venerdì 14 dicembre 2007

Kurdistan La patria perduta tra i monti del Kandil

Kurdistan La patria perduta tra i monti del Kandil

La Repubblica del 29 novembre 2007, pag. 32

di Vanna Vannuccini

Il profilo delle montagne ancora prive di neve, che si stagliano contro il cielo in colori grigi beige e gialli, è interrotto da tor­ri cilindriche munite di oblò e feritoie e filo spinato, che fanno subito pensare che il Kur­distan è stato pacificato con la forza. Gli scontri tra Repubblica islamica e movimenti indipen­dentisti curdi-iraniani comin­ciarono in questa provincia dell'Iran nord occidentale su­bito dopo la rivoluzione, e di­vennero una guerra vera e pro­pria, con migliaia di morti, du­rante il conflitto tra Iraq e Iran. «I ribelli venivano la notte e por­tavano via le scorte di cibo; i mi­liziani arrivavano di giorno e ci punivano come collaboratori», ricorda un vecchio pastore nel villaggio di Kulesareh, sulla strada che da Sanandaj porta al confine iracheno. I primi erano i peshmerga, i secondi i pasdaran khomeinisti. I nomi dei bambini in questi villaggi evo­cano ancora quei tempi: alcuni si chiamano Restegar (Libera­to), altre Shurosh (Rivolta).



«Ho ancora negli occhi l'im­magine del corpo di mio fratel­lo trascinato dai pasdaran per le strade di Sanandaj « racconta Fariba, una bella donna che porta con orgoglio il chador verde consentito solo alle di­scendenti del Profeta. Il fratello era un membro del Komaleh, uno di due movimenti indipen­dentisti (l'altro era il Partito De­mocratico Pdki). Fariba era allora una giovane sposa, il matrimonio era stato celebrato pro­prio il giorno in cui lo Scià Pahlevi aveva lasciato l'Iran, ricor­da. La coincidenza era sembrata di buon auspicio, perché le repressioni contro i curdi al tempo dello scià erano state durissime, e i curdi aveva­no sperato nella rivoluzione. Ma anche dopo l'arrivo di Khomeini le cose non migliorarono, gli ayatollah al potere soffo­carono subito ogni speranza di autonomia. La lingua, la musi­ca, la letteratura, perfino gli abi­ti tradizionali curdi furono vie­tati; il territorio curdo fu diviso in quattro province — Kurdi­stan, Kermanshah, Azerbaijan occidentale e Ilan; e i militanti curdi perseguiti fin nell'esilio. A Vienna, nel 1989, cadde in una trappola il capo del Pdki Ghassemlu, ucciso mentre stava trattando con i nuovi dirigenti iraniani (Khomeini era morto da poco), la rinuncia alla lotta armata — ma non quella all'au­tonomia. Il suo successore Sharafkandi fece pochi anni dopo la stessa fine in un ristorante nel centro di Berlino, Mykonos, do­ve entrò un commando e fece fuori tutti a raffiche di mitra.



Anche l'Iran come la Turchia ha una «questione curda». I cur­di sono più di sei milioni, quasi un decimo della popolazione, e da sempre insofferenti del po­tere centrale. Se la vita nelle città si era relativamente pacifi­cata, i villaggi e le montagne so­no sempre rimasti scarsamente controllabili e la presenza di militari un obiettivo per i ribel­li. Il presidente Khatami aveva cercato di avviare il suo «dialo­go delle civiltà» anche con le minoranze etniche — curdi e arabi a ovest, baluci e turkmeni a est, e qualche miglioramento c'era stato. Il Ministero per la Cultura islamica aveva consen­tito la pubblicazione di libri in curdo, l'università di Sanandaj aveva ospitato una conferenza in curdo sulla letteratura di questa etnia, e negli esami di accesso all'università si era smesso di imporre a questa minoranza, sunnita, di rispondere secondo le regole di fede sciite. Ma negli ultimi mesi gli scontri tra ribelli e milizie della Repubblica islamica sono ripresi con violenza. Raid di commando curdi, soldati iraniani uccisi, elicotteri di pasdaran abbattu­ti, rappresaglie sui villaggi sono cronaca quotidiana. I ribelli curdi sostengono che da agosto a oggi cono morti almeno 150 pasdaran, ma in generale — diversamente da quanto accade per i combattimenti tra Pkk ed esercito turco — nessuna delle due parti ha interesse a rendere noti gli scontri.



Teheran accusa gli Stati Uni­ti di finanziare i ribelli, che im­provvisamente sono muniti di armi sempre più moderne e sembrano ottimamente adde­strati. Nella primavera del 2006 Condoleezza Rice annunciò che 75 milioni di dollari sarebbero andati a finanziare «l'opposizione» iraniana, e questa volta, diversamente che nel ca­so dell'Iraq, Washington non giocava più la carta dei «demo­cratici in esilio» bensì quella delle «identità etniche e religiose».



La catena del Kandil, dove ha le sue basi il Pkk, il partito di Ocalan, è al centro di quello Sta­to ideale — tra Iraq, Turchia, Iran e Siria—che i curdi sogna­no di creare, meglio oggi che domani. Dalle cime del Kandil il Pkk ha creato delle filiali in tutti i paesi circostanti. Il partito cur­do — iraniano si chiama Pjak, Partito per una Vita Libera nel Kurdistan. Ufficialmente Pkk e Pjak non hanno nulla a che ve­dere: così almeno ha assicurato il capo del Pjak, Rahmad Haj Ahmadi, durante una visita in agosto a Washington dove ha chiesto e ottenuto finanzia­menti. Il Pkk, che combatte contro un alleato occidentale, la Turchia, è considerato negli Stati Uniti un gruppo terrorista, ma il Pjak non ha questa eti­chetta, perché combatte con­tro uno «Stato canaglia», l'Iran. Tuttavia è chiaro che i due rag­gruppamenti condividono lo­gistica, obbiettivi e lealtà a Oca­lan.



Dopo che sono aumentati i raid del Pjak, i pasdaran hanno triplicato la loro presenza nella regione, e non riuscendo quasi mai a trovare i responsabili de­gli attentati, che compiono dei blitz e ritornano subito dopo nelle basi in Iraq, al di là del con­fine, intensificano la repressio­ne sugli abitanti. Gli spiragli che si erano aperti con Khatami so­no stati tutti richiusi. Chiusi i giornali bilingui, arrestati i giornalisti con accuse di spio­naggio e attentato alla sicurez­za dello Stato, due di loro, Adnan Hassanpour e Hiva Bouto-mar, che lavoravano per la rivi­sta bilingue Assoo (Orizzonti), sono stati condannati a morte.



Cresce anche la povertà degli abitanti, in una regione che è sempre stata tra le più povere dell'Iran perché da sempre negletta dalle autorità centrali. Perfino le coltivazioni sono sta­te spesso messe a fuoco dai pa­sdaran nel tentativo di avvista­re i ribelli.



Il Kurdistan ha un'unica in­dustria agroalimentare, per la conserva di pomodori, nem­meno una fabbrica di marmel­lata o di yogurt sebbene vi cre­scano le fragole più buone del­l'Iran e il latte sia straordinario. Uno su tre giovani è disoccupa­to, l'accesso a posti pubblici è diventato impossibile per un curdo. Per sopravvivere resta solo il contrabbando: benzina, alcool, droga, armi, tutto passa attraverso queste montagne, e i peshmerga naturalmente lo fa­voriscono, in cambio di altrettanti favori e lealtà politica. Co­sì, per le autorità centrali, ogni curdo è un sospetto. Processi iniqui, discriminazioni, sono pane quotidiano.



La gente ha paura, non osa parlare, pasdaran e polizia se­greta sono onnipresenti.



Una stanzetta piena di carte nella città vecchia è la sede di una piccola agenzia di stampa. Una decina di giovani, in mag­gioranza ragazze, raccolgono le notizie che arrivano da tutte le città del Kurdistan e denuncia­no arresti, chiusure di fabbri­che, discriminazioni. Fino a qualche mese fa l'agenzia man­dava le sue notizie all'Una, un'agenzia nazionale a Tehe­ran, ma orai'lina è stata chiusa e solo il giornaleEtemadripren­de ogni tanto i dispacci dell'a­genzia: uno sciopero in una fabbrica tessile, una protesta di studenti, un processo contro cinque colleghi che avevano protestato per l'arresto di un sindacalista, Mahmud Saleghi (tutti condannati a tre mesi di carcere e quaranta frustate). Il direttore della piccola agenzia ci riceve per non venir meno al­la tradizionale ospitalità curda ma è preoccupato che la nostra visita possa costituire un prete­sto per chiudere l'agenzia. «La situazione è diventata irrespi­rabile. Se la repressione conti­nua, ci sarà una sollevazione» dice un redattore del settima­nale Karaftoo. Settimanale per modo di dire, in quattro anni sono usciti 60 numeri. A volte il giornale già pronto è stato vie­tato, a volte è lo stesso direttore che all'ultimo momento decide di rinviare la pubblicazione per riflettere ancora sui rischi. Ka­raftoo ha una tiratura di 5000 copie, che quando compare in edicola vengono vendute nel giro di due giorni. «Il curdo è un curdo in qualsiasi parte del mondo si trovi» è scritto a gran­di lettere sulla porta della redazione.