venerdì 23 maggio 2008

Riprendiamo il discorso sull'abete ...

Il Gazzettino, 23 maggio 2008
Riprendiamo il discorso sull'abete ...
Riprendiamo il discorso sull'abete rosso, di cui abbiamo parlato nella puntata del lontano 1° agosto 2005 della rubrica Allora la brevità dello spazio a disposizione (anche se ci ha consentito comunque di presentare una "panoramica" generale sulla pianta) non ci ha tuttavia permesso di approfondire alcune tematiche fondamentali. Cerchiamo perciò di farlo ora, partendo da miti, leggende storia, legati alla pianta. Scrivevamo allora che l'abete rosso "sembra non avere una personalità mitica propria". E in effetti la gran parte dei miti pare riguardi indistintamente sia l'abete rosso che l'abete bianco. Anzi, a voler essere pignoli, rileggendo la ricca letteratura relativa alle due piante, possiamo affermare che un gran numero di studiosi con il termine "abete" intende indicare l'abete bianco. Per l'abete rosso usa invece il termine esplicito di "abete rosso" appunto o di peccio. Siamo andati allora a rileggere i miti più noti, partendo ovviamente da quelli dell'antica Grecia. Fra essi ci siamo soffermati in particolare su quello più celebre e conosciuto, ovvero quello della ninfa Elatè o Cenide, figlia di Corono (cioè "il corvo"). Innanzi tutto il termine "elatè". In greco, oltre alla divinità femminile Elatè appunto, esso indica anche l'abete o l'abete rosso. Ecco perché abbiamo deciso di trascriverlo (in sintesi ovviamente) riferito proprio a questa pianta. Elatè, protettrice delle donne partorienti e dei neonati, venerata come dea della luna nuova dai Lapiti (popolazione selvaggia della Tessaglia), veniva chiamata anche Kaineides, da "kainizo", ovvero "rinnovare, portare cose nuove". La mitologia ne ha serbato traccia sotto forma di una curiosa storia che Ovidio pone in bocca a Nestore, che, vecchio di duecento anni all'epoca della guerra di Troia, ne sarebbe stato testimone (il che la fa risalire dunque ai tempi eroici).

Un giorno la ninfa Kaineìdes (Cenide) fu posseduta da Poseidone che, soddisfatto, le chiese cosa desiderasse come dono d'amore. "Trasformami in un guerriero invincibile, sono stanca di essere donna", fu la sua risposta. Diventò così Kaineùs (Ceneo), che guidò i Lapiti più volte alla vittoria, fino ad essere proclamato loro re. Ma il potere lo inorgoglì a tal punto che egli piantò la sua lancia (l'abete) nel centro della piazza del mercato e ingiunse al popolo di adorarla e di non avere altro dio all'infuori di essa. Zeus, irritato da tanta presunzione, incitò i Centauri (nemici dei Lapiti) ad assassinarlo. Durante le nozze di Piritoo, Kaineùs assalito si difese, uccidendone facilmente cinque o sei senza subire un graffio, poiché le armi degli assalitori scivolavano sulla sua pelle invulnerabile. Dopo un attimo di sconcerto i Centauri superstiti, ispirati da Zeus, comprendendo che Kaineùs poteva morire solo mediante gli alberi, cambiarono tattica e lo percossero sul capo con tronchi di abete fino a stenderlo a terra, per poi ricoprirlo con una catasta di altri tronchi e soffocarlo. Fu allora che un uccello grigio si levò dalla catasta. Mopso l'indovino, presente all'evento, disse di aver riconosciuto in quell'uccello l'anima di Kaineùs. Al termine delle esequie il corpo aveva riacquistato sembianze femminili.

Il mito adombra probabilmente un rito in onore della Grande Madre che doveva consistere nell'innalzamento di un abete nella piazza del mercato e in una cerimonia rituale in cui uomini nudi, armati di magli, percuotevano sul capo un'effigie della Madre Terra per liberare lo spirito dell'anno nuovo.

Dopo questo mito, veniamo a una leggenda riferita sicuramente, senza bisogno di interpretazioni, all'abete rosso. Siamo in Valtournenche, in Val d'Aosta, in tempi ovviamente più vicini a noi.

Un tempo gli abeti - narra la leggenda - non erano dei sempreverdi e quando giungeva l'autunno perdevano le foglie come tutti gli altri alberi.

In Valtournenche viveva un grande abete i cui rami ospitavano ogni anno i nidi degli uccelli che vi trovavano protezione fino all'arrivo dell'autunno.

Un anno uno di loro si ferì ad un'ala e non potè seguire lo stormo che, come sempre, all'arrivo dei primi freddi, migrava verso paesi più caldi.

Il povero uccellino andava incontro ad un triste destino perché al cadere delle foglie sarebbe morto di freddo. Ma l'abete era robusto e voleva salvare il suo amico a tutti i costi. Il vento cercava in tutte le maniere di portargli via le foglie, ma il grande albero riuscì a resistere fino all'arrivo dell'inverno.

Stupitosi di vedere un albero ancora verde in mezzo ad una distesa bianca, l'inverno chiese spiegazioni all'uccellino che, grazie agli sforzi dell'abete, era riuscito a sopravvivere.

Colpito dalla generosità del grande albero, per ringraziarlo della sua bontà d'animo, gli promise che il vento non avrebbe mai più staccato il suo fogliame.

Questa leggenda ci spinge a una constatazione.

Candido e silenzioso, l'inverno si posa come un manto su gli ombrosi boschi di montagna. Le conifere, mosse dall'aria gelida,ondeggiano all'apice e soffici fiocchi di neve discendono delicati, come piccoli sogni sospinti dall'alto respiro ad incantare la terra.

La natura dorme... la vita si assopisce... gli abeti, invece, "vegliano"!

Nel cuore dell'inverno (mentre moltissimi alberi si spogliano e sembra stiano morendo) l'abete conserva il suo verde intenso, i suoi aghi e la sua chioma folta e resistente. Questa sua caratteristica, simile a quella degli altri sempreverdi, fu interpretata dagli antichi come simbolo di immortalità, di vita pulsante che perdura immutata al di là dei cicli d'esistenza sulla terra; al di là del sonno e del risveglio che si susseguono incessanti.

L'abete è simbolicamente legato al solstizio invernale, poiché esso richiama la rigenerazione profonda, lo sbocciare della vita luminosa nel centro dell'oscurità, e quindi la nascita del Fanciullo divino, del Sole lucente, il cui cammino di discesa nelle profondità della terra si conclude nella notte più lunga dell'anno e quello di emersione ha inizio, in concomitanza con l'allungarsi della durata delle giornate.

E siamo così arrivati alle credenze dei popoli germani e dei Celti.

(1 - continua)

A cura dell'Associazione Forestali d'Italia

e della Direzione centrale per le risorse agricole, forestali, naturali e montagna

della regione Friuli Venezia Giulia