le multinazionali diffondono sui territori.Rivendicano, però, il diritto di resistenza.

Il culto della purezza e il potere del sacrificio

Corriere della Sera 18.1.08
Il culto della purezza e il potere del sacrificio
Dagli Atridi all'Africa, se il sangue «lava»
di Maria Serena Natale

«Lo zio Wu», raccontano gli abitanti di Zhenping, era molto superstizioso e non riusciva a togliersi dalla testa quell'antica leggenda taoista del vecchio che ritrova gloria, potenza e longevità possedendo fanciulle vergini: alla centesima, si narra, l'uomo avrà recuperato la forza perduta. L'atto sessuale come attingimento della pienezza vitale nell'unione dei principi dello yin e dello yang, potenziato dal valore rigenerante della verginità.
L'idea del sangue che lava torna in tempi e culture differenti. In sé, il sangue è da sempre simbolo di vita ed energia (Odino, il dio nordico di guerra, sapienza e poesia, sparge sangue di re per far fiorire le messi); quello verginale, purifica e santifica. Accade nel mito greco, nella casa degli Atridi: i figli di Tieste massacrati dallo zio Atreo; la figlia sopravvissuta, Pelopia, violata dal padre per volere dell'oracolo; la nascita di Egisto, vendicatore di Tieste. Ed è sempre di vergine il sangue più gradito agli dei nei sacrifici, nell'Aulide di Ifigenia (salvata all'ultimo momento da Artemide), come nell'impero degli Inca. La purezza è attributo della divinità: Cibele genera l'universo «senza conoscere maschio », Atena «fugge talami». Immacolata sarà Maria, il corpo gravido di quell'unico, assoluto «sì».
Che nel sangue «incontaminato » la comunità veda il tramite privilegiato con la fonte della vita o lo strumento per esorcizzare la mancanza originaria, la nostalgia dell'integrità perduta che è il tratto fondamentale dell'esperienza umana, il valore attribuito alla verginità dice del ruolo della donna in un preciso sistema antropologico e sociale, rimandando a quel nodo fondamentale che è, in tutte le culture, il corpo femminile, la sua «funzione», i limiti imposti al potere terribile che detiene, dare la vita. Verginità come valore socioeconomico. Scelta, anche, scrive la femminista americana Hanne Blank nel suo ultimo libro Virgin. The Untouched History, dalle sante e badesse che nelle società patriarcali imparano a «usare» il corpo come merce di scambio per affrancarsi da una condizione di inferiorità e accedere al potere. La verginità, ha insegnato Elisabetta I, è politica.
In un'Inghilterra molto diversa da quella elisabettiana, il Regno di Vittoria, l'originaria fede nel valore catartico del sangue verginale si tradurrà nella più scientifica «cura delle vergini», rapporti sessuali contro le malattie veneree (ripescata dai «cattivi» de La grande rapina al treno, il romanzo di Crichton ambientato nel 1855). Nel '900 la «terapia» è esportata in Africa. Due anni fa il Girl Child Network Project ha lanciato in Zimbabwe la campagna «Le vergini non curano l'Aids. È un mito », per dissuadere i guaritori dal prescriverla agli ammalati, il 25 per cento della popolazione. Sulle piccole salvatrici, esistono solo stime.

domenica 13 gennaio 2008

venerdì 11 gennaio 2008

Una casa senza porte. Viaggio intorno alla figura della Befana

trovata su vari newsgroup
Claudia e Luigi Manciocco
Una casa senza porte. Viaggio intorno alla figura della Befana
Melusina Editrice, 1995 Roma. pp. 340, L. 39.000.

Recensione di Maria Franca Bagliani

Momento significativo e culminante di un periodo che è temporale, ma soprattutto psicologico, quello tra il 25 dicembre e il 6 gennaio, la festa della Befana chiude il ciclo dei dodici giorni magici successivi al Natale e conclude il ritorno annuale dei morti alle loro famiglie.

La Befana. Di questa figura così familiare, eppure sostanzialmente misteriosa, il saggio in oggetto, avvalendosi di ricerche di carattere antropologico, etnologico ed archeologico, mira ad individuare l'origine ed a rilevare il significato più profondo. L'esame degli elementi che costituiscono l'immagine della Befana e la sua Festa, ci fa comprendere i nessi culturali, religiosi e sociali che le sottendono.

La ricerca sulle origini ne rivela le affinità con figure
tradizionali della cultura egeo-anatolica preindoeuropea. Del resto
essa non è fenomeno esclusivo del folclore italiano, ma è diffusa
dalla Persia alla Normandia, dalla Russia all'Africa del Nord.

Attraverso millenni di storia i culti della Dea Madre preindoeuropea,
della fertilità, i riti e i miti connessi all'agricoltura, le pratiche
funerarie e innumerevoli altri elementi si conservano nella cultura
mediterranea costituendo quel substrato del quale si trovano tracce
fino ai nostri giorni.

Dopo le trasformazioni della società avvenute intorno al III e II
millennio a.C., le precedenti immagini mitiche perdurarono sotto forma
di reminiscenze o di usanze conformi ai prototipi originari. Così la
figura della Dea Madre, della genitrice primordiale, signora della
vita, della morte, della rigenerazione, sopravvisse in diversi tipi di
strutture sociali nella Grande Antenata, e la befana può essere
facilmente collocata in questa sfera mitica legata all'agricoltura.

Il rapporto tra il mondo dei vivi e quello degli avi defunti è sempre
stato molto complesso. Alle anime degli antenati è sempre stato
attribuito il ruolo di guide e protettori, di qui l'importanza e
l'universalità della festa del ritorno dei morti alle loro case per
visitare i vivi. Festa che segna anche l'inizio dell'anno.

Nell'avvicendamento e stratificazione di culture diverse che hanno
caratterizzato aree geografiche, si può rilevare la ricorrenza di
feste che hanno finalità e significati simili.

Testimonianze etnografiche e storiche ci dicono che presso i Celti
l'anno pare iniziasse ai primi giorni di novembre, in concomitanza con
la celebrazione dei defunti: che a Roma la data di Capodanno venne
fissata il primo gennaio nel 153 a.C., ed alcuni documenti
ecclesiastici testimoniano la contiguità tra la ricorrenza delle
calende di gennaio e l'Epifania ancora intorno al 500.

Giorno dei morti, Capodanno, Epifania sono festività partecipi di un
unico momento spirituale, nel quale si fondono riti di rinnovamento e
ritorno degli avi defunti.

E' evidente quindi l'analogia tra il ritorno a casa dell'antenato e
l'arrivo della Befana.

Per entrambi il passaggio avviene attraverso il camino, ossia il foro
del tetto che nelle case della città preindoeuropea Catal Huyuk
costituiva via d'uscita del fumo del focolare ed ingresso per gli
abitanti. La sacralità del focolare, venerato quale sede degli avi,
era dovuta al fatto che i defunti venivano sepolti sotto il pavimento
delle abitazione.

L'usanza di seppellire i piccoli nelle case sembra essersi conservata
più a lungo rispetto all'usanza analoga relativa agli adulti e rivela
un indubbio legame tra gli spiriti degli antenati e i bambini, ed ai
bambini appunto la Befana porta i suoi doni.

L'indagine sulla figura della Befana non sarebbe stata completa senza
un approfondito esame dei suoi attributi peculiari: la scopa, il
sacco, il dono.

Il motivo della scopa, intesa quale mezzo di trasferimento dello
spirito, ricorre in un gran numero di credenze. Talvolta si usava
lasciare la scopa sulle tombe, affinché le anime aggrappandosi ad essa
potessero tornare sulla terra. E' dalla scopa è facile risalire al
bastone da scavo, il più antico utensile da lavoro femminile e simbolo
dell'autorità della donna, che veniva piantato presso la sua
sepoltura, affinché la defunta se ne servisse nelle sue peregrinazione
nell'oltretomba, e persino all'albero cosmico che, passato dalla terra
la cielo, ha cominciato a volare ed è divenuto mezzo di trasporto per
inoltrarsi nel difficile cammino verso l'al di là.

Il sacco, derivazione dalla pelle dell'animale totemico, che aveva il
compito di accogliere le reliquie dei morti. era anche utilizzato per
porgere loro i doni; una volta perduto il suo significato originario,
il sacco ripieno di offerte per i defunti si è trasformato in quello
trasportato dalla Befana carico di strenne per i bambini.

Il Capodanno dei raccoglitori e degli agricoltori ricorreva
generalmente nel periodo di maggior penuria alimentare, quando era
necessario invocare l'aiuto di potenze soprannaturali. Nel mito era
stata l'Antenata primordiale a elargire in un tempo remoto il cibo
alla comunità vivente. La Befana è immagine della Madre Terra
dispensatrice di doni e frutti della terra sono le strenne
tradizionali che i bambini trovano nella calza: fichi secchi, noci,
nocciole, castagne, mele.

Ancora oggi nel giorno dell' Epifania si usa regalare ai bambini anche
carbone di zucchero. questa sostanza ha un intrinseco valore magico e
fa parte come i prodotti della natura, dei doni fatati portati dalla
vecchina. Il giorno di Epifania aveva i caratteri della Grande festa
di rinnovamento e di rinascita, è quindi presumibile che ne
costituissero parte integrante i riti di iniziazione. accanto ai
rituali destinati ai ragazzi più grandi ne erano forse previsti altri
di consacrazione dei bambini piccoli agli antenati.

Sembra che nelle cerimonie di passaggio degli adolescenti venissero
utilizzate maschere. Queste, oltre a rappresentare i defunti,
conservavano magicamente qualcosa dell'antenato stesso. Nella loro
indagine gli Autori non trascurano di approfondire altri elementi
relativi alla figura della Befana o ai riti dell'Epifania, quali il
legame tra le stelle e le anime dei defunti, il significato dell'oro
dell'incenso e della mirra, offerto dai Magi della tradizione
cristiana, dell'acqua e del fuoco.

Essi inoltre sottolineano la complessità di una figura che, se da un
lato è Antenata benefica nel suo ruolo di donatrice,contemporaneamente
rivela però tratti stregoneschi e non dobbiano stupirci se nel
bellunese le è attribuito il nome di Redodesa, quella Redodesa o
Erodiade che nella notte dell'Epifania vaga nel cielo guidando le
schiere delle streghe.

In sintesi: le puntuali, rigorose e documentate ricerche di C. e L.
Manciocco sulla befana hanno messo in evidenza lo stretto legame tra questa figura e il culto degli antenati, in quanto, come si è detto, la Befana riassume nella sua immagine di antenata mitica gli attributi primordiali della Dea Madre. In questa veste essa assolve le funzioni peculiari di guardiana del focolare e come tutte le figure degli avi domestici non può apparire disgiunta dal luogo sacro della casa.

In lei si ravvisano i tratti della Donna del Capodanno, di colei che preside a tutto ciò che rinasce e si rinnova, e a tutto quello che ha inizio. Per questo essa protegge i giovani iniziandi e dona i frutti della terra, simbolico seme per i raccolti futuri.

giovedì 10 gennaio 2008

Cinque streghe date alle fiamme. Rivissuto il periodo buio

L'ADIGE - Cinque streghe date alle fiamme. Rivissuto il periodo buio
di Fiemme. Coinvolte decine di figuranti in costume. Un rogo
impressionante ha avvolto sabato sera cinque delle sei streghe
condannate dagli uomini di Fiemme con le accuse più diverse e più
terribili
http://www.ladige.it/news/a_portale_lay_notizia_01.php?id_cat=4&id_news=4557

di Mario Felicetti

CAVALESE - Quattro «ballotte» nere di condanna e una bianca. Questo il
risultato della votazione che si è tradotta in una tremenda sentenza:
«Le accusate vengono giudicate colpevoli. Si proceda alla loro
immediata combustione per mezzo del fuoco». Un rogo impressionante ha
avvolto sabato sera cinque delle sei streghe condannate dagli uomini
di Fiemme con le accuse più diverse e più terribili: eresia, abiura
della fede, omicidio, danni alle persone, al bestiame ed ai raccolti,
infanticidio, addirittura rapporti sessuali col demonio. In una
parola, stregoneria. Era l'anno Domini 1505, uno dei periodi più bui
della storia di Fiemme, inserita in un'epoca impregnata di ignoranza e
di superstizioni, spesso sulla base di concetti religiosi che la
stessa Chiesa ha successivamente condannato. Eventi di cinque secoli
fa, nati da una serie di catastrofi naturali (incendi, alluvioni,
distrazie) che portarono i residenti a credere di esser vittime di un
maleficio, riproposti anche quest'anno da una delle manifestazioni più
suggestive e più coinvolgenti nella loro drammaticità, a cura del
Comitato rievocazioni storiche di Cavalese, con la collaborazione di
decine di figuranti in costume d'epoca, a rappresentare tutte le
principali associazioni del paese.

L'intera comunità, in sostanza, ha risposto con ammirevole impegno,
sotto la guida di Giuseppe Spazzali e Michele Zadra , per garantire
ancora una vlta una serata di successo, alla quale hanno assistito
centinaia di persone, valligiani e soprattutto ospiti. Serata
abbastanza mite e prima parte dello spettacolo davanti all'edificio
delle scuole medie (una volta l'ambientazione era di fronte al palazzo
della Magnifica Comunità di Fiemme, che, ormai da oltre due anni, è in
fase di completo restauro), dove le sei sventurate sono state portate
di fronte agli uomini di Fiemme, dopo che per giorni avevano subito
gli interrogatori (e le torture) da parte del Vicario Vescovile
Domenico Zen (in rappresentanza del Principe Vescovo di Trento
Udalrico Lichtenstein ), del capitano Vigilio Firmian e dello Scario
Giovanni Giacomo. Il tutto in una inquietante, sinistra atmosfera
impregnata di mistero, con un sottofondo di musiche antiche, il rullo
dei tamburi, i rintocchi della campana a martello, le fiaccole accese
e una spessa coltre di fumo ad invadere la scena.

Nessuna voglia di pronunciare giudizi o emettere sentenze. Soltanto la
volontà di riflettere su quanto accaduto in passato perché certe cose
non abbiano a verificarsi mai più. Al rogo, sabato sera, dopo una
serie di violente accuse da parte di Giovanni Dalle Piatte , sono
state messe Ottilia Dellagiacoma di Predazzo, Margherita Tessadrela di
Tesero, Margherita detta Tommasina dell'Agnola di Cavalese, Elena «La
Serafina» di Varena e Ursula Strumenkera di Trodena, mentre Barbola
Marostega (della quale non è stata reso noto il luogo d'origine), che
non ha voluto confessare le proprie colpe, è stata ricondotta nelle
carceri del palazzo, dove, dicono i documenti antichi, sarebbe morta
in seguito alle nuove torture subite. Imponente come sempre la
rievocazione, fondata sulla ricerca storica e sui testi della maestra
Miriam Pederiva, con la regia di Bruno Vanzo . Molto apprezzate da
tutti la veridicità delle scene ed la fedeltà con la quale sono state
riproposte, seguendo scupolosamente i verbali dell'epoca.

mercoledì 9 gennaio 2008

una montagna di leggente: I pagani del monte Faloria

UNA MONTAGNA DI LEGGENDE

I pagani del monte Faloria

Vergine e nero, il gran bosco Lamarida chiudeva la valle e dietro era una verde conca con ignoti esseri umani, dietro la selva, Solo gli dei vi passano o vi sono passati, Silvano forse e le Onganes dai piedi di capra, ma loro non sai some fanno a passare.

Ed al nero bosco Lamarida giunsero un uomo ed una donna, da lungi. Ma non mendicanti o raminghi per fame o pastori o boscaioli.

Zan de Rame e Dona Dindia, alti e belli, su di uno stallone ed una giumenta di superba razza, sono al margine del bosco Lamarida. Perch�?

Si migra: per odio o per amore, per fuoco o per guerra si migra o si segue il segno del destino.

Passare: fra tronchi di conifere giganteschi e fitti, colorati, volte di frasche: scatto � come notte. Alberi caduti, intrico di sottobosco, radici abbarbicate a massi di frana ed a tronchi marci che dan linfa di germogli nuovi.

Lottavano per passare con i loro cavalli; si richiudeva alle loro spalle ed essi sapevano che non sarebbero ritornati.

In una mattina chiara giunsero al sole dentro la grande conca di Ampezzo. Ampia, ed in alto vi sono foreste nere; ma sopra di esse, tutt'intorno, erano montagne chiare; rocciose, grandi. Sembravano templi, forse se le erano fatte gli Spiriti dell�Universo, per onorarsi e gli uomini dovevano adorarle.

Essi giunsero ed il Sole si alzava da dietro una barriera di rocce a parete, calava nella conca tutti i suoi raggi. Illuminava piccole case umane di tronchi ed uomini dai rozzi vestiti di pelli ne uscivano. Avevano avvistato quei due esseri strani e le belve enormi che essi cavalcano.

Si fecero in torno, miti, con attoniti occhi.

Dalla montagna a parete, il sole si alzava.

Dona Dindia e Zan de Rame si inchinarono ad adorarlo

e nella loro lingua chiamarono quel monte Faloria.

Passarono nella grande conca sui loro cavalli e ben si vedeva che non erano venuti per fare del male. Alti e belli essi erano e adorarono ancora il sole calante dietro l'alta Croda.

I nativi li accettarono come sacerdoti di una religione sconosciuta, potente come il grande Sole che sorge dietro Monte Faloria. Non conta chi sono, vedi che anche le Onganes sono uscite al margine della selva a vederli venire, come un lampo verde di riso � passato sui loro volti silvani, come un grido di gioia tra le frasche.

Selvagge e scontrose, ostili a tutti son le Onganes, solo con gli Dei come il vecchio Silvano son gentili e devote.

Ma per questi due tutta la selva canta di gioia, grandi sacerdoti; essi sono o potenti come re.

Zan de Rame e Dona Dindia, nella conca di Ampezzo restarono e fondarono una citt�, con belle case di pietra sulle vie dritte e grandi fienili di legno dietro, sopra le stalle. Gli uomini delle piccole case di tronchi han lavorato per loro, per la citt� nuova e Dona Dindia ha insegnato alle donne a filare e tessere la lana in candide tuniche, in calde coltri.

Scavano il ferro in alti gioghi, portano a valle quello che Zan de Rame ordina. Sassi che nella forgia diventano arnesi; e si inchinano al capo saggio che ha saputo far questi prodigi.

Miliera � nata, citt� felice sulle coste di Monte Faloria ed in fondo alla valle verde, a bella coppia di destrieri ha dato prole, pascono nei molli acquitrini.

E Zan de Rame e Dona Dindia andaro a cercare sulle pendici del Monte Faloria con la verga forcuta che sente i tesori della terra.

E la verga scatt� e si contorse, essi sentirono che nei loro corpi passava il vento del destino.

Erano sotto una roccia ad arco e la toccarono con la loro verga; la roccia si apr� in una grande porta e dietro vedi tesori lucenti.

Fiammeggiano nell'ombra scura, lambiscono fin dentro nel cuore dell�uomo. I tesori della fonda grotta.

Tesori del Dio Silvano sono ed il Dio ha parlato loro. Solo la selva sa le parole dei loro colloqui, ma certo il vecchio, strano Dio li accett� come suoi sacerdot� e permise loro di conoscere e di �custodire� ci� che stava in seno alla montagna.

Eressero templi ed in un giorno d'estate facevano grande processione fino alle quadre pietre degli altari di Fraina.

Tamburi di pelle di pecora martellano dentro la valle, torcie di pino profumano l'aria, corna di cervo enormi e pelliccioni di orso adornano cacciatori e boscaioli.

Immolavano un agnello sui quadri altari e la montagna li guardava, Monte Faloria, che in dialetto si dice Monte Ciasadi�.

Fin davanti alla sacra porta e cantavano, una canzone lunga di lodi al sole ed all�acqua.

Negli anni pi� belli la porta si apriva, si intravedevano gli immensi tesori che stavano dentro di essa.

Si intravedevano ed essi li adoravano sotto il grande arco, poi la porta si richiudeva e non pensavano di poter avere quei tesori.

Zan de Rame aveva detto loro che non si dovevano toccare; se li avessero avuti nelle loro case, sarebbe stata la fine dei giorni felici di Miliera.

E dopo non si pu� pi� ritornare felici. Essi obbedivano, miti e convinti, ai dettami di Zan de Rame, fondatore e reggitore di Miliera felice.

Zan de Rame era grande e saggio: nel volto scuro, bruciato di sole, occhi vivi guardavano le sue genti miti e serene, se avessero avuto quei tesori sarebbero divenuti sospettosi e foschi e dopo �non sarebbero pi� potuti ritornare indietro�.

Ch� questa � la legge delle cose umane.

Allora ordinava di scendere a valle, mentre la gran porta si richiudeva.

Nella verde conca dove i cavalli figli della bella coppia, da essi portata, si sono moltiplicati e liberi galoppano, dove verdeggiano campi nati dai semi delle loro bisaccie.

Si sente rumore di telai dalle case e battiti delle forgie del ferro. Nella bella citt� di Miliera sulle pendicidel Monte Faloria.

Ma in Croda del Lago era un Drago perfido e geloso delle cose belle e felici.

Aveva il corpo scaglioso e duro e grifi uncinati, ali fiammeggianti che davano fumo e gocce di pece.

Di rado usciva dalle sue grotte nella Croda, ma, quando usciva a svolazzare sulla valle, erano incendi e malanni.

E dentro aveva un'anima di terra, come quella dei Draghi di allora, lenta come i suoi occhi gonfi e tondi, aveva solo gelosia per le cose degli altri ed avarizia.

Lui, poggiato talora sopra le guglie della Croda, vedeva, sotto, la bella valle fiorente ed a fronte il Faloria e la Porta del Dio Silvano.

Avrebbe voluto avere tutti quei tesori per s�, da riguardarseli e contarli nelle sue dimore.

Quando lo vedeva volar sulla valle, Zan De Rame, che prode era, tentava invano di raggiungerlo e di ucciderlo, l'alato criminale gli sfuggiva.

Fin che una notte di vento furioso dalle gole di nord, il Drago attravers� il cielo di Ampezzo come una grande rossa meteora, lasci� cadere gocciole di fuoco sulla bella citt� di Miliera.

Sput� con rabbia, in una ventata, sui fienili grevi di secco fieno ed il fuoco divamp� nella notte.

Prima con un crepitio sordo e con lingueggiare fuori dai tetti scandole secche, poi con un sinistro rombare nel vento.

Ed il vento faceva nozze con il fuoco.

Non vi era acqua abbastanza; la gente urlava nella notte rossa,

Miliera diveniva un mucchio di maleodoranti fuliggini. Il Drago rideva, acquattato l� presso, su di un prato, Gioiva, maligno,

Cos� lo vide Zan De Rame, mentre bruciacchiato tentava invano di soccorrere la sua gente. Lo vide e, dalla rabbia, imprec� a tutti i suoi dei.

Con questa rabbia nel cuore si scagli� contro il Drago. Vi si scagli� contro con la spada lucente e batteva e ribatteva sulla dura corazza scagliosa.

I1 mostro rideva dagli stretti denti la sua beffa bavosa, lanciava fumate dalle narici nella rossa notte.

Zan de Rame, infuriato, si scagli� ancora contro il Drago, ma i suoi dei, che prima aveva bestemmiati, non lo proteggevano, i suoi occhi e la mente accecata non guidavano i colpi in nessuna delle parti vitali del Drago.

E gli dei erano spietati contro l'eroe che li aveva offesi.

Zan de Rame combatteva. Fin che il Drago lo agguant� con una zampata; lo uccise.

E veleggiava nell'aria, verso Croda da Lago, la sua risata sinistra si mescolava con il sibilo del vento furioso, con le grida della gente impazzita. Zan del Rame era supino sul prato a fianco della spada contorta e spuntata.

L� steso lo trov� Dona Dindia; url� come pazza nella notte rossa e stava accasciata sul prato acconto al suo uomo e signore. Poi gli lav� le ferite, lo vegli� come cane fedele il giorno e la notte appresso.

Era accanto al morto eroe e la luna navigava fra stracci sinistri di nuvole portate dal vento e sono venute le Anguane, mandate dal Dio Silvano, dolenti e tristi, con i lunghi capelli verdi; da tutte le selve vennero e presero il corpo del morto eroe, lo portarono verso la porta, oltre la quale stanno forse i regni dei trapassati.

Dona Dindia comprese che era disegno del Dio, che il destino del suo uomo si compiva dietro la porta e le caverne di cui era stato sacerdote.

E la gran roccia si � chiusa dietro il triste corteo. Per sempre chiusa. Ma Dona Dinida in ginocchio davanti alla porta � ancor viva, entrare non pu� lei mortale, lei viva.

Allora sal� a cavallo, a sangue spron� per foreste e per valli, per ghiaioni e forre profonde, attraverso acque e ghiacciai.

Voleva cercare un forte cavaliere che uccidesse il Drago.

Pallida e pazza cavalc�, per�, per anni e secoli, e la sua anima di donna bella e dolce mor� pian piano ed il corpo ancora cavalca per le foreste e le Valli del Sole.

Un corpo senza anima era restato, freddo come gelo e cercava un cavaliere che uccidesse il Drago.

Nella conca di Ampezzo non � ritornata perch� indietro non poteva pi� ritornare.

I1 Drago intanto faceva le ossa sempre pi� dure e pietrose, si scav� come un gran letto a conca per crogiolarsi al sole, sotto il riparo della dritta parete. E poi l'acqua di sciolti nevai ha riempita la piccola conca, un limpido lago rispecchia la Croda.

Alla notte vi tremolano dentro le stelle.

Giovanna Zangrandi, Leggende delle Dolomiti, L'Eroica, Milano 1951.

domenica 6 gennaio 2008

La Befana e i re Magi scoperti da Keplero

l'Unità 6.1.08
La Befana e i re Magi scoperti da Keplero
di Pietro Greco

Tra ricorrenza romana e narrazione evangelica una leggenda alimentata anche dal moto degli astri

Si racconta poi che lo scienziato polacco avesse una mamma con le fattezze della vecchina...

MITO E SCIENZA La festività dell’Epifania è un misto di reminiscenze pagane e cristiane. Ma dietro di essa affiora un evento astronomico. Non una cometa o una «supernova», ma una congiunzione astrale, come vide il celebre astronomo

La Befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte … per distribuire, come Babbo Natale, regali ai bambini. Ma quante differenze, con Santa Claus! In primo luogo proprio quelle ciabatte disfatte col gonnellone nero, il grembiule sdrucito, lo scialle, il cappellaccio a coprire capelli come paglia, la vecchiaia mai camuffata e per volare una scopa. Di contro l’elegante omone del profondo nord, nella sua rossa e inappuntabile divisa, la barba ben curata, alla guida di una potente slitta trainata da renne mozzafiato.
Babbo Natale apre le feste e lei, la vecchina, invece tutte le porta via. Come è allegro, Babbo Natale. E come è triste la Befana. E poi, lui, benefattore globale che da Rovaniemi vola per il mondo, da Milano a Parigi, da New York a Tokio, mentre lei, dispensatrice di provincia, che si muove solo per l’Italia. E per di più nella parte più povera della penisola, quella appenninica. Il calendario cristiano la associa a tre sovrani, troppo umili per essere reali, e a una stella, cometa, troppo effimera per essere vera. Ricordate le parole di Matteo? «Ecco, dei Magi arrivarono dall’Oriente a Gerusalemme, e domandarono: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Perché noi vedemmo la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo. Allora Erode, chiamati in segreto i Magi, volle sapere da loro minutamente da quanto tempo la stella era loro apparsa. Essi partirono: ed ecco, la stella che avevano veduto in Oriente, li precedeva …». Ma che razza di stella è quella che i Magi vedono ed Erode no?
La Befana porta regali ai bambini (italiani) proprio come i Magi portano doni al neonato dio dei Cristiani. Ma la vecchina non è un mito che appartiene solo alla cultura popolare associata alla narrazione evangelica. Affonda le sue radici nella cultura romana, e alle feste in onore di Giano e di Strenia in cui, con uno scambio di regali, si salutava per sempre l’anno appena passato e si dava il benvenuto al neonato. Insomma, lei - testimone della ciclica transizione dal vecchio al nuovo - c’era prima che nel cielo apparisse la stella che guida i Re Magi fin alla grotta di Betlemme. E poi, quella stella che Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova dipinge come una cometa, c’è mai stata davvero? Non è affatto strano che a questa domanda abbiano cercato di rispondere non solo eruditi biblisti e antropologi culturali, ma anche astronomi compassati. Tra i primi e più qualificati, addirittura Giovanni Keplero, la cui madre è stata accusata di essere una strega, un personaggio che, curioso a dirsi, nell’iconografia popolare viene descritta proprio come una befana. Che sghignazza invece di sorridere e che dispensa malefici invece che doni. Ebbene all’inizio del XVII secolo Keplero, come ci ricorda il bel libro, Messaggeri Celesti, che Eugenia Della Seta ha pubblicato con gli Editori Riuniti, non è affatto convinto che la stella di Matteo sia come l’ha dipinta Giotto, ovvero una cometa. Keplero, che pur guadagnandosi parte dello stipendio facendo l’astrologo è un astronomo di grande classe, sulla base di calcoli molto precisi sostiene che i Magi hanno visto in cielo la congiunzione tra i pianeti Giove e Saturno che si è manifestata (epifania) nella costellazione dei Pesci ai tempi in cui è nato Gesù. In realtà, i calcoli indicano che la congiunzione c’è stata nel 7 avanti Cristo. Ma a essere sbagliata, pensa Keplero, non deve essere la mia ricostruzione, quanto il più volte rivisitato calendario cristiano (che il Cristoforo Clavio proprio in quegli anni, 1582 per la precisione, ha appena rivisitato). Il suo calendario il monaco Dionigi il Piccolo lo ha elaborato mezzo millennio dopo i fatti, mettendo insieme le esigenze della tradizione con i vincoli del rigore storico e facendo un po’ di confusione.
Insomma, Dionigi ha fissato la data di nascita di Gesù a 753 anni dalla fondazione di Roma. Ma i conti non tornano. Erode è morto quattro anni prima, nel 749 dopo la nascita di Roma. E poiché non avendo avuto notizie di ritorno dai Re Magi, ha ordinato di uccidere tutti i bambini d’Israele di età inferiore a due anni. In definitiva, Erode è morto almeno sei anni dopo la «vera» nascita di Gesù. D’altra parte Giuseppe e Maria non sono andati a Betlemme per esigenze anagrafiche: ovvero per registrarsi e ottemperare all’ordine di censimento emanato in tutto l’Impero romano da Augusto? E quel censimento non si è forse tenuto tra l’anno 8 e l’anno 6 prima dell’anno che Dionigi considera come quello che ha visto i natali del Cristo? Insomma, sostiene Keplero, è molto probabile che i Magi siano abili astronomi e abbiano visto la congiunzione tra Giove e Saturno del 7 avanti Cristo che l’inesperto Erode non sa vedere. In realtà, dopo Keplero molti si sono esercitati nel cercare una spiegazione astronomica alla narrazione evangelica che si trascina dietro in salsa cristiana, la festa della Befana. Le ipotesi riguardano altre congiunzioni planetarie, con protagonista Marte, oltre che Giove e Saturno. Oppure la comparsa di una supernova o di una cometa. E in realtà gli astronomi cinesi, che a queste cose sono attenti, registrano nell’anno 5 avanti Cristo l’apparizione di una «stella nova» e nell’anno 4 di una cometa senza coda. Tuttavia gli storici non danno molto credito all’ipotesi della supernova - fosse apparsa se ne sarebbe accorto anche Erode - o della cometa. Perché oggi siamo in grado di calcolare che in quegli anni di comete luminose nel cielo me sono apparse in continuazione: nell’anno 11, 9, 4 e 3 avanti Cristo e anche negli anni 1, 3 e 13 dopo Cristo.
L’evento cometa è troppo frequente per indurre tre umili ma sapienti Re Magi a intraprendere un viaggio al seguito di quella scia luminosa. Per incredibile che possa sembrare, l’ipotesi che meglio regge a tutt’oggi è quella del geniale astronomo della corte di Vienna, Johannes Kepler. E, in fondo, la congiunzione dei pianeti in cielo ha l’immagine di un evento astronomico povero, rispetto a quello di una «stella nova» o di una cometa dalla coda fluente. Povero, ma ricco di significato. Proprio come la scopa della Befana. Mica come la rutilante slitta di Santa Claus.

mercoledì 2 gennaio 2008

Il rito del fuoco

Il rito del fuoco

La Repubblica del 2 gennaio 2008, pag. 1

di Marino Niola

Anche quest'anno la notte di Capodanno ha presentato il suo assur­do, inaccettabile bilancio. Un mix di crudele fatalità, di ottu­sa inciviltà, di colpevole irre­sponsabilità che in molti, troppi casi trasforma la festa in tragedia.



Non è certo la prima volta che al­l'indomani della notte di san Silvestro viene diramato un autentico bollettino di guerra. Quasi un ri­tuale nel rituale. Come se la festa aves­se in sé una quota di violenza inelimi­nabile, una furia arcaica. Così che gli appelli alla prudenza, al civismo, alla legalità restano spesso inascoltati. E alla fine vince la febbre del fuoco.



Perché nel bene e nel male proprio di una febbre si tratta. Della recidiva di un rito millenario che nelle società più diverse celebra la fine dell'anno e l'ini­zio di quello nuovo giocando col fuoco. Un gioco pericoloso per definizione.



Dal Mediterraneo al mondo celtico, dall'America precolombiana alla Cina, il giro di boa del calendario viene da sempre accompagnato dal fuoco e dal rumore. Due elementi fissi e immancabili che precedono di molto i nostri botti. Prima dell'invenzione della pol­vere da sparo si accendevano, infatti, grandi falò e contemporaneamente si produceva un rumore assordante con tutti i mezzi disponibili. Tamburi, so­nagli, pentole, coperchi tutto era buo­no per far baccano. La simbologia di questi riti era, e in fondo resta, elemen­tare. Il fuoco, tradizionale strumento di purificazione e di rinnovamento, aveva una doppia funzione. Serviva a bruciare i residui negativi dell'anno passato e al tempo stesso a illuminare il cammino di quello nuovo. Il rumore aveva invece Io scopo di spaventare gli spiriti maligni, di scacciare le potenze del male. O, come si dice oggi, allonta­nare le energie negative. Per la stessa ragione in tante parti del mondo a Ca­podanno si bruciano o si buttano viale robe vecchie. Per chiudere simbolica­mente i conti col passato e ricomincia­re da zero. Anno nuovo vita nuova.



Con la modernità, la funzione apo-tropaica del fuoco e del rumore viene ereditata dai giochi pirotecnici. Che facendo esplodere insieme fulgore e fragore in una miscela fantasmagorica e colorata trasformano il rito scara-mantico in arte. Al punto che nel Sette­cento grandi musicisti come Georg Friedrich Haendel scrivono capolavo­ri per celebrare i fuochi d'artificio in onore del re d'Inghilterra.



E se ancora oggi da Sidney a Pechino milioni di persone aspettano il nuovo anno godendosi lo spettacolo dei botti è segno che l'arcaico richiamo del fuo­co è difficile da spegnere. Perché si tratta di una attrazione elementare, di un basic instinct che affonda nelle profondità della natura umana.



Come insegna il mito di Prometeo, il fuoco è per gli uomini una tentazione irresistibile, oltre ad essere il simbolo stesso della civiltà. Dal fuoco pubblico delle Vestali a quello delle Olimpiadi, dalle fiaccolate per la pace ai fuochi di Capodanno si snoda un filo millenario che giunge fino a noi.



Se dunque la passione per i botti è la recidiva di antichi rituali, quegli ecces­si che trasformano la gioia in tragedia sono invece il sintomo di una degene­razione autistica della comunità in festa. Che fa precipitare la celebrazione della collettività in un asociale cupio dissolvi.